Dalla letteratura

L’efficacia dei farmaci oncologici dipende da chi finanzia gli studi

Due decenni fa, uno studio diventato un riferimento obbligato e uscito sul BMJ ha esaminato il ruolo potenziale del conflitto di interessi (COI) negli studi su aspetti di ordine economico in oncologia. Miners et al.1 riportavano che gli studi finanziati dalle industrie farmaceutiche avevano maggiori probabilità di arrivare a conclusioni favorevoli per i farmaci rispetto agli studi finanziati da entità senza scopo di lucro. I risultati di questi e di altri autori2 sono in linea con quanto è stato pubblicato sui COI nella letteratura medica in generale a proposito degli studi di costo-efficacia. Tuttavia, poche ricerche hanno cercato di chiarire con quale frequenza i COI sono riportati nella letteratura scientifica e quali siano i loro effetti sui risultati degli studi di costo-efficacia. Inoltre, non vi è stata alcuna ricerca focalizzata esclusivamente sull’oncologia medica. Anche per questo è interessante lo studio pubblicato su JAMA Open3 che ha esaminato gli studi di costo-efficacia per i farmaci oncologici approvati dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti tra il 2015 e il 2020 e ha cercato di valutare l’associazione tra costo-efficacia dei medicinali (come riferita dai singoli studi) e caratteristiche degli studi e dei farmaci.




Nell’analisi degli studi di costo-efficacia sui farmaci oncologici, gli autori hanno scoperto che il fattore determinante associato alla “convenienza” del farmaco era se lo studio era stato finanziato o meno dall’industria farmaceutica. Questo elemento sembra essere associato a un rapporto positivo di costo-efficacia anche quando si considerino gli esiti terapeutici o clinici (per es., sopravvivenza complessiva o sopravvivenza libera da malattia).

Nel 2016, le raccomandazioni aggiornate sulla metodologiche e sulla rendicontazione degli studi di rapporto costo-efficacia4 sottolineavano come gli studi dovrebbero rivelare le fonti di finanziamento e i potenziali COI. Raccomandazioni sostanzialmente disattese. Primo, molti autori e riviste non aderiscono a queste raccomandazioni. Oltre il 20% degli studi considerati nell’analisi, la maggior parte dei quali pubblicati dopo l’uscita delle raccomandazioni, non ha rivelato fonti di finanziamento e gli studi che non hanno riportato finanziamenti avevano maggiori probabilità di arrivare a conclusioni favorevoli al farmaco in studio. In secondo luogo, anche incoraggiare gli autori a riportare i COI potrebbe non essere sufficiente per ovviare alle distorsioni nelle analisi di costo-efficacia: le probabilità che uno studio riporti un rapporto costo-efficacia favorevole per un medicinale è oltre 40 volte maggiore tra gli studi finanziati dalle aziende farmaceutiche rispetto a quelli supportati da organizzazioni no profit.

«Teniamolo in mente la prossima volta che leggiamo i risultati di uno studio sulla costo-efficacia di un farmaco oncologico» ha commentato su Twitter John Vaughn, del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Più rassegnato Brian Kavanagh, direttore della Radioterapia oncologica dell’università di Colorado: «E in una prossima breaking news, leggeremo che l’acqua è bagnata…».

Bibliografia

1. Miners AH, Garau M, Fidan D, Fischer AJ. Comparing estimates of cost effectiveness submitted to the National Institute for Clinical Excellence (NICE) by different organisations: retrospective study. BMJ 2005; 330: 65.

2. Friedberg M, Saffran B, Stinson TJ, Nelson W, Bennett CL. Evaluation of conflict of interest in economic analyses of new drugs used in oncology. JAMA 1999; 282: 1453-7.

3. Haslam A, Lythgoe MP, Greenstreet Akman E, Prasad V. Characteristics of cost-effectiveness studies for oncology drugs approved in the United States from 2015-2020. JAMA Netw Open 2021; 4: e2135123.

4. Sanders GD, Neumann PJ, Basu A, et al. Recommendations for conduct, methodological practices, and reporting of cost-effectiveness analyses: second panel on cost-effectiveness in health and medicine. JAMA 2016; 316: 1093-103.

L’impatto del cancro e delle terapie su covid-19

I pazienti oncologici sono a particolare rischio di contrarre covid-19. Da una revisione della letteratura scientifica è emerso che i pazienti con cancro ai polmoni hanno una probabilità di contrarre la malattia sette volte superiore alla popolazione generale, una probabilità di essere ricoverati tre volte superiore e un tasso di mortalità complessiva del 30% circa. Alcuni studi hanno offerto una panoramica utile per clinici e decisori sanitari1-3.

Tra le ragioni che determinano questa maggiore fragilità dei pazienti oncologici c’è indubbiamente l’impatto sul sistema immunitario delle terapie alle quali sono sottoposti. I ricercatori dell’Anderson Cancer Center di Houston hanno analizzato il decorso clinico di oltre mezzo milione di persone con covid-19 mettendo a confronto l’esito della malattia nelle persone libere da malattia oncologica con quello in pazienti oncologici non trattati e pazienti oncologici che avevano effettuato negli ultimi tre mesi trattamenti come radioterapia o chemioterapia.

Rispetto ai pazienti non oncologici, i pazienti oncologici non sottoposti di recente a terapie hanno avuto un rischio simile di decesso o di necessità di ventilazione meccanica. Nei pazienti oncologici trattati, invece, c’è stato un significativo aumento di rischio di decesso e di ricorso a trattamenti invasivi. Esiti peggiori si sono verificati in particolare nei malati con tumori solidi metastatici, con neoplasie ematologiche e nelle persone sottoposte recentemente a chemioterapia.

Bibliografia

1. Rolfo C, Meshulami N, Russo A, et al. Lung Cancer and SARS-CoV-2 infection: identifying important knowledge gaps for investigation. J Thorac Oncol 2021; S1556-0864(21)03309-8.

2. Chavez-MacGregor M, Lei X, Zhao H, Scheet P, Giordano SH. Evaluation of COVID-19 mortality and adverse outcomes in US patients with or without cancer. JAMA Oncol 2021; e215148.

3. Andersen KM, Bates BA, Rashidi ES, et al. Long-term use of immunosuppressive medicines and in-hospital COVID-19 outcomes: a retrospective cohort study using data from the National COVID Cohort Collaborative. Lancet Rheumatol 2021; 15 novembre.

Efficacia di mascherine, distanziamento e lockdown: una revisione sistematica

Gli interventi di sanità pubblica (o non farmacologica) hanno dimostrato di essere utili nel combattere le infezioni respiratorie trasmesse attraverso contatto, droplet e aerosol. Dato che SARS-CoV-2 è altamente trasmissibile, è importante mettere a fuoco il problema, ma non è facile determinare quali misure potrebbero essere più efficaci e sostenibili per un’ulteriore prevenzione. Da questa premessa sono partiti gli autori di una revisione sistematica pubblicata sul BMJ che ha rapidamente avuto una forte eco sui social media da parte di lettori di ogni parte del mondo1.




Benefici sostanziali nella riduzione della mortalità sono stati osservati in nazioni che hanno scelto di attuare lockdown generali, come Australia, Nuova Zelanda, Singapore e Cina. Una scelta, tuttavia, poco sostenibile che deve essere resa più flessibile e personalizzata, per tutelare la vita sociale e mantenere il funzionamento del sistema economico proteggendo gli individui ad alto rischio. Le precedenti revisioni sistematiche dell’efficacia delle misure di sanità pubblica per il trattamento di covid-19 non includevano studi analitici e non prevedevano un approccio globale alla sintesi dei dati (concentrandosi solo su una misura). Per affrontare queste lacune, gli autori hanno eseguito una revisione sistematica delle prove sull’efficacia delle misure di salute pubblica sia individuali sia di comunità nel ridurre l’incidenza di covid-19, trasmissione di SARS-CoV-2 e mortalità per covid-19. Quando possibile, è stata anche svolta una valutazione critica delle prove e una meta-analisi.

La revisione sistematica ha identificato una riduzione statisticamente significativa dell’incidenza di covid-19 attraverso l’implementazione dell’uso della mascherina e del distanziamento fisico. Anche il lavaggio delle mani sembra indurre una riduzione dell’incidenza di covid-19, sebbene non statisticamente significativa. L’efficacia complessiva di questi interventi è stata influenzata dall’eterogeneità clinica e dai limiti metodologici, quali errori di confondimento e di misurazione. A causa della mancanza di dati, non è stato possibile valutare l’impatto del tipo di mascherine (per es., chirurgiche, in tessuto, N95) e la conformità e la frequenza di indossarle. Allo stesso modo, non è stato possibile valutare le differenze di effetti come strategie preventive che diverse raccomandazioni per il distanziamento fisico (cioè 1,5 m, 2 m o 3 m) hanno avuto. L’efficacia di misure come i lockdown e le chiusure di imprese e scuole per il contenimento di covid-19 è stata ampiamente efficace, ma dipendeva dalla loro attuazione precoce, quando i tassi di incidenza di covid-19 erano ancora bassi.

L’isolamento o la permanenza a casa si è rivelata una misura efficace per ridurre la trasmissione di SARS-CoV-2, ma gli studi inclusi hanno fatto ricorso ai dati sulla mobilità per valutare la permanenza a casa o l’isolamento e quindi possono essere condizionati da potenziali difetti nella qualità del dato. La quarantena si è rivelata efficace nel ridurre l’incidenza di covid-19 e la trasmissione di SARS-CoV-2, tuttavia la variabilità nei test e nel rilevamento dei casi nei contesti a basso reddito è sostanziale.

Come concludono gli autori, «alcune delle misure di sanità pubblica sembrano essere più rigorose di altre e hanno un impatto maggiore sulle economie e sulla salute delle popolazioni. Quando si attuano misure di sanità pubblica, è importante considerare le esigenze sanitarie e socioculturali specifiche delle comunità e valutare i potenziali effetti negativi delle misure di sanità pubblica rispetto agli effetti positivi per la popolazione generale. Sono necessarie ulteriori ricerche per valutare l’efficacia delle misure di sanità pubblica dopo che sia stata raggiunta un’adeguata copertura vaccinale. È probabile che un ulteriore controllo della pandemia di covid-19 dipenda non solo dall’elevata copertura vaccinale e dalla sua efficacia, ma anche dalla continua aderenza a misure di salute pubblica efficaci e sostenibili».

«Le conclusioni sono incoraggianti, ma la scarsità di prove di buona qualità per gli interventi di sanità pubblica durante la pandemia non lo è» ha commentato nella sua Editor’s Choice Fiona Godlee2. L’editor del BMJ (giunta all’ultimo mese della sua direzione) ha proseguito: «Dei 35 studi di qualità sufficiente per essere inclusi nella revisione, solo uno era uno studio randomizzato, ed era troppo piccolo. Gli altri erano tutti studi osservazionali, inclusi studi naturali, e gli effetti sono probabilmente il risultato di un insieme di comportamenti protettivi piuttosto che singoli interventi. Ci mancano prove di questo livello per valutare i benefici e i danni di lockdown, quarantena, isolamento, chiusure di frontiere, scuole e luoghi di lavoro, o maggiore ventilazione interna e socializzazione all’aperto. Questa mancanza di prove è una delle tragedie della ricerca sulla pandemia. Solo il 4% dei finanziamenti mondiali per la ricerca sulla covid-19 è stato destinato a misure di sanità pubblica. Studi migliori sono all’orizzonte, in particolare due grandi studi randomizzati a cluster sull’uso di mascherine in Bangladesh e Guinea-Bissau. Una migliore evidenza dovrebbe incoraggiare un processo decisionale più informato».

«Uno sviluppo positivo» – scrivono Paul Glasziou, Susan Michie e Atle Fretheim in un editoriale di commento – «è una recente iniziativa dell’Organizzazione mondiale della sanità, sostenuta dal governo norvegese, per rafforzare “la base di prove globali per fornire una guida attuabile e basata su tali misure per i responsabili delle decisioni”. Questo è realizzabile solo se la comunità globale di ricercatori, professionisti e decisori della sanità pubblica è pronta e ha la capacità di condurre gli studi tanto necessari e i finanziatori sono pronti a finanziarli»3.

Bibliografia

1. Talic S, Shah S, Wild H, et al. Effectiveness of public health measures in reducing the incidence of covid-19, SARS-CoV-2 transmission, and covid-19 mortality: systematic review and meta-analysis. BMJ 2021; 375: e068302.

2. Godlee F. Investing in public health is our best route to sustainable healthcare. BMJ 2021; 375: n2812. 

3. Glasziou PP, Michie S, Fretheim A. Public health measures for covid-19. BMJ 2021; 375: n2729.

Fluvoxamina protegge da covid-19?

In un ampio studio di coorte multicentrico retrospettivo su 83.584 pazienti con covid-19 che hanno fatto ricorso al pronto soccorso o sono stati ricoverati in osservazione o in reparto in 87 centri sanitari negli Stati Uniti, Oskotsky et al.1 hanno osservato una associazione tra somministrazione di inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e riduzione della mortalità nei 3401 pazienti con covid-19 rispetto ai 6802 pazienti del gruppo di controllo a cui non erano stati somministrati SSRI ma condividevano caratteristiche sociodemografiche simili e comorbilità. I risultati confermano quelli di precedenti studi osservazionali, preclinici e clinici che suggeriscono che alcuni antidepressivi SSRI, tra cui fluoxetina o fluvoxamina, possano essere utili contro covid-19.

L’uso di fluoxetina o fluvoxamina, se dimostrato efficace, dovrebbe essere considerato come un potenziale mezzo per controllare covid-19, sostengono gli autori. Date l’urgente necessità di un trattamento efficace e di facile somministrazione contro covid-19, specialmente nei paesi poveri, e la crescente evidenza dell’efficacia di questi farmaci per questa indicazione, sia alla fluoxetina (che si trova nell’elenco dei farmaci essenziali dell’Organizzazione mondiale della sanità) sia alla fluvoxamina (che ha mostrato risultati molto incoraggianti in 3 studi clinici) dovrebbe essere data la priorità nel disegno di studi clinici di fase 3 su larga scala in diversi stadi della malattia, da soli o in combinazione con altri farmaci. Questo approccio potrebbe arricchire il ventaglio di opzioni disponibili nella lotta globale contro covid-19 con una classe di medicinali economici, conosciuti e di facile somministrazione.

Bibliografia

1. Hoertel N. Do the selective serotonin reuptake inhibitor antidepressants fluoxetine and fluvoxamine reduce mortality among patients with COVID-19? JAMA Netw Open 2021; 4: e2136510.

Perdere genitori per covid-19

Covid-19 ha messo a dura prova un numero impressionante di bambini e ragazzi che hanno perso le persone più importanti della loro vita, sottolinea un’interessante panoramica preparata dalla redazione del JAMA1. L’articolo che fa riferimento anche a un recente studio pubblicato su Pediatrics2 che ha stimato che 142.637 giovani statunitensi hanno perso un genitore, un nonno affidatario o un nonno caregiver a causa di covid-19 dal 1° aprile 2020 al 30 giugno 2021. Un dato spaventoso che comprende sia i decessi diretti per covid-19 sia le morti causate a difficoltà dovute alla pandemia ma dipendenti dal ridotto accesso all’assistenza sanitaria. «In tutto il mondo, più di 1,1 milioni di bambini hanno perso almeno 1 genitore o nonno affidatario nei primi 14 mesi della pandemia», secondo uno studio uscito su The Lancet3.

A differenza di altri eventi come disastri naturali o attacchi terroristici, la minaccia della pandemia è inesorabile, spiegano alcuni esperti intervistati dalla rivista statunitense. Ma a causare angoscia o altri disturbi psichici sono anche altre caratteristiche della crisi sanitaria. Le morti per covid-19 colpiscono i bambini anche in altri modi. Per esempio, i minori in lutto per un genitore o un caregiver che non ha accettato di farsi vaccinare o di indossare una maschera o ha addirittura negato l’esistenza di covid-19 possono provare rabbia o vergogna, come anche subire lo stigma da parte di coetanei o altri al di fuori della famiglia.

«La perdita di un genitore – leggiamo sempre sul JAMA – è tra le esperienze avverse dell’infanzia (ACE) associate a significativi problemi di salute mentale: depressione, disturbo da stress post-traumatico (PTSD), ideazione e tentativi di suicidio e aumento del rischio di abuso di sostanze, violenza, comportamenti sessuali a rischio e abuso sessuale, e scolarizzazione più breve». L’impatto degli ACE è cumulativo, con i bambini che hanno sperimentato più importanti fattori di stress a più alto rischio di conseguenze sulla salute mentale gravi e a lungo termine. Lo studio uscito su Pediatrics ha rilevato che il 65% dei bambini che hanno perso un caregiver a causa di covid-19 proviene da minoranze etniche. Gli autori hanno avuto conferma di quanto emerso anche da altri studi, vale a dire che questi gruppi hanno una maggiore esposizione al virus perché sono rappresentati in modo sproporzionato in lavori essenziali e hanno maggiori probabilità di vivere in case in cui sono presenti componenti familiari di più generazioni.

Una “buona” notizia è che la maggior parte dei bambini e dei loro caregiver che sperimentano la morte prematura di una persona cara ha la capacità di recupero per superare il dolore rapidamente. I medici possono aiutare ad alleviare le ansie dei bambini riguardo a possibili ulteriori perdite per covid-19 in famiglia, sottolineando l’importanza delle misure di sicurezza. Per esempio, la visita di un bambino da un medico può essere un momento opportuno per sollecitare il genitore sopravvissuto o il caregiver a farsi vaccinare. Inoltre, alcuni specifici interventi su misura per bambini e adolescenti in lutto possono aiutare i giovani a elaborare e trovare un significato alla morte e scoprire opportunità per sentirsi in contatto con la persona amata che hanno perso.




Bibliografia

1. Slomski A. Thousands of US youths cope with the trauma of losing parents to COVID-19. JAMA. Published online November 17, 2021.

2. Hillis SD, Blenkinsop A, Villaveces A, et al. COVID-19-associated orphanhood and caregiver death in the United States. Pediatrics. 2021 Oct 7:e2021053760.

3. Hillis S, Unwin J, Cluver L, et al. Children: the hidden pandemic 2021: a joint report of COVID-19-associated orphanhood and a strategy for action. Lancet 2021; 398: 391-402.

Messaggi per proteggersi da covid-19

Il servizio Covid Watch consiste di messaggi di testo automatizzati due volte al giorno che offrono alle persone contagiate l’opzione di segnalare il peggioramento dei sintomi in qualsiasi momento. Tutte le escalation sintomatologiche sono state gestite 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana da medici dedicati a questo servizio di telemedicina.

Uno studio ha coinvolto 3488 pazienti inseriti nel programma Covid Watch e 4377 pazienti (come gruppo di controllo) che hanno invece seguito cure abituali1. A 30 giorni, tra i pazienti del gruppo Covid Watch si sono verificati 1,8 decessi in meno per 1000 pazienti; a 60 giorni, la differenza era di 2,5 decessi in meno per 1000 pazienti. I pazienti in Covid Watch hanno avuto più incontri di telemedicina, visite al pronto soccorso e ricoveri e si sono presentati al pronto soccorso più precocemente.

A giudizio degli autori, lo studio offre quattro risultati principali. Innanzitutto, il tasso di mortalità per gli anziani residenti in comunità con covid-19 era significativamente più basso tra quelli inseriti nel programma Covid Watch, anche dopo aggiustamento per differenze nelle caratteristiche cliniche e sociodemografiche dei pazienti. In secondo luogo, più di un terzo dei decessi nel gruppo di controllo (cure abituali) si è verificato al di fuori dell’ospedale rispetto a nessuno tra quelli in Covid Watch. In terzo luogo, i pazienti in Covid Watch avevano maggiori probabilità di presentarsi in ospedale e si sono presentati più tempestivamente. In quarto luogo, la mortalità si è ridotta in tutti i principali sottogruppi etnici quando i pazienti erano iscritti a Covid Watch.

L’inclusione in un programma come Covid Watch è dunque associata a una riduzione relativa del 64% del rischio di morte e i risultati dicono che è stata salvata 1 vita ogni 400 pazienti arruolati. Il servizio di alert e messaggi ha fortemente promosso la permanenza a domicilio come strumento per promuovere il distanziamento sociale e ridurre la pressione ospedaliera durante la pandemia. Ma occorre fare attenzione, perché i messaggi non ben concepiti possono accompagnarsi a un aumento dei decessi extraospedalieri. Invece, in questo studio il 37,5% dei decessi tra i pazienti che hanno ricevuto le cure abituali si è verificato al di fuori dell’ospedale rispetto a nessuno tra i pazienti in Covid Watch, il che è coerente con l’interpretazione secondo cui Covid Watch esercita il suo effetto aumentando la vigilanza nelle persone a domicilio e suggerendo di ricorrere a un consulto ospedaliero in caso di aggravamento dei sintomi.

Gli autori portano a esempio la prescrizione di desametasone che riduce la mortalità e la durata della degenza per i pazienti con covid-19, ma il beneficio può essere maggiore se il farmaco viene somministrato prima nel decorso della malattia. Tra coloro che hanno ricevuto desametasone, i pazienti Covid Watch hanno ricevuto il farmaco in media 3 giorni prima.

La combinazione di un monitoraggio remoto automatizzato e basato sulla tecnologia, supportato dal medico, può dunque essere un elemento importante. Da considerare anche che, grazie al fatto che Covid Watch era automatizzato, erano necessari solo da 2 a 4 membri del personale per supervisionare più di 1000 pazienti. Basandosi sull’autovalutazione dei sintomi, Covid Watch non richiedeva sensori di temperatura dedicati o saturimetro. Sarebbero necessarie altre ricerche per determinare se questo tipo di servizio di monitoraggio possa essere adattato ad altre condizioni acute e croniche (per es., asma o diabete) in cui i servizi di messaging potrebbero migliorare i risultati.




Bibliografia

1. Delgado MK, Morgan AU, Ash DA. Comparative effectiveness of an automated text messaging service for monitoring COVID-19 at home. Ann Intern Med 2021; 16 novembre.

Standard-of-care in covid-19: di cosa parliamo?

Le linee guida del Council for International Organizations of Medical Sciences affermano che i partecipanti al gruppo di controllo di uno studio devono ricevere un intervento efficace riguardo alla cui utilità esista un consenso condiviso (standard-of-care – SoC). In passato, la corretta interpretazione del SoC ha generato molte controversie tra ricercatori, medici e policy maker. La pandemia di SARS-CoV-2 ha alimentato un gran numero di studi clinici su diversi tipi di interventi per il trattamento di covid-19. La maggior parte di questi interventi misura l’efficacia rispetto a un SoC o altri comparatori anche se non al momento dell’avvio della quasi totalità degli studi non era disponibile una definizione di cosa potesse rappresentare il miglior trattamento standard. Una potenziale preoccupazione di questi studi è che la volontà di rispondere rapidamente all’emergenza pandemica ottenendo risultati favorevoli potesse condizionare la determinazione dello SoC da utilizzare come confronto per i trattamenti sottoposti a valutazione. Infatti, l’utilizzo di SoC subottimali può influenzare uno studio a favore o addirittura contro il braccio sperimentale e riduce la validità esterna: in altre parole, lo studio non è in grado di rispondere al quesito di ricerca quasi sempre rappresentato dall’incertezza sull’efficacia e la sicurezza del nuovo agente proposto.

Alla luce della preoccupazione per uno SoC non compiutamente definito negli studi sulle terapie per covid-19, alcuni ricercatori italiani hanno analizzato le caratteristiche degli SoC adottati negli studi clinici farmacologici su covid-191. Nel contesto di una living systematic review sugli interventi farmacologici per covid-19, sono state dunque valutate le caratteristiche dello SoC adottato negli RCT pubblicati.

La revisione sistematica è stata eseguita consultando MEDLINE/PubMed, Embase, Cochrane Covid-19 register, international trial register, medRxiv, bioRxiv e arXiv fino al 10 aprile 2021. Sono stati incusi tutti gli RCT che avessero messo a confronto qualsiasi intervento farmacologico per covid-19 con qualsiasi farmaco, placebo o SoC. L’analisi ha considerato 144 RCT, che hanno arruolato complessivamente 78.319 pazienti. La maggior parte di questi studi prevedeva uno SoC (108; 75,0%), in alcuni casi previsto in tutti i bracci dello studio (69,7%) ma in altri solo come comparatori indipendenti (30,3%). I trattamenti ancora in corso di valutazione in altri studi sono stati inclusi nel SoC (SoC+) in 67 casi (62,0%). In questi studi sono stati contati 31 diversi agenti terapeutici (da soli o in combinazione): principalmente idrossiclorochina o clorochina (28), lopinavir/ritonavir (20) o azitromicina (16). In 41 studi (38,0%) nessuna specifica è stata fornita riguardo cosa consistesse lo SoC nei gruppi di controllo.

La revisione – concludono gli autori – sottolinea come i risultati di diversi studi clinici riguardanti l’efficacia e la sicurezza dell’intervento farmacologico per covid-19 potrebbero essere compromessi dalla qualità del trattamento utilizzato nei bracci di controllo. Anche in una fase di emergenza quale quella che abbiamo appena vissuto la credibilità dei dati di efficacia rimane fortemente influenzata dalla qualità metodologica adottata.




Bibliografia

1. Addis A, Amato L, Cruciani F, et al. The Standard of Care definitions on COVID-19 pharmacological clinical trials: a systematic review. Front Pharmacol 2021; 12: 749514.

Quanto costa la peer review e come ridurne il peso

Uno dei principali prodotti del sistema di pubblicazione accademica, l’articolo proposto a una rivista scientifica, è una coproduzione tra ricercatori e chi lavora in o per la rivista stessa: direttori, redattori, revisori e così via. «I ricercatori forniscono valore non solo svolgendo la ricerca e scrivendo i risultati come un manoscritto, ma anche fungendo da revisori tra pari» spiegano gli autori di un interessante articolo uscito su una rivista del gruppo BMV1. Lo staff editoriale fornisce un insieme di servizi tra cui la selezione dei lavori giudicati “migliori”, lo screening di argomenti e autori e la diffusione/disseminazione degli articoli, inclusa la garanzia di una (corretta) indicizzazione dei metadati nei database bibliografici. Sebbene siano disponibili diverse stime accurate riguardo al costo della pubblicazione accademica, un aspetto che queste valutazioni spesso trascurano è il costo delle revisioni tra pari2. L’obiettivo degli autori dello studio prima citato era proprio quello di fornire una stima tempestiva del contributo dei revisori al sistema di pubblicazione in termini di tempo e di valore economico nonché di discuterne le implicazioni.

Nel loro ruolo di revisori tra pari, clinici e ricercatori lavorano per migliorare i contributi di altri ricercatori valutandone la loro qualità. Regalano il proprio tempo e le loro competenze per fornire una valutazione dettagliata e suggerimenti per rendere più utili, comprensibili e pubblicabili dei “manoscritti”. In media, un revisore completa 4,73 recensioni all’anno, tuttavia esistono peer reviewer capaci di eseguire più di mille revisioni all’anno.

In genere un articolo è sottoposto a più revisioni prima dell’accettazione e ogni passaggio coinvolge due o più ricercatori come revisori tra pari. Il lavoro di peer review è raramente riconosciuto formalmente o direttamente compensato economicamente: la maggior parte dei centri universitari o ospedalieri sembra aspettarsi che i professionisti svolgano lavori di revisione come parte della loro attività di ricerca o di servizio. Gli autori dello studio, però, stimano che il tempo totale dedicato dai revisori alla peer review è stato di oltre 130 milioni di ore nel 2020, equivalenti a quasi 15 mila anni. Il valore economico stimato del tempo investito dai revisori statunitensi è stato di oltre 1,5 miliardi di dollari nel 2020. Per i revisori con sede in Cina, la stima è di oltre 600 milioni di dollari e per quelli che risiedono nel Regno Unito vicino a 400 milioni di dollari. Si tratta di stime approssimative, che però aiutano a farsi un’idea dell’enorme quantità di lavoro e di tempo che i ricercatori regalano al sistema di pubblicazione. Si può concludere che il tempo dei referee è probabilmente retribuito da università e istituti di ricerca.

Senza grandi riforme, sembra improbabile che la revisione possa diventare meno costosa, anche perché è difficile che la revisione tra pari possa essere automatizzata con la stessa facilità con cui si sta trasformando l’industria della comunicazione e del publishing. A ogni modo, alcuni tentativi di risparmiare sono già iniziati. La direzione di alcune riviste condivide revisioni col sistema noto come “revisione tra pari a cascata”. Altre riviste pubblicano le revisioni effettuate, anche se spesso sono oscurate se l’articolo non viene accettato. Allo stesso modo, Peer Community In (peercommunityin.org) sollecita revisioni di preprint che possono poi essere utilizzate da riviste.

Servono soluzioni più radicali: per esempio, ridurre la quantità di ricerca portata avanti. Va detto che di recente la qualità (invece della quantità delle pubblicazioni) ha cominciato a essere maggiormente valorizzata da alcuni enti finanziatori e questo potrebbe moderare il tasso di crescita del numero di pubblicazioni e potenzialmente l’onere della revisione tra pari. Un aumento più sostanziale dell’efficienza potrebbe derivare dal coinvolgimento nella peer review di clinici e ricercatori con meno esperienza di quanto tradizionalmente previsto. I direttori delle riviste tradizionalmente puntano in alto, ma potrebbero cercare collaboratori giovani da “istruire” al lavoro di valutazione facilitato dal ricorso alle checklist disponibili.

Lo studio ha il merito di sollecitare una riflessione concreta su un argomento di cui si parla poco, ma che ha molta importanza: influisce sui costi della ricerca, sui costi dell’accesso alla conoscenza e sulla qualità di quest’ultima, e incide sulle dinamiche delle carriere accademiche.




Bibliografia

1. Aczel B, Szaszi B, Holcombe AO. A billion-dollar donation: estimating the cost of researchers’ time spent on peer review. Res Integr Peer Rev 2021; 6: 14.