Come funziona l’editoria scientifica
Luca De Fiore

Riassunto. L’editoria medico-scientifica sta cambiando: l’intero processo della comunicazione (la produzione e l’erogazione dei contenuti, la loro distribuzione e disseminazione) è chiamato in causa. L’obiettivo di questo articolo è passare in rassegna alcuni dei temi chiave tra quelli attualmente affrontati dalla comunità editoriale e scientifica; allo stesso tempo, fornire una cornice essenziale che possa aiutare il clinico e il ricercatore a farsi un’idea. La prima parte propone i “fatti e le cifre” dell’editoria periodica medica, dopo le fusioni e le acquisizioni che, negli ultimi vent’anni, ne hanno cambiato la fisionomia. Successivamente, viene spiegato come la continua crescita di dimensioni dei cataloghi, le innovazioni tecnologiche e le pressioni accademiche hanno portato a nuovi modelli di business e a diversi formati editoriali. Infine, l’articolo si sofferma sull’impatto di un più ampio accesso alla informazione online, sia sugli editori sia sugli autori e i lettori. In conclusione, le principali preoccupazioni riguardano la cosiddetta “single-article economy”, derivante da uno stile di consultazione “al bisogno” della letteratura biomedica; c’è la possibilità che questo nuovo modello editoriale rappresenti un rischio per il personale sanitario, nella misura in cui potrebbe impedirgli di valutare i singoli elementi di letteratura scientifica (articoli, revisioni, linee guida, ecc.) in una più circostanziata cornice culturale.

Parole chiave. Accesso alle conoscenze, editoria scientifica, educazione continua in medicina, politiche editoriali.


Summary. How Scientific Publishing works.
Scientific, Technical and Medical Publishing (STM) is changing: the whole communication process (content production and delivery, distribution and dissemination) is involved in the change. The objective of this paper is to review some of the key issues currently faced by the publishing and scientific community; the review is also an attempt to provide a basic framework to clinical practitioners and researchers. The first section of the paper presents the main “facts and figures” of the STM landscape, following the mergers and acquisitions of the last 20 years. Then, the paper explains how the continual growth of catalogues, innovation and academic pressures generated new business models and publishing formats. Finally, the article considers the impact of the wider access to online information, on both publishers, authors and readers. In conclusion, the main concern expressed by the author is that the so-called “single-article economy” could probably be the next step of the STM publishing environment, in a perspective of a “just-in-time” usage of medical literature; this could represent a challenge for professional readers that will be less aware of brand and journal context, losing the opportunity to consider the single publishing items (papers, reviews, guidelines, etc.) in a deeper cultural framework.

Key words. Access to information, continuing medical education, editorial policies, publishing.

I “numeri” dell’editoria scientifica
Il mercato complessivo dell’editoria periodica del segmento Scientific Technology Medicine (STM) valeva, nel 2006, circa 7 miliardi di dollari. L’industria dà lavoro a 90 mila persone, delle quali il 40 per cento (36 mila circa) lavorano in Europa. Altre 30-40 mila persone, pur non essendo direttamente impiegate da industrie editoriali, devono il proprio lavoro al mercato del publishing. Se teniamo conto non solo delle riviste ma anche degli altri prodotti editoriali – libri, banche dati, CD-Rom e così via – il fatturato complessivo 2006 raggiungeva i 12 miliardi di euro. Si tratta del 5 per cento circa dell’intero mercato editoriale nel mondo . Gli editori scientifici e tecnici sono circa 2 mila; il 30 per cento è costituito da società scientifiche che pubblicano in proprio; il 64 per cento da editori commerciali a scopo di lucro, e il restante 6 per cento da editrici universitarie, le tradizionali “University press” anglosassoni che, in genere, hanno l’obbligo di reinvestire gli utili in nuove attività editoriali1.

Il gruppo Reed Elsevier è l’attore principale nel mercato STM. Nel 2006, i dati forniti da “Livres Hebdo” indicavano un fatturato di oltre 5.800 milioni di euro, ai quali si aggiungevano i 2.308 della Lexus Nexis e i 2.236 di Elsevier Science. Tra i gioielli della casa editrice anche il settimanale The Lancet e la casa editrice Masson.

Il 2 per cento degli editori internazionali produce il 70 per cento del totale delle riviste STM.

Sono oltre 23 mila i periodici medico-scientifici e pubblicano circa 1 milione e 400 mila articoli l’anno: circa 3.800 ogni giorno.
Il numero di contributi pubblicati aumenta al ritmo del 3 per cento annuo. La crescita del numero di articoli è proporzionale all’aumento delle riviste (+3,5% negli ultimi due secoli). Si tratta di un trend destinato a non diminuire. Soprattutto se consideriamo il ritmo con cui aumentano i contributi della comunità scientifica asiatica; la produzione scientifica giapponese cresce costantemente da anni, ma quella dell’Estremo Oriente aumenta a un passo assai più impetuoso. Del resto l’incremento delle pubblicazioni è direttamente proporzionale all’aumento del numero dei ricercatori 2; esistono dati inequivocabili che legano il numero di pubblicazioni a quello dei medici e degli altri scienziati attivi nella ricerca negli Stati Uniti; dati analoghi potrebbero essere ottenuti analizzando la situazione negli altri Paesi. Il problema della ricerca americana, semmai, è nella relazione tra lo spazio occupato da lavori originali statunitensi sulle riviste internazionali e il finanziamento della ricerca. Ad una diminuzione dello spazio disponibile – anche conseguente alla contemporanea espansione dei contributi europei e asiatici – sembra concretamente corrispondere una riduzione della generosità da parte del Congresso statunitense.

Si pubblica molto, anzi moltissimo. Eppure la stesura di un articolo scientifico impegna un ricercatore per quasi cento ore3. Una quantità di tempo che sembra addirittura calcolata per difetto, almeno nel caso di sperimentazioni cliniche di ampia portata. La prima redazione del testo, però, non è che una parte del processo di produzione di un articolo. La fase della peer review, pur variando da rivista a rivista e – soprattutto – pur essendo più o meno impegnativa e accurata a seconda della tipologia di periodico, impegna da due a tre revisori per un tempo che difficilmente è inferiore alle 5 ore 4.
Quantunque si tratti di una collaborazione volontaria che è vista molto spesso come una promozione da parte di chi viene invitato dalla direzione di una rivista ad agire da referee, tuttavia la gestione del processo di referaggio di un articolo costa ad una rivista tra i 60 e i 650 dollari3. Vanno infatti considerati i costi degli editor che interagiscono con i revisori, i contatti con gli autori per la comunicazione del parere dei referee, il tempo necessario agli adattamenti dei contenuti per renderli rispondenti alle richieste di chi ha effettuato la valutazione critica.

Alla fine, la prima copia di un articolo non costa meno di 500 dollari e può arrivare, nel caso delle riviste più prestigiose come Science, alla impressionante cifra di 10 mila dollari.



Sui conti economici di periodici come Science incide moltissimo il tasso di articoli rifiutati: tanto più alta è la “rejection rate” (rapporto tra gli articoli ricevuti e quelli rifiutati), tanto più costosa è la gestione della rivista.
“The first copy”, infatti, è il prodotto sul quale vanno a impattare tutti i costi di impianto: da quelli necessari al referaggio a quelli di redazione; dall’impaginazione alla stampa; dalla trasposizione online ai costi promozionali e amministrativi. Alla fine dei conti, se consideriamo anche tutti i contributi che necessitano comunque di lavoro editoriale pur non arrivando ad essere pubblicati, il costo medio di un articolo scientifico è stato valutato in circa 3750 dollari. Eliminare il costo di stampa, passando decisamente alla esclusiva versione online consentirebbe un risparmio di non più del 20 per cento.

Un po’ per la crescita del numero dei ricercatori, un po’ per la necessità delle case editrici di ammortizzare i costi fissi di redazione, promozione e amministrazione, le riviste hanno aumentato il numero di articoli pubblicati ogni anno; esso è passato da circa 80, pubblicati nel 1975, a oltre 150 nel 2001. Anche la lunghezza media degli articoli originali è quasi raddoppiata, nello stesso arco di tempo, passando da circa 7 a oltre 12 pagine3. L’articolo originale è quello che impegna maggiormente l’attenzione dei lettori; in media, il tempo di lettura impiegato da un ricercatore è di circa 20 minuti5. Poco ha inciso, al riguardo, l’opportunità offerta dal web di pubblicare online una versione più ampia, secondo il principio codificato dal BMJ con l’acronimo ELPS: Electronic Long, Paper Short6.
La ricerca di lettori e di visibilità
Le riviste sono dunque più ampie, c’è più materiale proposto ai lettori, anche per raggiungere un altro obiettivo, indice del prestigio del periodico: migliorare l’impact factor (IF). Come è noto, l’IF è il risultato del rapporto tra il numero di citazioni bibliografiche ottenute nei due anni successivi alla pubblicazione dagli articoli usciti su un periodico scientifico e il totale degli articoli pubblicati dalla stessa rivista nello stesso periodo (figura 1).



Anche se i criteri adottati dall’Institute for Scientific Information per definire quale tipologia di articolo debba essere considerata ai fini del calcolo del fattore non siano del tutto trasparenti7, si sa che non tutti gli articoli presenti in un fascicolo contribuiscono a determinare il totale dei lavori pubblicati. Sono esclusi gli editoriali, le lettere al direttore e i contenuti pubblicati nelle sezioni informative: dalle news alle sintesi di articoli pubblicati altrove. Proprio per alzare il numero degli articoli che contano ai fini della determinazione del “numeratore” (limitando al tempo stesso il “denominatore” rappresentato dalla somma degli articoli originali, delle revisioni sistematiche, delle rassegne narrative), le oltre 2000 pagine che in media un periodico pubblica ogni anno (e si tratta di dati non recenti e che necessiterebbero di aggiornamento) sono organizzate in maniera da ottimizzare il rapporto tra articoli considerati dall’Institute for Scientific Information ai fini del calcolo dell’impact factor e citazioni ottenute sulle altre riviste incluse nel cosiddetto “Web of Science”.
Per questa ragione, molte riviste hanno diminuito il numero degli articoli originali, a favore di interventi sull’attualità politico-sanitaria, di notizie, recensioni critiche e così via. È il caso, per esempio, del BMJ, ma non solo. La numerosità di questi pezzi di contorno è anche dovuta al desiderio di rendere le riviste più varie, più leggibili, anche più “colorate”, secondo la traccia indicata da Richard Smith, già direttore del British Medical Journal 8. In una società centrata sulla cosiddetta economia dell’attenzione, i principali concorrenti di un settimanale di medicina generale sono da cercare tra i modi con i quali il medico impegna il proprio tempo libero: ieri gli inglesi avrebbero parlato del giardinaggio; oggi, più realisticamente, Smith cita il Manchester United o una serata al cinema o una passeggiata nel parco (figura 2).



Riviste più ricche, più attraenti, più simili a magazine: un numero più elevato di articoli, anche molto brevi, per cercare di incontrare i gusti di lettori dagli interessi sempre più articolati e vari. Riviste più ricche anche grazie alle funzionalità che Internet può garantire.

Gli utenti del web scientifico professionale sono più di 10 milioni, nel mondo. Circa 1 miliardo e 500 mila articoli sono scaricati annualmente dal web. Non a caso, la fruizione delle riviste professionali è sempre più spesso un’attività che si svolge in ambiente domestico: uno studio del 2005 ha dimostrato che un medico su cinque preferisce studiare comodamente seduto in una poltrona del proprio soggiorno, e la percentuale sale quasi al 30 per cento nel caso dei medici che fanno ricerca clinica9. L’avvento di Internet ha dunque determinato una nuova rivoluzione nei modi e nelle forme di aggiornamento e di educazione continua del personale sanitario.

Le riviste, oggi, sono tutte sul web, pur avendo scelto modalità non omogenee. Quasi sempre sono offerte agli utenti le opportunità più classiche – editorialmente parlando – che vanno dalla possibilità di ottenere fascicoli ed annate pregresse alla proposta di raccolte omogenee di articoli, fino alla possibilità di ricerca libera o avanzata all’interno dei contenuti di singoli testi.
Si tratta, però, di una realtà molto dinamica; negli Stati Uniti e in altri paesi anglosassoni, per esempio, sono assai usate le funzionalità che permettono di scaricare contenuti sul proprio PDA (Personal Digital Assistant, vale a dire sul computer palmare). Allo stesso modo, i servizi di e-alert – ancora poco praticati in Italia – possono essere utili non solo per ricevere informazioni le più tempestive nel proprio ambito di interesse, ma possono perfino essere impostati a partire sia dalle aree disciplinari in cui si è specializzati, sia da specifici articoli pubblicati riguardo i quali si desideri ricevere notizia di “Rapid Responses” o di altri articoli che, in bibliografia, riportano l’articolo stesso.
La novità dell’Open Access
A questo riguardo, molto spesso si fa confusione tra la disponibilità gratuita di alcuni contenuti scientifici su web e la formula editoriale dell’Open Access. In realtà, si tratta di cose diverse.
In primo luogo, l’Open Access prevede che l’accesso ai contenuti di una rivista sia possibile gratuitamente da parte di qualsiasi utente. Inoltre, nella interpretazione più rigorosa, prevede che il copyright dei contenuti pubblicati sia regolato dalle norme del manifesto dei Creative Commons: il diritto sui contenuti resta all’autore, ma chiunque può utilizzare testi e immagini a patto di citare correttamente e in modo esaustivo la fonte. Immaginiamo di voler arricchire la rivista della nostra Azienda Sanitaria con un articolo di prestigio: saremo liberi di riprendere – traducendolo o meno – un contributo pubblicato, per esempio, su PLoS Medicine o su una delle oltre 150 riviste del gruppo BioMed Central: basterà citare la fonte, non alterarne il contenuto e citare in modo evidente chi è l’autore.
Al contrario, pur essendo consultabili in Rete senza alcuna restrizione, non potremo ripubblicare uno degli articoli originali che settimanalmente pubblica il BMJ. In questo caso, infatti, i contenuti sono “protetti” da copyright; nel caso precedente, si parla provocatoriamente di copyleft.
Ma in realtà, come sintetizzato nel riquadro sottostante, di Open Access ne esiste, in verità, più di uno.
Alcune esperienze di Open Access sono state premiate da un successo straordinario. È il caso in primo luogo della su citata PLoS Medicine, rivista della Public Library of Science, che in meno di quattro anni ha raggiunto un IF superiore a quello di riviste centenarie come il BMJ. Anche le riviste del gruppo BioMed Central, forte di circa 150 periodici, hanno avuto buoni risultati, quantunque l’IF difficilmente superi il 5.

La domanda che si pongono in molti, tra gli addetti ai lavori, è però un’altra: gli articoli ottengono più citazioni perché sono liberamente consultabili su web oppure perché gli autori che scelgono il modello dell’Open Access è più probabile che postino i loro contributi in un archivio, personale o della istituzione di cui fanno parte? Quello del self-archiving è infatti un fenomeno da non trascurare. Già da tempo diffusa in ambiti scientifici come la Fisica, l’archiviazione online dei propri articoli sta prendendo piede anche per effetto della spinta di molte istituzioni che esigono dai propri ricercatori la pubblicazione “open” dei lavori scientifici. Questo può avvenire su “repository” istituzionali – tipicamente quelli di una università – o su cosiddetti “subject-based repositories”, come arXiv per la Fisica o PubMed Central per la Medicina.

La spinta per il libero accesso ai saperi scientifici è davvero imponente e autorevole; nonostante i diffusi consensi, resta il problema della praticabilità imprenditoriale del sistema. I “numeri” resi noti dagli editori Open Access riguardo i loro primi bilanci non sono incoraggianti: PLoS, nel 2005, ha denunciato perdite per 1 milione di dollari e, cosa ancora più preoccupante, i contributi degli autori e i ricavi da pubblicità riuscirono a coprire solo il 35% dei costi. Il progetto ricevette circa 13 milioni di dollari in finanziamenti liberali. La situazione di BioMed Central è solo in parte diversa. Nel 2005 le perdite furono di 2,9 milioni di dollari a fronte di un fatturato complessivo di 1,8 milioni.
Il punto critico è che l’autore non vede di buon occhio il sostenere le spese di pubblicazione; i dati dell’esperienza della Oxford UP tra il luglio 2005 e il giugno 2006 indicano che solo il 5,2% degli autori ha accolto la proposta di dover versare un contributo finanziario per mettere online il proprio articolo10.

Immediate Full OA: l’intero contenuto è immediatamente messo a disposizione, gratis, online.

Hybrid and Optional OA: solo parte di una rivista è messa a disposizione online gratuitamente. In alcuni casi, come per il BMJ, vengono resi disponibili gratuitamente gli articoli considerati di particolare importanza per la salute pubblica. Altri periodici, invece, fanno dipendere la pubblicazione online del testo integrale dal contributo degli autori: è l’opzione di gruppi editoriali importanti come la Springer (con il programma Open Choice) o come la Oxford University Press (Open Schemes).

Delayed OA: il contenuto dei fascicoli viene reso accessibile anche ai non abbonati dopo un certo periodo di tempo, dai 6 ai 12 mesi. Si comporta in questo modo la maggior parte delle riviste ospitate sulla piattaforma Highwire della Stanford University.


Cosa suggeriscono questi cambiamenti nel mondo dell’editoria scientifica?

1.

Innanzitutto, la costante e intensa ricerca di modelli nuovi che possano garantire – da una parte – un accesso più aperto e vasto alle conoscenze, e che – dall’altra – non penalizzino le attese dei grandi gruppi editoriali multinazionali, i quali – coerentemente con i comparti industriali ai quali sono collegati – vedi infra – continuano a perseguire utili a doppia cifra.

 

 

2.

In secondo luogo, il legame evidente tra i percorsi dell’editoria STM e la cosiddetta “mainstream science”: i programmi editoriali delle riviste scientifiche – con qualche significativa eccezione – sono coerenti e sinergici con quelli di altre industrie: in primo luogo con quelli dell’ “industria” dell’assistenza e delle cure. Poi, con quelli dell’industria farmaceutica e delle apparecchiature diagnostiche; e ancora, con quelli dell’industria alimentare e dell’industria congressuale.

 

 

3.

Un ultimo motivo di riflessione ci viene offerto dall’evidenza di un’informazione ridotta in pillole, atomizzata. La “single-article economy”11 fa sì che il personale sanitario finisca con l’accostarsi ad un articolo in assenza di un contesto che aiuti a definirne i limiti o a sottolinearne le potenzialità12. Un insieme vastissimo di item di sapere, disomogenei sia in termini di qualità sia di formati editoriali, singoli elementi che – pur essendo forse adatti a soddisfare i bisogni di informazione al momento (just-in-time) espressi da medici, infermieri o farmacisti – ben difficilmente possono contribuire ad una educazione continua in un’ottica di lifelong learning. È probabilmente questa la sfida più difficile da vincere nei prossimi anni.


Bibliografia
 1. Fatti e cifre dell’editoria scientifica sono stati sintetizzati nel documento “Scientific Publishing in Transition: An overview of current developments”. A cura della Mark Ware Consulting Ltd. Settembre 2006.
 2. Mabe MA, Amin M. Dr Jeckill and Mr Hyde: author-reader asymmetries in scholarly publishing. Aslib Proceedings: new information perspectives 2002; 54; 149-57.
 3. King D. Scholarly journal pricing: a literature review and commentary. Pre-print, 2006.
 4. Tenopir C, King D. Towards electronic journals: realities for scientists, librarians, and publishers. Special Libraries Association, Washington 2000.
 5. Tenopir C, King DW, Bush A. Medical faculty’s use of print and electronic journals: changes over time and in comparison with scientists. J Med Libr Assoc 2004; 92: 233-41.
 6. Delamothe T, Mullner M, Smith R. Pleasing both authors and readers. BMJ 1999; 318: 888-9.
 7. The PLoS Medicine Editors. The impact factor game. PLoS Medicine 2006; 3: e291-2. Doi:10.1371/journal.pmed.0030291.
 8. Smith R. The pleasures of deep reading. BMJ 2003; 327. Doi:10.1136/bmj.327.7407.0-f.
 9. Rowlands I, Nicholas D, Huntigdon P. Scholarly communication in the digital environment: what do authors want. CIBER Report, 2005.
10. King D, Tenopir C. An evidence based assessment of author pays. Nature Web Focus on Access to the Literature. 2006.
11. Waltham M. Challenges to the role of publishers. Learned Publishing 2003;16: 7-14.
12. Steinbrook R. Searching for the right search: reaching the medical literature. NEJM 2006; 354: 4-7.