La danza della peste

di Stefano Cagliano




Così come Daniel Defoe con La peste di Londra sembrava volesse far «apparire veramente il romanzo nel senso moderno del genere, fuori dai limiti usuali del genere», secondo quanto scriveva Elio Vittorini nella prefazione al libro1, anche Charles Kenny, nel suo La danza della peste, propone una storia diacronica della malattia, insieme a una sincronica, «fuori dai limiti usuali del genere». E osserva nelle pagine finali del libro che «per buona parte della storia umana, è improbabile che una malattia quale il covid-19 sarebbe stata riconosciuta come una nuova e distinta minaccia alla salute». L’osservazione prosegue e in queste pagine leggiamo che «se i profeti antivaccinisti continueranno a rifilarci una disinformazione letale senza vedersi opporre una risposta adeguata, se i nostri ultimi antibiotici verranno sprecati per aggiungere qualche etto di carne bianca a un petto di pollo, se non faremo nulla per migliorare la cooperazione globale, la copertura del monitoraggio del virus e la tempestività di reazione alle epidemie, sappiamo come sarà il mondo».

L’autore alfabetizza, informa, denuncia. Nelle sue pagine si passa da Defoe a Fauci, da richiami storici a denunce puntigliose e utili anche oggi, da descrizioni della peste alla SARS-CoV-2. Kenny ricorda che Atene fu sede di una delle «prime pandemie documentate in maniera attendibile», nel 400 a.C., ma la peste colpì purtroppo anche l’impero romano con esiti catastrofici e si diffuse presto in Oriente. Nel teatro euro-asiatico ci fu davvero una battaglia continua, o di armi in ferro o di “armi” biologiche, fatta di vaiolo, malaria e febbri emorragiche di vario genere. In seguito, Colombo e gli altri conquistadores portarono oltreoceano dei beni, ma «trasmisero le proprie malattie agli ospiti riluttanti». Malattie che cominciarono a diffondersi. Sicché «molti spagnoli erano ripartiti mentre le pestilenze, vaiolo, morbillo, influenza e altre malattie trasmesse agli indiani avevano ucciso buona parte dei nativi».

Nel leggere questo resoconto verrebbe da riscrivere la storia in modo tutto diverso per distribuirne i meriti perché, osserva Kenny, «le malattie europee procedevano più in fretta degli esploratori». Ma le pagine c’informano anche che «tra il XV e il XIX secolo furono deportati dall’Africa 12 milioni di schiavi, circa il doppio della popolazione del Regno Unito nel XVII». I Paesi africani oggi più poveri sono quelli dai quali venne prelevato il maggior numero di schiavi.

In qualche modo Kenny presenta una tragedia con diversi comprimari. La protagonista è lei, la peste, ma intorno il “fragore” infettivo è grande. «L’età delle scoperte segnò anche l’inizio delle minacce pandemiche mondiali vere e proprie» scrive Kenny. Una è il tifo, «uno dei più temibili killer della storia». Nel tempo però la lotta alla peste e a tutte le malattie infettive sembra assumere connotati diversi. Sì, perché nel 1876 Kock inizia a individuare il nemico, e così prima i germi dell’antrace, poi della tubercolosi, poi del colera. Lo studioso formula anche l’ipotesi più impegnativa, perché esplicativa di tutte le malattie infettive ovvero “la teoria dei germi”. La cosa non dovette andare a genio a molti suoi colleghi, però, e gli costò parecchie inimicizie, per esempio quella della notissima Lady Mary Montagu che pure Kelly, in altro contesto, ricorda perché «diffuse la variolizzazione, la prima protezione efficace contro il vaiolo». Ebbene, scrisse la signora, «l’ipotesi dei germi, se portata alla sua logica conclusione, porrebbe fine a qualsiasi rapporto umano per evitare il dolore o il rischio di contrarre una malattia o di morire».

Poi arrivò il capitolo delle grandi pulizie e in Gran Bretagna comparve Edwin Chadwick, avvocato riformatore, autore di leggi sulla povertà. Quasi più attento a Freud che a Kock, Chadwick viene descritto come «deciso, impaziente, dogmatico, convinto dell’infallibilità delle proprie idee e del tutto privo di senso dell’umorismo». E tuttavia Kelly riporta un brano significativo della sua politica dove osserva che «la perdita annuale di vite umane […] è superiore alle perdite dovute alla morte in battaglia o in conseguenza delle ferite riportate in qualsiasi guerra che il nostro Paese abbia combattuto in epoca moderna». Non è utile cercare la causa del problema che in due cose, ovvero «la sporcizia e la cattiva areazione».

Ma attorno alla peste, dicevamo, l’umanità ha celebrato ogni genere di nefandezza, anche medica. Nell’aprile 1348, l’anno nero in cui la peste nera tornò in Europa dopo otto secoli di assenza, «il quartiere ebraico di Tolone venne saccheggiato e quaranta vittime furono uccise. Nei giorni seguenti, nei paesi e nei villaggi vicini accadde lo stesso». Come era ragionevole attendersi «l’antisemitismo non nacque con la peste, ma la peste diede agli antisemiti una scusa per uccidere (scusa poi radicatasi in profondità)». Proprio gli abitanti delle regioni che nel XIV avevano orchestrato il maggior numero di pogrom, «si mostrarono assai più inclini a votare il partito nazista negli anni Trenta».

Il capitolo Calmare la danza della peste guarda anche ai principi etici che dovrebbero ispirare non solo il singolo medico, ma chi guida l’attività politica. E, come nelle altre pagine, le asserzioni di Kenny non sono astratte. «Il mercato globale dei vaccini – per esempio – equivale a circa due terzi del mercato di un singolo farmaco, il Lipitor, che riduce il colesterolo». Ma non solo. Come troppo spesso si fa finta di dimenticare, il grido delle malattie infettive non si risolve solo con gli antibiotici. Solo tre cifre proposte da Kenny: «Metà degli antibiotici prescritti negli Stati Uniti non è necessaria o efficace quanto dovrebbe. Un cinese consuma un volume di antibiotici dieci volte superiore a quello di una persona in America. In tutto il mondo, circa la metà degli antibiotici per uso umano viene acquistata rivolgendosi a fornitori privati senza ricetta». Naturalmente non sono solo questi farmaci a remare contro la nostra salute. «La Banca mondiale – osserva Kenny – ha calcolato che ci vorrebbero 28 miliardi di dollari l’anno, tra oggi e il 2030, per ottenere l’accesso universale a impianti idrici e sanitari e servizi igienici di base in tutto in mondo».

Sì, quasi come scriveva William Bernstein2, la peste è una malattia del commercio, ma anche frutto di scelte politiche e persino di carità umana.

Bibliografia

1. Defoe D. La peste di Londra. Vittorini E. Prefazione. Milano: Bompiani, 1995, p. VIII.

2. Bernstein WJ. Il lauto scambio. Come il commercio ha rivoluzionato il mondo. Milano: Marco Tropea Editore, 2010.