In questo numero

Alcuni articoli pubblicati nelle pagine che seguono parlano tra loro. Pensiamo alla rassegna di Giuseppe Belleri che suggeriremmo di leggere prima (o dopo?) l’editoriale di Domenico Ribatti (pag. 234). Una delle affermazioni più radicali del clinico dell’università di Bari («ci troviamo di fronte a un colossale fallimento della sanità pubblica») potrebbe trovare spiegazioni nell’analisi del medico di medicina generale che ha lavorato in Lombardia per diversi decenni. Un paragrafo, soprattutto, è illuminante per la sintesi con cui descrive alcune essenziali questioni aperte nel sistema attuale delle cure primarie: «[Nella condizione cronica] il medico prescrive la terapia ma non la controlla direttamente, deve formare il suo paziente condividendo con lui parte del suo sapere, fornendo nel contempo un supporto psico-sociale». Affermazioni su cui potremmo riflettere anche dopo aver letto le due revisioni della letteratura sull’efficacia degli interventi psicologici web-based (pag. 244) e sugli interventi internet- e mobile-based rivolti al rischio suicidario (pag. 256).

Possiamo fare a meno del medico? La domanda che ci rivolge Ribatti è repentina (sebbene sia il titolo del suo editoriale, non c’è traccia nel testo) e provocatoria. I determinanti di salute sono da ricercare nelle scelte politiche, nelle dinamiche economiche che segnano la vita delle popolazioni senza che i cittadini siano sostanzialmente coinvolti nella loro definizione, nelle decisioni di politica ambientale, climatica, migratoria. Di fatto, un’ampia parte della popolazione mondiale fa a meno del medico e in gran parte dei contesti è nella partecipazione ai fenomeni sociali «contribuendo al loro cambiamento e miglioramento» che il contributo del medico alla salute (globale ma spesso anche individuale) si esercita nel modo più convincente.

In questi mesi le “soluzioni” ai problemi vissuti dal servizio sanitario e evidenziati dalla pandemia sembrano essere ricercate soprattutto nel maggiore apporto che la digitalizzazione potrebbe dare all’assistenza e alla relazione tra medico e paziente. C’è da sperare sia così, anche perché gli investimenti in questo ambito si preannunciano davvero eccezionali. Si dovrebbe poter contare, però, su dati robusti di efficacia. Lo spiega Eugenio Santoro nel suo editoriale (pag. 231): «La ricerca dovrebbe essere condotta in maniera rigorosa (con un adeguato numero di pazienti partecipanti, con un periodo di osservazione sufficiente, con obiettivi facilmente misurabili), facendo uso di strumenti di facile impiego e sufficientemente coinvolgenti (per evitare un elevato numero di drop out che spesso caratterizza gli studi su interventi digitali). Se saranno prodotte evidenze sufficientemente solide, sarà poi necessario un percorso di riconoscimento da parte delle istituzioni sanitarie affinché possano essere messe a disposizione dei medici e degli psicologi, e dispensate (per quanto possibile) dal Sistema Sanitario Nazionale». Incrociamo le dita.