RECENSIONI
Alma-Ata trent’anni dopo: ancora molto da fare
«Io mangio due polli, tu nessuno.
Così abbiamo mangiato un pollo a testa.»
Petrolini
(Sulla statistica)
Finalmente. Finalmente, ecco un documento di sangue blu che riafferma e ri-denuncia la correlazione tra condizioni economico-sociali e stato di salute. Argomento antico, tutt’altro che trascurato da questa rivista (cfr, da ultimo: 2006; 97: 425); tuttavia, esso è oggi confortato da autorevole corteo di fonti: statistiche, demografiche, politiche, le cui conclusioni hanno i toni di un Dies irae: «l’ingiustizia sociale è un genocidio su larga scala» (WHO Commission on Social Determinants of Health. Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health. Final Report. Geneva: World Health Organization 2008).
Perché, ad esempio, una madre in Botswana vive in media, ancor oggi, 43 anni, ed una giapponese ne vivrà, invece, 83? E perché in una stessa comunità, la città di Glasgow, un cittadino ricco può contare su un’attesa di vita di 82 anni, mentre uno povero morirà a 54 anni?
Dopo più di un secolo e mezzo dal Rapporto Chadwick (1843) sulle condizioni sanitarie dei lavoratori nel Regno Unito, focalizzato soprattutto sulle negative ricadute economiche di una insufficiente produttività causata da malattie, ecco dunque la sostanziale differenza che viene sottolineata da questo volume: qui non si tratta soltanto di PIL, di redditi, di salari e profitti. Qui si tratta di vita (e di morte). Ed è una rassegna senza sconti e senza lacune su povertà e malattia nel pianeta terra, oggi. Donde la necessità di una più equa distribuzione economica, di una più diffusa assistenza sanitaria e di una riqualificazione degli ambienti di vita e di lavoro. Come realizzare tali obiettivi? In primo luogo – afferma l’OMS – occorre migliorare le condizioni del vivere quotidiano: dalla nascita fino alla età anziana, mèta che occorre sempre più spostare in avanti tenendo fermo il presupposto che la vecchiaia non è di per sé una malattia. Secondo: quantunque la Commissione ammetta che non rientra nei suoi specifici compiti quello di disegnare un nuovo ordine economico internazionale, idoneo a coniugare bisogni di promozione socio-economica, equità sanitaria ed impegno contro il riscaldamento globale, pur tuttavia sono queste le linee-guida atte ad identificare la causa primaria del deficit di salute in quasi metà del mondo. Inoltre – raccomanda il Rapporto – è necessario un monitoraggio permanente delle iniquità relative alle condizioni di vita delle diverse popolazioni, una ricognizione delle varie politiche sanitarie ed una formazione continua per le professionalità dedicate. In conclusione, l’OMS ci invita a cogliere la dimensione complessa dell’eguaglianza, che non è riducibile alla parità delle condizioni di partenza. Si impone, piuttosto, la considerazione di eguaglianza come risultato.
Tale traguardo è perseguito ed auspicato, attraverso un’analisi empatica ma documentata, anche in un altro libro – una raccolta di saggi – di recente pubblicato nel Regno Unito (Norman Daniels: Just health: meeting health needs fairly. Pagine 398. Cambridge University Press, Cambridge 2008. Sterline 16,99. ISBN 0-521-69998-3). L’incipit è sulle orme del WHO Report. Vi si afferma, infatti, che una società non può autenticamente definirsi “giusta” se e quando si limiti a garantire ai cittadini una formale libertà di scelta. Quest’ultima resta un’astrazione, allorché al singolo vengono negati i mezzi per esercitarla. Tuttavia, proprio sulle priorità di tali mezzi, il volume espone e discute diverse opinioni. Tale carattere controversiale pervade l’intera opera, che, a differenza del Rapporto OMS, intende porre interrogativi piuttosto che fornire risposte.

In un primo, ampio saggio, John Rawls ribadisce il principio liberale, secondo cui una società giusta si fonda sulla imparzialità; riproponendo come elemento-chiave la garanzia delle pari opportunità. E, pur riconoscendo che tale condizione non garantisce uguaglianza di esito, nell’ottica del male “minore” egli ritiene che la quota dei “più diseguali” (dei più deboli) se ne avvantaggerebbe comunque, rispetto ad altre soluzioni virtualmente premiali ma fattualmente impraticabili.
È una teoria che riecheggia addirittura il fideismo naturalistico settecentesco. Scriveva già più di due secoli fa un precursore dell’illuminismo – Paul Henry Holbach: «La diversità che si trova fra gli individui della specie umana pone tra loro la ineguaglianza e questa ineguaglianza è il sostegno della società.



Se tutti gli uomini fossero uguali per forze del corpo e qualità dello spirito, non avrebbero alcun bisogno gli uni degli altri: è la diversità, la loro facoltà e l’ineguaglianza che c’è tra loro, a renderli necessari gli uni agli altri; altrimenti, vivrebbero isolati. Da qui si vede che questa ineguaglianza, di cui spesso ci si lagna a torto, e l’impossibilità in cui ciascuno di noi si trova di lavorare efficacemente da solo a conservarsi e a procurarsi il benessere, ci mettono nella felice necessità di associarci, di dipendere dai nostri simili, di meritarne gli aiuti, di renderli favorevoli alle nostre prospettive, di attirarli a noi per tener lontano, mediante sforzi comuni, ciò che potrebbe turbare l’ordine della nostra macchina...» [Sistema della natura (1770), a cura di A. Negri. Torino: Utet 1978: pp. 150-155, 180-182].

In altro lungo capitolo,  diverso parere espone Amartya Sen, il quale focalizza il traguardo di giustizia sociale non nel punto di partenza, bensì in quello di arrivo: del singolo e delle comunità; vale a dire nella possibilità “di essere e di agire”, «capability» che una meno iniqua ridistribuzione dell’avere non è sufficiente ad assicurare; nell’area dei beni materiali – infatti – la salute (che non è una merce) non avrebbe titolo ad essere inclusa. In altre parole – esemplifica il Nobel indiano – se, per una qualsiasi ragione, un cittadino non avesse adeguate condizioni di salute, la sua capacità di coniugare gli “averi” sociali con la propria potenzialità “di essere e di operare” ne sarebbe ingiustamente compromessa.

Una terza teoria orienta l’argomentare del Curatore dell’opera, Norman Daniels. Egli capovolge i termini del rapporto, assumendo alcune conclusioni sia di Rawls che di Sen. A monte si pone tre domande: la salute ha un particolare valore morale? Come si valuta la diseguaglianza del diritto alla salute? Come conciliare salute per tutti e limiti di risorse? La risposta affermativa che egli dà al primo quesito è il fondamento della sua tesi: secondo la quale – agendo sui fattori che determinano il grado dello stato di salute del singolo e della comunità – si stabilisce un circolo virtuoso per cui è la buona salute (e non viceversa) a creare condizioni di progresso civile. Pur riconoscendo la suggestione di un simile convincimento, si potrebbe obiettare che l’evidenza dimostra come non sia soltanto l’aspirazione al benessere (inteso come sanità di corpo e di mente) a motivare itinerari e traguardi di giustizia sociale ed economica. (Con paradosso di ironia, Michael Marmot su Lancet [2008; 372: 881] postilla, infatti, che la teoria di Daniels ci condurrebbe – al limite – a considerare una mortalità precoce soltanto come una “perdita di opportunità”).

La conclusione cui viene condotto il lettore da questo confronto di opinioni è che, oggi, nel mondo, il livello di salute è, sì, migliorato, ma è migliorato in misura minore (ed insufficente) per le classi subalterne, per le popolazioni povere, specie nei paesi sottosviluppati. E, dunque, nell’era della globalizzazione, si possono ancora tollerare tali diseguaglianze? È una domanda che attende risposta da più di un quarto di secolo e che ci interpella urgentemente attraverso una crescente mobilità demografica e tumultuose istanze di integrazione.

volumi di correlato interesses

Markle W, Fischer R, Smego R

 

Understanding global health.

 

Pagine 384. New York: Mc Graw-Hill 2007

Merson’s International Public Health.

 

Sodbury: Jones & Barlett 2001

Koop et al.

 

Critical issues in global health.

 

San Francisco: Jossey Bass 2001.

Murray, Lopez

 

The global burden of disease.

 

Geneva: World Health Organization 1996.


 Ricorre il trentesimo anniversario della Dichiarazione di Alma-Ata e suona ancora attuale la considerazione dell’editoriale di Lancet: «Health for all need to be a dream buried in the past» (2008; 372: 863). La spesa mondiale della pubblicità che alimenta i consumi e l’inquinamento ammonta annualmente a 500 miliardi di dollari, quella della ricerca sanitaria a 70 miliardi ed a 62 quella destinata ai paesi poveri dalle nazioni più ricche. E poche settimane fa, il globo ha dovuto “bruciare” più di duemila miliardi di dollari per non soccombere alle frodi della speculazione finanziaria! La Commissione della WHO sollecita dunque un’azione che sia progettata e gestita dall’alto e insieme dal basso, in comunione di intenti e di competenze. L’affermazione secondo cui la salute non è una merce implica corollari altrettanto radicali che promuovono al rango di diritti primari alcune intangibili esigenze quali, ad esempio, l’accesso gratuito all’acqua potabile e alle cure mediche di base. Attori di tale promozione debbono essere comunità rurali e circoli urbani, governi locali e centrali, volontariato, agenzie multilaterali, settore privato e istituzioni di cultura e ricerca. A questo proposito, il Rapporto OMS avversa ogni politica che non rifiuti la discriminazione: di genere, di censo, di etnia; ribadendo l’equazione tra giustizia sociale e produzione di salute e riaffermando che l’approccio partecipativo e democratico ne costituisce intrinseco innesco.

Alice Morgan
Patologia respiratoria: una rinnovata emergenza
«Il piacere fisico più grande e pieno
(nessuno ci fa caso: provateci)
è quello di respirare.»
Massimo Bontempelli
Può apparire sorprendente che in un unico volume vengano trattati – insieme – l’asma e le broncopneumopatie croniche ostruttive. In effetti, la letteratura più accreditata ha finora tenute distinte le due patologie: caratterizzate da fattori di rischio e da fisiopatologia differenti, così come da diversi fenotipi clinici e destinate – quindi – a distinte strategie terapeutiche. Due patologie che hanno rappresentato, da tempo, sfide non omogenee alla sanità pubblica. Si aggiunga, nel caso specifico, che sostenitori di tale dismogeneità sono stati studiosi che oggi troviamo – invece – tra gli autori del volume in cui viene proposto un nuovo approccio – meno “separatista” – alle due malattie ( Asthma and COPD: basic mechanisms and clinical management. Peter Barnes, Jeffrey Drazen, Stephen Rennard, Neil Thomson, eds. Pagine 896. Elsevier/Academic Press, New York, Amsterdam 2008. Dollari 149,95. ISBN 0-12-374001-0).
In realtà, il nuovo corso è stato suggerito anche dalla recente decisione dell’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di lanciare un piano di sei anni per la lotta alle malattie infettive non trasmissibili, minaccia sempre più ingravescente per la salute globale e di cui la patologia cronica respiratoria costituisce una componente molto rilevante.
Tale allarme ha focalizzato l’attenzione sia sull’asma sia sulle BPCO perché ambedue hanno fatto registrare una parallela crescita di morbilità e mortalità. Ed il dato ha, in parte, sorpreso gli osservatori epidemiologici di WHO, finora inutili, piuttosto, a fronteggiare altre patologie croniche di vasta diffusione quale le cardiovasculopatie, i disturbi mentali, il diabete, l’infezione da HIV. Essi hanno subito richiamato sul nuovo fronte l’attenzione dei clinici. Di conseguenza, non si può non manifestare apprezzamento nei confronti del rinnovato interesse per la prevenzione e la cura delle broncopneumopatie e dell’asma che ha ispirato e guidato i Curatori e gli Autori del volume; basti pensare che le statistiche mondiali WHO 2007 indicano in 300 milioni i soggetti affetti da asma, in oltre 200 milioni i broncopneumopatici, in 400 milioni coloro che soffrono di rinite allergica, in più di 100 milioni i casi di apnea nel sonno, avvertendo, infine, che oltre 50 milioni di individui sono a rischio di una patologia respiratoria. Dunque, possiamo non sorprenderci di fronte ad una trattazione combinata di asma e broncopneumopatia cronica ostruttiva: non è tanto la rivisitazione di un’ipotesi di Scuola (soprattutto olandese), quanto una svolta imposta da sopravvenute emergenze epidemiologiche, e perciò questo volume merita il benvenuto. La sua struttura è quella classica: si parte dalle definizioni, ed attraverso la descrizione della storia naturale delle malattie, della fisiopatologia e patologia, si giunge a fornire un panorama dei meccanismi bio-immunologici della infiammazione cronica sottesi all’asma ed alla BPCO. Il lettore troverà, inoltre, eccellenti capitoli sulla patogenesi, sui fattori di rischio e sulle situazioni “trigger”. Infine, spazio adeguato viene fornito alla terapia: farmacologica e non. (Notevole è anche la trattazione dell’asma nel bambino).
La vasta e complessa materia è bene organizzata (merito precipuo dei Curatori); il testo è redatto secondo canoni rigorosi ed attuali, in una forma chiara ed equilibratamente concisa (virtù degli Autori) ed è corredato da tabelle di prezioso ausilio didattico e da doviziosa e aggiornata bibliografia.
Concludendo, ci sembra doveroso avvertire che non si tratta di testo di facile approccio per un generalista (d’altra parte, un immuno-allergologo vi troverebbe qualche lacuna); tuttavia, sono, queste, osservazioni incidentali; nel complesso, ci troviamo di fronte a un prodotto culturale importante ed utile, assai tempestivamente posto a disposizione dei numerosi operatori sanitari chiamati ad affrontare la sfida costituita dalla recrudescenza globale della patologia respiratoria.

Benedetta Marra
Lasciate che il mio balzo si compia
«Proprio come sceglierò la mia nave
quando mi accingerò a un viaggio, e la mia casa
quando intenderò prendere una residenza,
così sceglierò la mia morte quando mi accingerò
ad abbandonare la vita.»
Seneca
Immobilizzato da anni nel suo letto, incapace di respirare se non grazie a una macchina, nell’autunno 2006, Piergiorgio Welby — affetto da sclerosi laterale amiotrofica — rende pubblica con un appello diretto al presidente della Repubblica la sua richiesta di essere lasciato morire. Il dottor Mario Riccio, anestesista di Cremona si assume la responsabilità di fare come Welby chiede: dopo averlo sedato, lo distacca dal respiratore artificiale che lo tiene in vita.
Questo è il diario che Riccio ha tenuto durante i giorni della morte di Welby, nel dicembre 2006, e nei mesi successivi; è il suo punto di vista non solo sulla vicenda strettamente “medica”, ma anche sull’aspro confronto che si è sviluppato in Italia fin dall’appello di Welby; ed è il resoconto dell’iter processuale cui Riccio è stato sottoposto fino alla sentenza di proscioglimento. (Storia di una morte opportuna. Il diario del medico che ha fatto la volontà di Welby. Gianna Milano, Mario Riccio. Pagine 288. Sironi Editore, Milano 2008. Euro 18,00. ISBN 978-88-518-0106-9).
La giornalista Gianna Milano, dialogando con l’esperienza umana e professionale narrata da Riccio, ha realizzato un ricchissimo commentario al testo, un contrappunto che restituisce lo sfondo degli eventi in un percorso parallelo: la cronaca, il dibattito politico, bioetico e culturale, i documenti giudiziari che hanno contribuito a una maggiore chiarezza su accanimento terapeutico, consenso o rifiuto delle terapie, diritto al morire, cure palliative, testamento biologico ed eutanasia.
L’atto di Riccio ha ottenuto due giudizi assolutori: uno dell’Ordine dei Medici di Cremona e l’altro del Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Roma. «La decisione di non aprire un provvedimento disciplinare nei confronti del dottor Mario Riccio — ha spiegato il Presidente dell’Ordine, Andrea Bianchi — rappresenta la conclusione di un percorso partendo da due premesse: il quadro dei doveri deontologici e della responsabilità disciplinare del medico non può essere definito ignorando i diritti della persona [...], la salute dell’uomo va intesa nella sua accezione più ampia, quale condizione di complessivo benessere della persona, non limitata alla sfera fisica e a tale concetto fa riferimento il dovere del medico di tutelare la vita e la salute del paziente (art. 1 del Codice deontologico). La Commissione ha poi condiviso il fatto che a livello sociale, giuridico e culturale si considera superata la concezione che individua il fine unico della medicina nel prolungamento “a tutti i costi” della vita.»
E, successivamente, ha sentenziato il magistrato Zaira Secchi: «[...] In conclusione, si può, quindi, affermare che l’imputato Mario Riccio ha agito alla presenza di un dovere giuridico che ne scrimina l’illiceità della condotta causativa della morte altrui e si può affermare che egli ha posto in essere tale condotta dopo aver verificato la presenza di tutte quelle condizioni che hanno legittimato l’esercizio del diritto da parte della vittima di sottrarsi ad un trattamento sanitario non voluto. Va pertanto dichiarato il proscioglimento di Riccio Mario perché non punibile in ragione della sussistenza della esimente di cui all’articolo 52 del Codice penale.»
Il caso ha suscitato, come è noto, vivace e importante dibattito. Che un medico abbia ritenuto suo dovere attuare il diritto del paziente di sospendere la terapia crea infatti un precedente deontologico, politico e culturale. Dando senso al sacrificio di Welby — che ha scelto di chiedere una soluzione pubblica ad una vicenda privata per aprire la strada al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del malato — la decisione di Mario Riccio è uno spartiacque e mostra che una via è percorribile. In questa ottica va letto ed apprezzato il titolo che gli autori hanno scelto per questo libro che è, insieme, una testimonianza ed un viatico. Così come sognava Welby:«...Prima di addormentarmi chiedevo al mio amico di recitarmi quei versi di Luzi: “Poco dopo si è qui, come sai bene,/fila d’anime lungo la cornice,/chi pronto al balzo, chi quasi in catene”... Ecco io, finalmente, sto per compiere il mio balzo».

Caterina Roghi