INFORMAZIONI DALLE RIVISTE
Un marcatore di riacutizzazione nella broncopneumopatia cronica ostruttiva
È noto che i pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) da moderata a grave sono particolarmente predisposti a riacutizzazioni che determinano un accelerato declino della funzione polmonare con aumentata morbilità, compromessa qualità della vita, aumentata mortalità e spesso gravi complicazioni cardiovascolari (Rabe KF, Hard S, Anzueto A et al. Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease. Global strategy for the diagnosis, management and prevention of chronic obstructive pulmonary disease: GOLD executive summary. Am J Respir Crit Care Med 2007; 176: 532). Nonostante l’importanza delle riacutizzazioni nella prognosi della BPCO, la loro definizione obiettiva presenta ancora qualche difficoltà. Infatti le riacutizzazioni della BPCO sono state definite come “un persistente peggioramento delle condizioni del paziente, di natura acuta, che rendono necessaria una modificazione della terapia” (Rodriguez-Roisin R. Toward a consensus definition for COPD exacerbabtions. Chest 2000; 117: 3988) oppure “una modificazione acuta della dispnea, della tosse e/o dell’espettorato, al di là della variabilità da un giorno all’altro del quadro clinico e che giustifica un cambiamento della terapia” (Celli BR, MacNee W, Standards for the diagnosis and treatment of patients with COPD: a summary of the ATS/ERA position paper. Eur Respir J 2004; 23: 932).
In grande maggioranza le riacutizzazioni della BPCO sono causate da infezioni respiratorie acute, batteriche o virali, e sono associate a un’accentuazione del processo infiammatorio polmonare caratteristico della malattia. Prendendo in considerazione questa patogenesi infiammatoria si è cercato di identificare biomarcatori sistemici indotti da mediatori dell’infiammazione e l’attenzione è stata attratta sulla proteina C-reattiva (CRP) che, come noto, è una proteina della fase acuta di origine epatica, indotta da alcuni mediatori dell’infiammazione, come interleuchina 1β (IL-1β), interleuchina 6 (IL-6) e fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α), il cui livello nel siero è in rapporto con l’infiammazione.
Recentemente  è stato identificato un nuovo biomarcatore dell’infiammazione in pazienti con BPCO ricoverati in ospedale per una grave riacutizzazione della malattia. Si tratta di un proteina con massa di 11699D corrispondente all’amiloide A del siero (SAA), isolata avvalendosi di una tecnica proteomica di ionizzazione laser (Bozinovski S, Hutchinson A, Thompson M, et al. Serum amyloid A is a biomarker of acute exacerbation of chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 269). L’SSA è una proteina della fase acuta, indotta, analogamente alla CRP, da IL-6, IL-1β e TNF-α, che aumenta nel siero di pazienti con riacutizzazione di BPCO. Questo biomarcatore è secreto dal fegato come predominante apolipoproteina associata a colesterolo HDL.



Gli autori hanno osservato che le modificazioni del livello sierico di SAA sono associate ad eventi di riacutizzazione della BPCO e mostrano maggiore sensibilità e più elevata specificità della CRP. Infatti è stato rilevato un aumento di quattro volte del livello basale di SAA, da solo, in occasione di grave riacutizzazione di BPCO e tale valore discriminante non è stato migliorato associando la misura di SAA con gli elementi del quadro clinico, come dispnea ed espettorato. Gli autori ritengono, pertanto, che la misura di SAA rappresenti un’utile aggiunta per l’obiettiva  identificazione e per il trattamento delle riacutizzazioni di BPCO, consentendo inoltre di selezionare i pazienti a più grave rischio di insufficienza respiratoria che necessitano di ricovero in ospedale.
Gli autori ricordano che SAA è associata al processo infiammatorio caratteristico della BPCO (Papi A, Bellettato CM, Braccioni F, et al. Infection and airway inflammation in chronic obstructive pulmonary disease severe exacerbations. Am J Respir Crit Care Med 2006: 173: 1114) e che il suo livello aumenta in molte condizioni infiammatorie. Una differenza tra SAA e CRP consiste, secondo gli autori, nel fatto che SAA può essere prodotta al di fuori del fegato nei tessuti sede di infiammazione; ciò induce a ritenere che la produzione di SAA nel polmone infiammato possa contribuire ad accrescere il livello sierico di SAA insieme alla produzione epatica. Confermerebbe tale ipotesi il rilievo di aumento di SAA, ma non di CRP, nei polmoni esposti al fumo di tabacco. Al momento attuale non è stato possibile identificare SAA nell’espettorato, ma gli autori stanno studiando dei metodi per comprovare questa possibilità, anche al fine di poter confrontare il livello di SAA nell’espettorato di pazienti con BPCO con i vari indici infiammatori.
Strategie gastroprotettive nell’uso di farmaci antinfiammatori non steroidei
I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) sono largamente adoperati per il trattamento di vari processi infiammatori e per ili controllo del dolore. Come noto l’uso di questi farmaci può comportare un significativo rischio di complicanze digestive superiori consistenti in emorragie gastroduodenali e ulcere gastriche o duodenali. Per ridurre l’incidenza di queste complicanze sono state proposte varie strategie terapeutiche. Fra queste, l’uso del prostanoide misoprostol ad alte dosi è stato abbandonato per scarsa tollerabilità e quello dei FANS ciclossigenasi-2 (COX-2)-selettivi (i cosiddetti “coxib”) ha comportato un aumentato rischio cardiovascolare, pur avendo entrambe queste classi di farmaci mostrato di ridurre l’incidenza delle complicanze digestive alte. Per contro l’uso di basse dosi di misoprostol e di inibitori della pompa protonica (PPI: “proton pump inhibitors”, secondo l’acronimo d’uso internazionale), da soli o associati, è stato consigliato per ridurre queste complicanze. Tuttavia è ancora oggetto di discussione l’efficacia delle varie strategie proposte nel ridurre il rischio di compli canze digestive correlate all’uso prolungato di FANS e un ampio studio clinico controllato è stato recentemente condotto per confrontare l’efficacia a questoscopo ­(Targownik LE, Metge CJ, Leung S, et al. The relative efficacies of gastroprotective strategies in chronic users of nonsteroidal anti-inflammatory drugs. Gastroenterology 2008; 134: 937).



Gli autori hanno studiato 1382 soggetti che facevano uso prolungato di FANS o di coxib e che presentavano complicanze digestive superiori, confrontandoli con una popolazione di 33957 persone di età e sesso corrispondenti.
È stato osservato che, in linea generale, tutti i metodi seguiti per una strategia terapeutica gastroprotettiva consentono di ridurre il rischio di complicanze digestive secondarie a una lesione peptica. Tuttavia gli autori hanno rilevato alcune differenze, peraltro non significative, tra alcune associazioni terapeutiche e che soltanto l’associazione di coxib e PPI ha mostrato un effetto gastroprotettivo statisticamente superiore a quello degli altri farmaci.
Gli autori sottolineano, inoltre, che l’associazione di misoprostol a basse dosi con FANS non selettivi è utile per ridurre il rischio di complicanze digestive superiori e ciò è  importante nella pratica, perché le alte dosi di misoprostol non sono ben tollerate e causano l’interruzione del trattamento in circa il 25% dei casi e, inoltre, debbono essere somministrate quattro volte al giorno, determinando spesso una mancata collaborazione del paziente; per contro basse dosi di misoprostol sono ben tollerate e possono essere somministrate soltanto due volte al giorno ottenendo gli stessi effetti. Secondo gli autori un altro vantaggio dell’associazione di misoprostol a basse dosi e FANS non selettivi è quello di non ricorrere ai coxib quando vi sono motivi di rischio cardiovascolare con l’uso di questi farmaci e, inoltre, di evitare l’uso di PPI qualora vi sia il rischio, segnalato in alcuni studi, di polmonite acquisita in comunità, o di infezione da Clostridium difficile o di fratture.
Nonostante queste positive considerazioni in favore dell’associazione misoprostol a basse dosi e FANS non selettivi, gli autori dichiarano che per la prevenzione delle complicanze digestive da FANS gli effetti migliori sono stati osservati con l’associazione di coxib (specialmente celecoxib) con PPI, confermando i risultati di studi clinici  di altri autori. Per quanto concerne l’associazione di misoprostol e PPI gli autori non hanno rilevato significativi vantaggi e ritengono che tale associazione possa essere adottata se vi è il rischio di complicanze cardiovascolari da coxib.
Concludendo gli autori ritengono che sul problema dell’efficacia delle varie strategie gastroprotettive non è ancora detta la parola fine e che questa potrà venire soltanto da ulteriori studi clinici randomizzati e che nel frattempo ci si dovrà basare su ampi studi osservazionali.
Tuttavia, secondo l’esperienza degli autori, al momento attuale dovrebbe essere data la preferenza all’associazione di coxib e PPI.

Nel commentare questi risultati Graham e Chan (Graham DY, Chan FKL. NSAIDs, risks, and gastroprotective strategies: current status and future. Gastroenterology 2008; 134: 1240) si soffermano sul posto che hanno attualmente i coxib nella prevenzione delle complicanze digestive correlate all’uso di FANS e ricordano che molti studi hanno esaminato i relativi rischi cardiovascolari di questi farmaci e anche dei FANS. Da queste ricerche è risultato che sia coxib che FANS comportano un rischio cardiovascolare, che naproxen sembra essere meno cardiotossico, ma più gastrolesivo e che, al suo confronto, diclofenac e ibuprofen sembrano essere più cardiotossici ma meno gastrolesivi; per quanto riguarda i coxib (con riferimento soltanto al celecoxib) gli autori ritengono che si debbano attendere i risultati di studi in corso su pazienti al alto rischio cardiovascolare e che, al momento attuale, coxib, naproxen e ibuprofen dovrebbero essere adoperati soltanto in pazienti a basso rischio cardiovascolare. Per quanto riguarda il consiglio di alcuni autori di aggiungere basse dosi di aspirina ai FANS nei soggetti a rischio cardiovascolare, gli autori ritengono che non è dimostrato che queste basse dosi di aspirina possano proteggere dal rischio cardiovascolare dei FANS e nemmeno dei coxib e ricordano che è stato segnalato che l’associazione aspirina-ibuprofen determina un aumento di almeno due volte della mortalità cardiovascolare. A questo proposito gli autori consigliano di evitare l’uso di ibuprofen nei soggetti che assumono aspirina a scopo cardioprofilattico; in via alternativa gli autori consigliano di assumere aspirina almeno un’ora prima dell’ibuprofen.
Una particolare attenzione gli autori dedicano agli effetti dell’infezione da Helicobacter pylori nei pazienti che fanno uso di FANS, ricordando che la presenza di questa infezione accresce di circa due volte il rischio di complicanze gastrointestinali da FANS. Per questo motivo essi consigliano di eseguire le prove per identificare H. pylori in tutti i pazienti che debbono usare FANS.
Gli autori concludono il loro commento ricordando che attualmente la scelta di FANS  è complicata dall’incertezza sugli eventuali rischi cardiovascolari dei differenti farmaci di questa classe e ritengono che la decisione terapeutica debba basarsi sulla valutazione clinica del singolo paziente.
Influenza della mucosite orale sulla misura della temperatura corporea in sede orale
È noto che si considera normale una temperatura corporea di 36,8 ± 0,4 °C e che la sua misura può essere eseguita in varie sedi (ascellare, rettale, arteriosa, timpanica e orale); sebbene, almeno in teoria, la membrana timpanica sia ritenuta la sede ideale per questa misura, la sede orale è frequentemente scelta per la sua praticità. In realtà molti fattori possono causare erronee valutazioni della temperatura corporea misurata in questa sede, i più frequenti dei quali sono la masticazione e il fumo che possono far persistere aumentata la temperatura per oltre 20 minuti e l’assunzione di bevande fredde che può farla transitoriamente diminuire.



Recentemente è stata valutata l’influenza di una mucosite orale di varia gravità sull’accuratezza della misura della temperatura corporea eseguita in sede orale (Ciuraru NB, Braunstein R, Sulkes A, et al. The influence of mucositis on oral thermometry: when fever may not reflect infection. Clin Infect Dis 2008; 46: 1859).
Gli autori hanno misurato la temperatura corporea valutata simultaneamente in sedi orale e timpanica in 100 soggetti, suddivisi in quattro gruppi di 25, secondo la presenza o l’assenza di febbre o mucosite orale, inserendo in uno di questi gruppi anche la presenza di neutropenia.
È stato osservato che in tutti i gruppi la temperatura orale è risultata superiore a quella timpanica. Tale differenza è stata significativa soltanto nei soggetti con mucosite orale (38,0°C vs 37,1°C: P <0,001); questo aumento si è verificato in presenza di normale temperatura sistemica. Inoltre la presenza di mucosite orale definita “grave” non ha modificato tale differenza.
Gli autori rilevano che l’accurato accertamento della presenza di febbre è essenziale nella pratica clinica, perché la febbre può spesso costituire l’unico segno di infezione. In campo oncologico la comparsa di febbre associata a neutropenia indica un situazione di emergenza. A questo proposito, gli autori, che operano in un reparto oncologico, ricordano che le linee guida dell’American Society of Clinical Oncology e dell’Infectious Disease Society of America definiscono febbre una temperatura corporea superiore alla temperatura di 37,0°C (o 98,6° Fahrenheit) considerata normale ( Hughes WT, Armstrong D, Bodey GP, et al. 2002 guidelines for the use of antimicrobial agents in neutropenic patients with cancer. Clin Infect Dis 2002; 31: 730), ma che nella letteratura medica non sono distinte le misure della temperatura in condizioni di presenza o di assenza di infiammazione locale e ciò, secondo gli autori, può avere importanti conseguenze nella decisione di ricorrere oppur non alla terapia antibiotica. Secondo gli autori, la misura della temperatura in sede timpanica consente di conoscere con maggiore approssimazione la temperatura corporea e, in proposito, ricordano che, almeno in teoria, la membrana timpanica è la sede più idonea alla valutazione della temperatura corporea, perché è irrorata da un ramo dell’arteria che irrora il centro termoregolatore ( Klein DG, Mitchell C, Petrine A, et al. A comparison of pulmonary artery, rectal and timpanic membrane temperature measurements in the ICU. Heart Lung 1993; 22: 435). Tuttavia gli autori riconoscono che anche la misura della temperatura in sede timpanica può essere inesatta quando la posizione del termometro non è regolare o in condizioni di ipoafflusso ematico nell’area timpanica.
Concludendo, gli autori ritengono che nella misurazione della temperatura corporea è sempre necessario considerare la potenziale discrepanza tra valori “locali” e “reali” e che in condizioni di mucosite orale non sia consigliabile la misura della temperatura in sede orale, bensì quella in sede timpanica.
Trattamento antipertensivo nei grandi anziani
Studi epidemiologici e clinici hanno indicato che la riduzione della pressione arteriosa consente di prevenire efficacemente eventi cardiovascolari e cerebrovascolari. È stato infatti dimostrato un aumento di rischio con l’aumento del livello della pressione in tutti i gruppi di età, ma tale correlazione è risultata meno evidente nei soggetti ultraottantenni; tuttavia un recente studio pilota sull’ipertensione nei grandi anziani ha indicato che, in questi soggetti, il trattamento dell’ipertensione, pur determinando una riduzione della frequenza dell’ictus, è risultato associato ad aumento dell’incidenza dell’obitus per altre cause e che, per ciascun ictus prevenuto, vi è stato un obitus per altre cause ( Bulpitt CJ, Beckett NS, Cooke J, et al. Results of the pilot study for the Hypertension in the Very Elderly Trial (HVET). J Hypertension 2003; 21: 2409). Il problema dell’utilità e dell’innocuità della riduzione della pressione arteriosa nei grandi anziani è stato recentemente ripreso dal gruppo di studio HYVET in uno studio clinico randomizzato multinazionale (Beckett NS, Peters R, Fletcher AE, et al for the HYVET Study Group. Treatment of hypertension in patients 80 years of age and older. N Engl J Med 2008; 358: 1887). In questo studio 3845 pazienti di età ≥80anni, con pressione arteriosa sistolica persistentemente ≥160 mmHg, sono stati assegnati con criterio random a ricevere il diuretico indapamide a dismissione protratta (1,5 mg pro die) e, secondo necessità, anche l’ACE-inibitore perindropril (2 o 4 mg pro die) oppure il placebo, mirando a raggiungere una pressione di 150/80 mmHg. Come punto di riferimento (“end point”) primario è stato considerato un ictus (mortale o no) escludendo gli attacchi ischemici transitori (TIA); come punti di riferimento secondi sono stati considerati il decesso per qualunque causa, il decesso per cause cardiache (infarto miocardico mortale, insufficienza cardiaca mortale e morte improvvisa) e il decesso per ictus. Gli autori hanno osservato che nei pazienti ultraottantenni studiati il trattamento con indapamide, con o senza perindopril, riduce in maniera significativa il rischio di ictus e, “inaspettatamente”, anche il rischio di morte per qualsiasi causa. Questo risultato sulla mortalità per qualsiasi causa, in contrasto con precedenti studi, è spiegato dagli autori con fatto che i soggetti da loro esaminati si trovavano, all’inizio dello studio, in condizioni cliniche generali migliori e con minore prevalenza di precedenti eventi cardiovascolari rispetto ai soggetti esaminati negli altri studi. Un particolare rilievo gli autori danno alla notevole riduzione del rischio di insufficienza cardiaca evidenziata nel loro studio. A questo riguardo gli autori osservano che, nei soggetti di oltre 70 anni di età, l’ipertensione rappresenta il più importante fattore di rischio di insufficienza cardiaca e pertanto il trattamento associato diuretico e ACE-inibitore può evidentemente apportare un beneficio. Nonostante questi positivi risultati, gli autori ritengono che essi non possono essere estesi a tutti gli ultraottantenni, che, notoriamente, sono molti fragili per molteplici cause.



Nel commentare questi risultati Kostis (Kostis JB. Treating hypertension in the very old. N Engl J Med 2008; 358: 1958), a proposito del problema dell’innocuità del trattamento antipertensivo nei grandi anziani, ricorda le parole di Paul Dodley White nel suo famoso testo di cardiologia del 1937: “nelle situazioni patologiche avanzate, con arterie coronariche e cerebrali ristrette, l’ipertensione potrebbe rappresentare un meccanismo compensatorio che non dovrebbe essere manomesso” (White PD. Heart diseases. 2nd ed. Mc Millan. New York 1937: 326). L’autore ricorda, inoltre, che nei grandi anziani la frequente presenza di alterazioni anatomo-funzionali cardiache e renali, di ipotensione ortostatica, di disturbi cognitivi e di assunzione di molti farmaci con possibili interazioni, possono ridurre i vantaggi conseguenti alla terapia antipertensiva; l’autore cita in proposito i risultati del gruppo di studio INDANA che non ha dimostrato un benefico effetto sulla mortalità per tutte le cause (anzi un suo incremento peraltro non significativo, del 6%), nonostante la riduzione del rischio di eventi cardiovascolari ( Gueyffier P, Bulpitt C, Boissel JP, et al. Antihypertensive drugs in very old people: a subgroup meta-analysis of randomized controlled trials. Lancet 1999; 353: 793). Secondo Kostis (loc cit), in questa situazione delle attuali conoscenze, i risultati ottenuti dal gruppo HYVET costituiscono un utile contributo al problema del trattamento dell’ipertensione negli ultraottantenni.
Sanità USA: la riforma di McCain e quella di Obama

Il British Medical Journal ha pubblicato una sintesi dei programmi di riforma sanitaria presentati dai candidati alla presidenza degli Stati Uniti (Barbara Markham Smith: Health and US presidential campaigns. BMJ 2008; 337: 723-4). McCain propone l’abolizione dello sgravio fiscale sui benefit assicurativi di cui godono i “colletti bianchi”, così da includere nel loro reddito imponibile l’intero ammontare dei premî, la cui tassazione – proporzionale – dovrebbe produrre un effetto-calmiere sul numero e sull’entità delle polizze, oltre che un rilevante incremento di gettito. Questo, derivando maggiormente da redditi medio-alti, graverebbe meno sui bilanci più modesti. La soppressione della franchigia verrebbe in parte sostituita dalla disponibilità di un credito di imposta, spendibile sul mercato assicurativo privato: un credito generale, ma differenziato: 2500 dollari per i singoli e 5000 dollari per famiglia. Dato che, negli USA, la media del premio assicurativo per la famiglia di un impiegato di buon rango è calcolabile in 12000 dollari annui, essa potrebbe ridursi di 7000 dollari (in media) nel caso che i beneficiarî decidessero di ridemensionare le polizze, contando sull’integrazione garantita loro dal bonus governativo. Ciò potrebbe costituire, inoltre, un forte incentivo a stipulare – comunque – polizze meno costose. Tanto da ipotizzare, quale ulteriore frutto di tale razionalizzazione (specie se e quando il prezzo dei benefit fosse inferiore al credito di imposta), financo un residuo attivo, da destinare a un fondo individuale di riserva previdenziale. Per compensare la controparte (le Compagnie di assicurazioni) dell’abolizione della franchigia fiscale, McCain promette loro un piano capillare di rilancio del  mercato, incentrato su maggiore diffusione territoriale delle imprese e diversificazione della tipologia dei contratti, piano che dovrebbe implementare la clientela, oggi non superiore ai 6 milioni e mezzo di sottoscrittori. A tal fine, una politica liberista non può che allentare quanto più possibile i lacci e lacciuoli attualmente vincolanti la attività delle compagnie: esse non saranno più obbligate a minimi di benefit e saranno autorizzate ad operare non solo al di là dei confini di Stato ma anche all’estero: nella fiducia – coerente con i principî antiprotezionistici – che la parcellizzazione dell’offerta, la delocalizzazione, il moltiplicarsi della rete commerciale, il contatto più diretto tra cliente e fornitore riescano a incrementare la domanda, ampliare (insieme con la tipologia) il numero delle polizze, così da diminuire i costi, innescando ed alimentando un circolo economico virtuoso. Allo Stato, tuttavia, e alle finanze federali, resterebbe il compito dell’assistenza medica per la popolazione al di sotto del livello minimo di sussistenza, attraverso l’implementazione della sussidiarietà (anche mercé più consorzi privati) a favore di soggetti e famiglie “ufficialmente” povere, e quindi esclusi da ogni ausilio non gratuito.





Là dove McCain vorrebbe frazionare e convertire alla contrattazione individuale i grandi gruppi di assicurazione collettiva, Obama propone il contrario: egli tende – sì – a moltiplicare la potenzialità dell’area assicurativa privata, attualmente in situazione pressocché di stallo, mantenendo, tuttavia in vita le agevolazioni fiscali ed incoraggiando, piuttosto, aggregazioni societarie in mega-consorzi, per aiutarle a pervenire, con l’aiuto e sotto gli auspici del Governo, a dimensioni, funzionalità e convenienze analoghe a quelle dei Fondi del pubblico impiego. Questo “Insurance Exchange” dovrebbe rappresentare un istituto speculare al Fondo Federale, in modo da equilibrare i piatti della bilancia e avvicinarsi all’ optimum di copertura previdenziale, fino al traguardo della integrazione e del reciproco potenziamento tra pubblico e privato. L’obiettivo è quello di assicurare ad ognuno il massimo beneficio possibile, senza distinzione di classe o di rango: vecchi e bambini, pensionati e impiegati privati e pubblici, operai, liberi professionisti, manager privati e pubblici, fino ai Membri del Congresso, ai giudici della Corte Suprema e al Presidente degli Stati Uniti. Quanto al censo, i meno abbienti potrebbero contare non sul credito di imposta promesso dai Repubblicani, bensì su un aiuto governativo proporzionato al loro reddito, e – comunque – un’alternativa a “Insurance Exchange” sarebbe costituita da un piano simile a Medicare. Obama si dice convinto che una così forte concentrazione ed alleanza tra pubblico e privato riuscirebbe a contrarre i costi di previdenza e assistenza sanitaria al livello della media europea, tanto da garantire il diritto alla assistenza sanitaria di ogni cittadino. Nel programma dei Democratici viene infatti eliminato il ricovero ospedaliero gratuito per i soggetti super-poveri (attualmente nei Veteran’s Hospitals) in quanto non si ritengono necessari “poli speciali” per fronteggiare livelli di alto rischio: il nuovo sistema, se e quando realizzato, avrà fondamenta sufficienti per coprire anche tali evenienze.