Dalla letteratura

- Le parole dell’innovazione in sanità

Roma, 24 maggio 2022, Palazzo delle Esposizioni

Recenti Progressi in Medicina torna, dopo averlo fatto per le prime due edizioni, a dedicare le pagine della rubrica “Dalla letteratura” a un rapido resoconto degli interventi degli otto relatori – italiani e stranieri – che, da punti di vista diversi, hanno approfondito il significato e la complessità delle parole chiave discusse alla quinta riunione annuale “8words - Le parole dell’innovazione in sanità”. In questa edizione, dopo un anno di pausa per la pandemia di covid-19, le parole sono 8: prossimità, distanza, (in)successo, avviene, spazi, genere, cambiamenti, regole.

Ci auguriamo così di tenere aperto il confronto e sollecitare fra i lettori la discussione sulla sanità che sta cambiando. www.forward.recentiprogressi.it




Marco Vergano: Recuperiamo la prossimità nella relazione

Non si poteva affidare a una figura più rappresentativa di Marco Vergano, medico anestesista e rianimatore, coordinatore della sezione di bioetica della Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI), il compito di aprire la giornata dell’evento annuale di Forward con la parola “prossimità”, proprio l’elemento che durante la pandemia è mancato di più.




Vergano si concentra soprattutto sul concetto di prossimità nelle relazioni, riferendosi in particolare alla sua drammatica esperienza di lavoro durante le diverse ondate di covid-19 nella terapia intensiva (TI) dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino. In quel frangente è stata ancora più forte la sua percezione di quanto la medicina di oggi, ricchissima di mezzi e pervasa di tecnologia, corra il rischio di non curare e trattare le persone in quanto soggetti, ma di sostenerne solo le funzioni biologiche. In TI, afferma Vergano, non esiste la morte naturale: tutto è controllato, la biologia viene separata dalla biografia, si creano pazienti critici cronici che, se sopravvivono, non si sa come potranno essere seguiti e gestiti nel lunghissimo percorso riabilitativo successivo all’uscita da quel reparto. In questo contesto è necessario fare uno sforzo per valutare non solo il come ma anche il perché degli interventi sui pazienti, riflettere sulla loro appropriatezza, capire se sono proporzionati da un punto di vista etico.

Vergano trasporta poi la platea nel ricordo indelebile dei giorni difficili in cui lui e i suoi colleghi si sono sentiti investiti da uno tsunami, costretti a reagire e a prendere decisioni in uno scenario senza precedenti. Con la pandemia di covid-19, il vuoto decisionale a livello istituzionale ha fatto sì che scelte inevitabili siano “rotolate” giù fino al medico al letto del malato: ma un conto è prendere decisioni a livello teorico, un altro è farlo come esecutori di quella scelta, guardando negli occhi la persona che quelle decisioni le subisce. Essere costretti a compiere ripetutamente scelte tragiche, che obbligano a violare uno o più principi morali provoca moral distress e alla lunga moral injury. Il burnout è proprio questo: «un palloncino che se si gonfia troppo scoppia». E a questo punto, sorprendentemente, Vergano mostra i grafici di un’app della Mayo Clinic che impietosamente ha registrato il suo grave burnout e il livello estremo di stress raggiunto tra febbraio 2020 e gennaio 2021.

Ma a Vergano sta molto a cuore un’altra prossimità in cui è venuta a crearsi una grave frattura non ancora sanata: quella della comunicazione con le famiglie, rimaste totalmente isolate dal paziente in cura durante la pandemia. La TI del San Giovanni Bosco da 15 anni è sempre stata aperta 24 ore su 24, rammenta Vergano; nel giro di pochi giorni, si è dovuta isolare completamente: un evento traumatico per tutti coloro che vi lavoravano e una delle maggiori cause di moral injury tra gli infermieri. Pur avendo cercato di attivare una comunicazione a distanza il più possibile ottimale1, questa rimaneva una modalità del tutto innaturale per le persone che morivano in ospedale. Nessuno dovrebbe morire da solo2, anche perché la veglia del morente, la cura del suo corpo e la vestizione dopo il decesso sono riti dal valore sociale altissimo. Vergano ha ricordato invece come, durante la pandemia, non ci sia più stata la vestizione delle salme: quelle dei pazienti covid venivano avvolte in lenzuola ospedaliere, cosparse di clorexidina e chiuse, perché tanto nessuno poteva più vederle.




È inaccettabile che una persona muoia da sola, e ora che il Paese non è più in lockdown e non ci sono ragioni epidemiologiche per mantenere le chiusure, l’appello di Vergano è di riaprire TI e ospedali: sarebbe estremamente importante anche per i pazienti che sopravvivono3. Tra i pazienti covid che non hanno potuto avere le famiglie accanto, infatti, il delirium ha avuto un’impennata4, e trattare il delirium in TI comporta invece riorientare il paziente, fargli avere la famiglia vicino, parlargli di ciò che si trova fuori, mobilizzarlo e tenerlo sveglio il più possibile. Nelle TI covid tutto questo si è perduto. Ricucire questa enorme frattura nella prossimità forse non è un concetto innovativo, ma per Vergano la covid non deve diventare un alibi per richiudersi e perdere 15 anni di TI e ospedali aperti: è necessario recuperare tutta la prossimità di relazione persa fin qui.




Il racconto molto umano e a tratti intimo di Marco Vergano, per quanto doloroso, ha già contribuito a restituircene una parte.

Silvana Guida

Bibliografia

1. Mistraletti G, Gristina G, Muscarin S, et al. How to communicate with families living in complete isolation. BMJ Support Palliat Care 2020; bmjspcare-2020-002633.

2. Ramos HC, Hashimoto N, Henry L. No one should die alone on our watch. Int J Care Caring 2020; 4: 595-8.

3. Mistraletti G, Giannini G, Gristina G, et al. Why and how to open intensive care units to family visits during the pandemic. Crit Care 2021; 25: 191.

4. Belluck P. ‘They want to kill me’: many covid patients have terrifying delirium. The New York Times 2020; June 28.

Chiara Montaldo:
Ridurre la distanza, avvicinare la cura

«Superare le distanze, o comunque ridurle, è parte integrante della cura». È questa la conclusione – ma anche l’incipit – dell’intervento a “8words 2022” di Chiara Montaldo, medico di Medici senza Frontiere (MSF). La parola affidatale è appunto “distanza”. E se la prima definizione del termine è generica – “la lunghezza del percorso fra due luoghi, due oggetti, due persone” –, essa si riempie di senso, concreto, quando a percorrere quella “lunghezza” sono i medici e i pazienti di MSF, provenienti da mondi tanto distanti. Il racconto di Montaldo ci rimanda l’esperienza sul campo di ogni tipo di distanza (geografica, sociale, culturale, economica), prevalendo – a seconda del Paese – una volta uno, una volta l’altro, sempre con l’obiettivo di superare questa condizione, perché a fare le spese della distanza è comunque la cura, e quindi le persone.




La prima missione è in Cina, dal 2005 al 2007, con un progetto Hiv. Nonostante la grande distanza culturale, era quella geografica a colpire di più: i pazienti – dalla regione rurale di Henan – viaggiavano per giorni per ricevere gli antiretrovirali a Wuhan, sede del presidio sanitario di MSF. A Henan, nei primi anni ’90, le autorità sanitarie avevano incoraggiato i contadini più poveri a vendere il loro sangue per integrare il loro reddito, ma la raccolta, fatta senza alcuna precauzione dalle farmaceutiche governative, aveva aperto la strada alla contaminazione con epatiti virali e Hiv. In Ucraina, invece, nel 2012, il progetto era sulla tubercolosi nel sistema penitenziario locale. Qui la prigione era collocata nel nulla, a un’ora da Donetsk, con i suoi pazienti completamente isolati non solo perché detenuti, ma anche perché distanti socialmente e culturalmente dal resto del Paese che era in quel momento in grande espansione e che addirittura ospitava i campionati europei di calcio. O ancora, racconta Montaldo, l’India, dove le ragioni della distanza dei pazienti dalla cura, dal servizio sanitario erano mediche (indisponibilità di farmaci), burocratiche (pazienti immigrati, spesso dal Nepal, senza diritto alle terapie retrovirali), o socio-culturali (transgender o prostitute). Quali siano le ragioni, la distanza è fatta sempre e comunque di «barriere nel sistema sanitario. Noi, con il nostro progetto, abbiamo cercato di ridurre un po’ questa distanza e di avvicinare la cura ai pazienti» conclude.

«Ciò che è differente spesso è distante» riflette ancora Montaldo. L’esperienza con MSF in Libano, a Shatila, sembra confermarlo raccontando di una distanza geograficamente minima (un quarto d’ora dal centro di Beirut) che diventa abissale perché fatta di grande diversità culturale, sociale, religiosa e politica: dalla downtown di Beirut alla periferia di Shatila dai cui rubinetti usciva acqua salata e dove non c’era alcun sistema elettrico. Eppure «diversità non vuole dire necessariamente distanza». Montaldo è in Sicilia, a Pozzallo, tra il 2014 e il 2016, nel pieno della crisi siriana per cui alla migrazione cronica dall’Africa si aggiungeva quella dal Medio Oriente. «Ho incontrato tantissime nazionalità differenti» racconta. «I Paesi di partenza erano i più diversi e poi – come in una specie di imbuto – attraverso il Mediterraneo o la rotta balcanica, molti arrivavano in Europa». Nella barca dove si trovava un ragazzo ghanese, autore del disegno che ci mostra, e sulla quale sono morte 45 persone, si sono ritrovate storie completamente diverse, provenienti da migrazioni completamente diverse, che però sulla barca «si sono improvvisamente avvicinate». Diversità che non sono però distanze, per la comune condizione di migranti.

I racconti sui progetti MSF relativi a ebola e a febbri emorragiche in Guinea, Nigeria e Congo ci avvicinano al tema, recentemente anche nostro, di malattie contagiose e letali per le quali l’isolamento è sinonimo di salvezza ma anche di grande distanza: tra operatori sanitari e pazienti, tra pazienti e parenti, tra parenti e operatori sanitari. A parte nella zona ad alto rischio, dove i dispositivi di protezione totale permettevano di avvicinarsi e toccarsi, altrove – ovunque – vigeva la “no touch policy”, racconta Montaldo. Per ridurre quella distanza, che non permetteva ai familiari di vedere i propri cari da vivi – durante le cure – o da morti, quando sette volte su dieci i pazienti non ce la facevano, MSF ha modificato la struttura dei suoi presidi: non più lontani dai centri abitati bensì all’interno di essi, non più pareti di legno ma di plexiglass, da cui si potesse vedere e assistere. «Poter vedere quello che succedeva veramente ha aumentato anche la fiducia della popolazione» dichiara Montaldo. Anche «il coinvolgimento dei pazienti guariti è stato fondamentale per ridurre le distanze» continua, «così come il coinvolgimento attivo della comunità locale, soprattutto quando qualcosa fa molta paura come ebola».




L’intervento di Chiara Montaldo si chiude con l’esperienza della covid. Essa ha evidenziato chiaramente due tipi di distanze. La prima, enorme, dei pazienti, dei tanti anziani, che hanno sofferto e sono morti in solitudine: «Come noi con ebola abbiamo tentato fin da subito di ridurre la distanza nonostante una malattia così pericolosa» ragiona Montaldo, «forse qualche sforzo in più l’avremmo potuto fare o lo potremmo ancora fare per ridurre questa distanza con i pazienti covid». La seconda creata dalle diseguaglianze nelle cure, in primis la vaccinazione, le cui percentuali – del 125% nei Paesi ad alto reddito e di circa il 4% in quelli a bassissimo reddito – sintetizzano drammaticamente un gap che chiede di essere ridotto, anche sui tanti altri fronti della gestione del virus. Pur non volendo sminuire l’enormità delle conseguenze della covid, per chi di MSF ha lavorato con ebola questa malattia rappresenta la malattia “vip”: «Se solo una minima parte di attenzione e risorse messe nella covid fosse stata messa nella malaria o nella diarrea dei bambini o nell’Hiv, o forse nel contrasto ad alcune guerre facilmente contrastabili, si sarebbero avuti ottimi riscontri in termini di mortalità», conclude.




«La distanza in questo mondo è relativa» ci dice infine Montaldo «perché anche cose che ci sembrano molto distanti possono avere un impatto a distanza, a volte immediato a volte più a lungo termine». Ridurre le distanze fa parte della cura, non solo della persona ma forse anche del pianeta.

Manuela Baroncini




Angelo Tanese:
Cambiare il modo di cambiare

Che cos’è l’insuccesso e cos’è il successo per un’organizzazione sanitaria? Come definire questi due estremi? La risposta in fondo, secondo Angelo Tanese, direttore generale della ASL Roma 1, sta nella lettura che diamo della realtà. «Avremmo mai detto qualche anno fa che la Sanità pubblica sarebbe tornata così prepotentemente nell’agenda politica? Oggi lo diamo per scontato ma quattro anni fa eravamo qui a parlare del quarantennale del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e tutti ci lamentavamo perché non si parlava più di Sanità… Chi siamo noi? Siamo quelli di cui non si parlava o siamo quelli di cui si parla ogni giorno? Siamo consapevoli dell’importanza di tutti gli aspetti connessi alla gestione del nostro SSN oppure siamo parte di una gigantesca narrazione?».
Nel suo intervento durante la quinta riunione annuale “8words 2022”, Tanese ha fatto un esempio di grande attualità, quello del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR): «Siamo proprio sicuri che vogliamo arrivare proprio lì dove il PNRR dice di volerci portare? Possiamo avere la ragionevole pretesa di decidere esattamente nel 2022 che cosa saremo e dove arriveremo nel 2026? No. Io credo che quello che faremo e quello che realizzeremo sarà molto più sorprendente di quello che noi oggi progettiamo». Secondo Tanese insomma il successo o l’insuccesso, il raggiungimento o meno dell’obiettivo che ci si è prefisso non è legato alla modalità, agli strumenti, al piano: «È legato alla consapevolezza con cui noi gestiamo il presente sapendo chi siamo e cercando di capire dove possiamo arrivare. Molto spesso sembra che ci sia il bisogno di dire a noi stessi che la strada è chiara, l’obiettivo è luminoso, il percorso dipende soltanto dalla nostra capacità. Ma è davvero così? La sensazione di chi sta sul campo è che la realtà continui a essere complessa: il lavoro si costruisce nell’incertezza molto più che nella certezza. […] La covid-19 ci ha schiacciato, ci ha costretto a guardare una realtà diversa, quello che non volevamo vedere e neanche immaginare.




È inutile cercare di decidere prima che cosa ci porterà al successo e che cosa all’insuccesso, cosa sarà un successo e cosa sarà un insuccesso. Capita di incontrare addetti ai lavori che sembrano pensare che tutto è chiaro, tutto è facile (ma naturalmente sta a te realizzarlo) e altri al contrario che ti dicono che il PNRR è già fallito, ne parlano già al passato… In entrambi i casi c’è una frustrazione enorme, quella di parlare a persone che non vogliono guardare il mondo per quello che è. Molto semplicemente credo che ancora noi facciamo tantissima fatica ad accettare la complessità e quindi anche la possibilità che quel limite rappresenti la nostra risorsa». Come leggere la gestione della pandemia da parte delle nostre istituzioni? Si oscilla tra una visione a tinte fosche secondo la quale la gestione della pandemia di covid-19 è stata un disastro, ha messo a nudo tutti i limiti e ha sancito il fallimento del SSN e un’altra invece trionfalistica. «Ecco, io credo che noi abbiamo fatto quello che potevamo, lo abbiamo fatto in quel presente affrontando quell’incertezza cercando di non fuggire davanti a quella responsabilità».

Angelo Tanese ha spiegato come dirigere un’organizzazione fatta da migliaia di persone che quotidianamente lavorano in uno stesso contesto nonostante abbiano professionalità diverse, età diverse, caratteristiche diverse e siano anche in momenti molto diversi della loro storia professionale ponga necessariamente una questione di fondo: «In che modo costruiamo quella comunità per far sì che quel contesto di lavoro sia un contesto che produce valore, che non genera disvalore, che costruisce il successo e non genera l’insuccesso? Penso che siano tre i concetti-chiave, per così dire: il primo è essere un’organizzazione positiva, che affronta le cose […] che vanno fatte, pronti ad accettare la sfida dell’ignoto; essere positivi significa per un’organizzazione essere aperta alla possibilità che le cose non vadano nella direzione che è stata prevista. Il secondo è essere un’organizzazione gentile, che riconosca il valore della fatica e del lavoro delle persone, che sappia ammettere l’errore fragili; i comportamenti delle persone hanno una dimensione emotiva e una dimensione di relazione. Il terzo è essere un’organizzazione responsabile. La sfida è – imparando anche dai propri errori – cambiare il modo di cambiare”.

David Frati




Alessandro Vespignani:
Di fronte alla complessità dare i numeri non basta

«Spesso durante questa pandemia la scienza è stata personalizzata. Si tratta invece di un lavoro di squadra e questo è importante da ricordare», esordisce Alessandro Vespignani, professore di fisica informatica alla Northeastern university di Boston e responsabile del Network science institute, nell’affrontare la quarta parola chiave della giornata: “Avviene”. «Perché un fisico a parlare di salute?», prosegue. «La mia traiettoria mi ha portato a occuparmi di modelli previsionali e da oltre 20 anni quello che facciamo è cercare di prevedere le mosse del “nemico”, se vogliamo vedere il virus in questo modo. Con la pandemia ci siamo trovati in qualcosa di mostruoso, di gigantesco, e il nostro ruolo è diventato quello di interfaccia con il policy-making. Cercare di capire quel che è successo è importante per individuare gli errori commessi e poter lavorare in futuro in maniera diversa».

Secondo Vespignani, “avviene” è una parola strana: vuol dire succede in questo momento, ma implica anche l’idea dell’avvenire, del guardare al futuro. E non si può non collegare con la parola “insuccesso”, almeno nell’esperienza di chi fa un lavoro previsionale. In una cosa così complessa come una pandemia, infatti, ci si è trovati catapultati in una sorta di accelerazione in cui in pochi giorni cambiava ogni riferimento. In questa “fame di futuro”, sulla pandemia sono stati letteralmente dati i numeri: sui giornali si pubblicavano cose che non avevano senso, creando nel pubblico una visione in qualche modo sospesa. In realtà, sottolinea Vespignani, l’intelligence epidemiologica ha fatto fin dai primi giorni un enorme lavoro previsionale, cercando di creare “consapevolezza situazionale” in un momento in cui non si sapeva cosa stesse succedendo e la situazione evolveva con estrema rapidità. Si è stati subito in grado di capire che la trasmissione avveniva da uomo a uomo e che i casi erano molto più numerosi di quanto si potesse rilevare. Inoltre, il gruppo della Columbia university si è presto reso conto del fatto che c’era un gran numero di soggetti asintomatici e che questo comportava una trasmissione criptica negli altri Paesi anche se la Cina era stata chiusa: nonostante il cordone sanitario creato, il virus stava già giocando a rimpiattino. Cosa non ha funzionato, dunque?




Ogni giorno nella nostra società si fanno scelte basate su equazioni, basti pensare alle previsioni meteorologiche. Ma una cosa è prevedere degli scenari, un’altra è aspettare che qualcosa di temibile avvenga: in quest’ultimo caso si sta già lavorando in ritardo. Ed è questa la differenza con le pandemie. Se si attende un uragano lo si può seguire grazie a delle fotografie, di cui però non si disponeva per analizzare l’avanzata del virus. Il pubblico immaginava, come nei film di fantascienza, gli esperti riuniti in centri di controllo con enormi schermi su cui si poteva seguire quel che avveniva e capirlo in tempo reale, mentre in realtà i dati registrati erano caotici e spesso inattendibili. Non trasmettere adeguatamente questa informazione è stato, secondo Vespignani, uno dei più grandi errori di comunicazione commessi.




Altro elemento importante è che bisogna saper leggere queste “mappe dell’avvenire”. Si è fatta molta confusione su cos’è una previsione e cosa sono gli scenari che si generano quando si fa un lavoro di intelligence. Una previsione non si può fare oltre le 4 settimane. Basandosi sui dati disponibili e proiettandoli con gli algoritmi si possono creare solo degli scenari, che sono una cosa ben diversa: non potranno mai presumere esattamente quel che avverrà, sono degli strumenti di ragionamento che si limitano a circoscrivere il campo per poter lavorare meglio. Giocando in chiave scandalistica su questa confusione si è creato il ciclo che viene chiamato “panico e negazione”. Le previsioni non sono oracoli, sottolinea Vespignani; a seconda dei modelli che le hanno generate possono avere differenze e influenzare in modo diverso i decisori. Per questo è necessario combinare i vari modelli assieme a numerosi altri dati e fornire ai decisori una sorta di “portafoglio” di possibilità. Inoltre, esattamente come è stato fatto per le previsioni meteorologiche, bisogna costruire delle infrastrutture, dei centri nazionali che forniscano una voce univoca, non ci si rivolge a singoli individui per avere delle previsioni d’insieme.

In conclusione, molti sono stati gli errori commessi nella gestione e nella comunicazione della pandemia. Per non ripeterli – avverte Vespignani – bisognerà imparare a lasciare fuori dalle stanze decisionali l’arroganza del pensiero “da noi questo non può avvenire”, a non presumere che ciò che avverrà sarà necessariamente simile a ciò che è avvenuto in passato, a comunicare l’incertezza affidandosi a chi ha gli strumenti per farlo, ma soprattutto ad agire nonostante le incertezze e i dubbi.

Bianca Maria Sagone




Elena Granata:
Rompere le scatole,
uscire dagli schemi

«Non vi racconterò che lo spazio è importante per la nostra vita. Non vi racconterò che quando ci alziamo al mattino e ci svegliamo in una stanza la prima cosa che cogliamo sono le cose che ci restituiscono la nostra identità. Non vi racconterò la relazione profonda che c’è tra l’habitat, lo spazio, e l’habitus, il carattere. Non vi parlerò di tutto questo perché mi interessa raccontarvi degli spazi che ancora ci mancano». Inizia così l’intervento di Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano, a “8words 2022”, la quinta riunione annuale del progetto Forward. Anche grazie alla pandemia di covid-19 abbiamo capito che siamo fatti per esperienze, per luoghi complessi, per luoghi promiscui dove ci accadono cose che non potevamo immaginare. Ma perché allora le nostre città sono ancora estremamente semplificate? «Tutti noi siamo cresciuti dentro scatole – continua Granata – attribuendo alla scuola la funzione educativa, all’ospedale la funzione della salute, al museo la funzione dell’arte, alla chiesa quella del rito religioso, come se non potessimo pensare l’organizzazione delle nostre vite se non per contenitori. Ma questi contenitori oggi ci stanno stretti e capiamo che abbiamo bisogno di rompere le scatole». E il modo per farlo c’è, diversi esempi nel mondo lo dimostrano.

Andiamo a Tokyo. Qui è stato costruito da Takaharu Tezuka l’asilo più bello del mondo. Sul tetto, che somiglia a un grande giardino, non avendo imposto la separazione tra gli spazi i bambini corrono rendendo non necessaria l’ora di ginnastica. Nelle aule, che non essendo distinte permettono ai bambini di passare da una all’altra, ci si può anche arrampicare sugli alberi, così ci si espone moderatamente al rischio e si impara a essere cooperativi e ad aiutarsi. Gli spazi sono tutti aperti, se piove i bambini si bagnano e se c’è il sole prendono il sole, e quindi non c’è bisogno di fare educazione ambientale perché il passaggio delle stagioni lo sentono e lo vedono con i loro occhi.

Torniamo in Italia e andiamo a Volterra. Qui il carcere costruito da Armando Punzo è quello che Granata chiama un ibrido: un carcere, che dovrebbe essere l’istituzione totale per eccellenza, ha al suo interno una compagnia teatrale stabile da 25 anni. In questo modo le persone che vengono da fuori per vedere gli spettacoli non sanno più se sono dentro o se sono fuori. «Dentro/fuori, interno/esterno, appartenenza/esclusione: queste sono le cose di cui dovremmo discutere nei prossimi anni».

Infine, Copenaghen. Qui Bjarke Ingels ha costruito “Superkilen”, un parcheggio rosa e rosso acceso. Si tratta del classico spiazzo in un quartiere periferico dove ci sono conflitti e povertà, da trasformare in uno spazio di appartenenza, di arte e di bellezza. E l’intuizione geniale dell’architetto è quella di cimentarsi con qualcosa di apparentemente banale: capisce che lo spazio tra le case è quello che consente la ricomposizione delle differenze, la condivisione degli spazi, e attraverso il colore rosa e rosso che risale sulle pareti trasforma questo spazio in qualcosa d’altro. Ci sono i simboli delle varie appartenenze religiose, ci sono le comunità che possono incontrarsi anche in modo casuale e questa possibilità di incontro nello spazio pubblico ovviamente facilita le relazioni.

«Chi sono Takaharu Tezuka, Armando Punzo, Bjarke Ingels?», conclude Granata: «Sono quelli che ho chiamato “placemaker”. Sono i plasmatori di spazi, le persone che capiscono che dobbiamo rompere le scatole e alterare quel modello spaziale ereditato dal passato per inventare il nuovo e cambiare le vite delle persone».

Rebecca De Fiore

Emma Dowling:
Le disuguaglianze di genere
e la crisi del lavoro di cura

«Le prospettive dalle quali si può intraprendere una conversazione sul genere sono tantissime; io ho scelto quella della cura, perché è un ambito nel quale le donne svolgono un ruolo centrale spesso anche a titolo gratuito. Lo si è visto durante la stessa pandemia, quando si è dato per scontato che fossero in prevalenza le donne a doversi assumere la responsabilità delle cure».

Esordisce così Emma Dowling, docente di Sociologia dei cambiamenti sociali all’Università di Vienna e autrice di The care crisis. What caused it and how can we end it?1, nel suo intervento a “8words 2022”, ricordando che mediamente nel mondo le donne dedicano al lavoro di cura non retribuito, sia esso rappresentato dal lavoro domestico, dall’accudimento dei bambini, degli anziani o di chi non è autosufficiente in famiglia, o riguardi attività svolte all’interno della propria comunità o di volontariato, un tempo tre volte superiore rispetto a quello degli uomini, con un conseguente carico mentale tutto femminile.

E nonostante sia stato calcolato che il lavoro di cura non retribuito rappresenti il 9% del PIL mondiale, ci rendiamo conto della sua esistenza solo quando viene a mancare, perché altrimenti risulta invisibile al pari delle donne che lo svolgono.

La penalizzazione delle donne è però evidente anche quando questo lavoro è retribuito, sottolinea Emma Dowling. Se pensiamo, per esempio, al settore sanitario, sono spesso gli uomini a ricoprire ruoli apicali mentre le donne prevalgono nelle mansioni infermieristiche, rendendo evidenti divari di genere sia legati al salario (gender pay gap) sia ai compiti svolti (gender division of tasks).

C’è poi un’altra considerazione da fare, che si interseca con quella del genere, quando si parla di lavoro di cura retribuito, e che riguarda il fatto che a svolgerlo sono comunque sempre persone appartenenti a classi sociali modeste, spesso immigrate di seconda generazione o che provengono direttamente da altri Paesi, e quindi più disposte, per motivi di necessità, a svolgere lavori spesso precari e in condizioni anche molto stressanti, accettando basse retribuzioni.




E questo ci porta a sottolineare un aspetto chiave del problema, quello legato al valore che si vuole assegnare al lavoro di cura. Perché se da un lato si tratta di un lavoro essenziale e in prospettiva sempre più richiesto, considerato l’invecchiamento generale della popolazione, dall’altro rappresenta un costo che la nostra società vuole tenere il più possibile basso, in questo facilitata dal fatto che è un lavoro considerato poco qualificato e svolto prevalentemente da lavoratrici con uno scarso potere contrattuale.




Si tratta di un paradosso alimentato dal fatto che il lavoro assistenziale non può essere delocalizzato, ma deve essere svolto in presenza di chi ha bisogno di cure: i Paesi più ricchi importano forza lavoro dai Paesi più poveri, permettendosi così non solo di retribuirla meno, ma anche di risparmiare sui costi di formazione di queste persone che in genere studiano nel Paese di provenienza. E quando emigrano per cercare condizioni di vita migliori all’estero, lo fanno lasciando sguarniti i loro stessi familiari delle cure di cui avrebbero bisogno. È un fenomeno che si chiama global care chain, sul quale i nostri policy maker dovrebbero riflettere, sottolinea Dowling.

Così come dovrebbero riflettere sul fatto che quello dell’economia della cura (care economy) è un mercato che vale, secondo uno studio condotto dalla Pivotal Ventures di Melinda French Gates2, 648 miliardi di dollari, i cui costi come abbiamo visto sono però scaricati sulle spalle di chi lo svolge, ossia le donne e le fasce più deboli della popolazione.

Secondo Emma Dowling, l’unica strada che potrebbe condurci a una risoluzione di questa crisi è quella di investire in una ridistribuzione equa dell’attività di cura, in modo che tutti possano usufruirne e che chi lavora in questo settore sia soddisfatto del proprio lavoro e adeguatamente retribuito. Perché dare valore all’attività di assistenza significa fare in modo che tutti possano svolgerla nella propria vita quotidiana, prendendosi cura dei propri familiari senza essere penalizzati, e nello stesso tempo finanziare infrastrutture in grado di offrire assistenza di qualità accessibili a tutti.

Mara Losi

Bibliografia

1. Dowling E. The care crisis. What caused it and how can we end it? London/New York: Verso Books, 2021.

2. Pivotal Ventures. 648 billion reasons why the care economy is serious business. Disponibile su: https://bit.ly/3N3yJIw [ultimo accesso 21 giugno 2022].

Michael Jerrett:
Mappare l’ambiente
per comprendere il rischio malattia

Come è cambiato e come cambia il modo in cui quantifichiamo, misuriamo e valutiamo l’esposizione ambientale, è il punto di partenza di Michael Jerrett (direttore del Dipartimento di scienze della salute ambientale, Università della California) che sottolinea come questo sia un periodo di grande fermento in questo settore, soprattutto grazie ai recenti progressi tecnologici.

Un concetto fondante è quello di “exposoma” che può essere definito come la misura di tutte le esposizioni di un individuo in una vita e di come tali esposizioni si riferiscono alla salute.

Nell’exposoma convergono vari tipi di determinanti. Quelli esterni più generali (educazione, situazione sociale e finanziaria, ecc.), quelli interni (metabolismo, ormoni, morfologia corporea, attività fisica, ecc.), quelli esterni specifici (radiazioni, agenti infettivi, contaminanti chimici e così via). Lo scopo primario con queste premesse dovrebbe essere quello di identificare i fattori di rischio tra i vari determinanti per mezzo di studi epidemiologici.

Il dibattito in questo settore, in particolare sulla definizione di exposoma, è proseguito negli anni. Si va dall’exposoma visto come un processo di scoperta che si basa soprattutto sui biomarker1 fino a concepire l’esterno e l’interno come entrambi ugualmente necessari dal momento che, anche partendo dalla constatazione che tutte le misurazioni (interne ed esterne) sono imprecise, alcune però risultano comunque utili. Quest’ultimo approccio, secondo Jerrett, enfatizza la modalità che privilegia la prevenzione nel campo della salute pubblica.

Sempre nell’ottica della salute pubblica, continua Jerrett, è necessario che ci sia un’attendibile quantificazione delle connessioni tra ambiente esterno e ambiente interno perché l’esposizione è spesso il risultato di una complessa commistione di fattori che possono implicare effetti simili sulla salute (per esempio, nel caso delle classi diverse di pesticidi o in quello dell’esposizione all’inquinamento dell’aria vs inquinamento acustico). Un primo decisivo cambiamento in questo senso è risultato dall’abbandono del cosiddetto “modello Mark Twain” di esposizione (cioè, quando si assume un uomo seduto in veranda, di fronte alla porta di casa, che si limita a respirare senza fare nient’altro per 24 ore al giorno), un modello che ovviamente dipendeva anche dalle possibilità tecnologiche di raccolta dati di un’altra era dell’epidemiologia.

Se si accetta il presupposto che bisogna misurare ogni esposizione di un individuo dal concepimento alla morte, allora una componente critica è rappresentata dalla lifeline dell’esposizione, quello che Torsten Hagerstrand chiama “time geography” (cioè, l’esposizione vista come un viaggio attraverso “campi di rischio” nello spazio e attraverso il tempo, un’idea ripresa poi dal “prisma dello spazio/tempo” di Shaw).

Quello che è importante capire delle time geographies, spiega Jerrett è che si tratta pur sempre di costrutti teorici e non di realtà empirica. Le nuove tecnologie offrono invece la prima possibilità realistica di misurazioni dirette su un grande numero di persone, e quindi l’opportunità di arrivare a “mini-geografie” di exposomi personali, utilizzabili sia negli studi epidemiologici che nella vita di tutti i giorni.

E gli strumenti per raggiungere questo risultato sono rappresenti dai gps, dagli accelerometri, insomma da tutti quei device in grado di monitorare spostamenti, velocità e attività di chi li indossa. E questa visione del mondo in cui i computer sarebbero così ubiquitari da occupare ogni momento delle nostre vite quotidiane (secondo la visione di Mark Weiser dell’Ubicomp World nel 1991) si è di fatto già realizzata, constata Jerrett, con la diffusione degli smartphone nel mondo (se ne contano quasi due miliardi e mezzo) che posseggono tutte le caratteristiche utili a registrare i dati dell’esposizione delle persone in tempo reale.




Esistono due modi di registrare i dati, precisa Jerrett: uno opportunistico, che sfrutta proprio lo smartphone in sé con le sue capacità native (o con alcune attivabili in background), e un altro partecipativo, che richiede invece la presenza di apparecchiature e sensori esterni e la partecipazione appunto dell’utente (per esempio, nel caso dell’inquinamento atmosferico).

Dopo aver descritto uno studio spagnolo sul campo a Barcellona sulle capacità dei cellulari da questo punto di vista e aver descritto alcuni device con sensori costruiti ad hoc, Jerrett si sofferma sull’importanza strategica della cosiddetta “citizen science”: i cittadini sono estremamente sensibili alla loro esposizione ambientale, una predisposizione che garantisce una notevole motivazione a collaborare, trasformandoli in una risorsa inestimabile per la raccolta di dati in partnership con governo e università.

Tra l’altro, come dimostrano alcuni casi scuola, la citizen science è spesso in grado di migliorare considerevolmente la raccolta dei dati rispetto ai soli network governativi. In questo modo aumentano anche la possibilità di avere dati sufficienti per avvertire le persone sui rischi per la salute (per esempio, nel caso dell’inquinamento atmosferico).

Insomma, conclude Jerrett, si tratta di una questione cruciale. Le persone per la prima volta hanno la chiave per proteggere in proprio, con la loro partecipazione, la loro stessa salute, un capovolgimento di prospettiva che rappresenta anche uno spostamento di potere.

Alessio Malta

Bibliografia

1. Rappaport SM, Barupal DK, Wishart D, Vineis P, Scalbert A. The blood exposome and its role in discovering causes of disease. Environ Health Perspect 2014; 122: 769-74.

Nunzia Ciardi:
Regole intelligenti
per governare un universo complesso

“Quanto cresce internet nel mondo? Quanto è cresciuta la rete durante la pandemia?” Questi gli interrogativi con cui Nunzia Ciardi apre il suo intervento durante la quinta riunione annuale di “8words 2022”. Ciardi, che da anni si occupa di sicurezza informatica, già direttrice della Polizia postale e delle comunicazioni, è attualmente vicedirettrice generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, che lavora per la resilienza cyber del Paese.

Oggi, oltre il 120 per cento degli italiani ha in tasca uno smartphone. Nel 2009, solo il 15 per cento. Certi numeri, afferma Ciardi, danno «l’idea di un’accelerazione che ci pone di fronte a una rivoluzione, riduttivo definirla “tecnologica” o “culturale”, questa è stata una vera e propria rivoluzione antropologica che ha cambiato il rapporto con la realtà».

Questo sviluppo ha trasformato in pochissimi anni la società, in termini di digitalizzazione dei processi, di interconnessione tra le persone, di servizi essenziali nel cyberspazio. La digitalizzazione e la transizione digitale sono processi oramai ineludibili per competere socialmente ed economicamente sulla scena internazionale. Ma tutto questo ha un rovescio della medaglia in termini di sicurezza. I reati tradizionali si stanno azzerando, quelli informatici invece «sono aumentati con percentuali impressionanti che se fossero riferite a reati tradizionali ci farebbero tremare le vene dei polsi» avverte. Dal 2019 al 2020 gli attacchi verso infrastrutture che erogano servizi essenziali sono aumentati del 90 per cento. In particolare, parliamo di ransomware, virus che vengono inoculati nel sistema informatico e cifrano tutti i dati presenti all’interno, rendendoli indisponibili. «Le aziende hanno imparato a proteggersi, anche se non sempre in modo appropriato», ma non è sufficiente perché la criminalità non si limita più a criptare i dati, ma li vende a terzi, chiedendo un riscatto in cripto valute o minacciando di pubblicarli, arrecando quindi un danno notevole. La particolarità di questo crimine, infatti, è quella di evolversi al pari della tecnologia, molto rapidamente.

Ma il nodo da sciogliere riguarda la “mancanza di interlocutori” che la Polizia postale e delle comunicazioni, ai tempi in cui Ciardi ne era direttrice, ha riscontrato nelle infrastrutture sanitarie nel tentativo di raggiungerle prospettando il pericolo. Gli ospedali a rischio di attacco, racconta, non avevano «un referente informatico, oppure era in ferie. Non rispondevano o, peggio, chi rispondeva non capiva di cosa stessimo parlando. Eravamo disperati». Per rendere l’idea della gravità di questa mancanza è utile sapere che «i dati sanitari costituiscono un mercato in crescita, è considerato venti volte più prezioso di quello delle carte di credito» spiega. «Ma la sicurezza del dato, che peraltro gode di una protezione particolare all’interno del nostro ordinamento, non può essere una giustificazione per non utilizzarlo, vista l’enorme importanza che ha per lo sviluppo di politiche sanitarie ben calibrate. Ecco perché ci servono regole per governare questo universo complesso. Un universo che ha all’interno non solo la confidenzialità, la riservatezza e la disponibilità del dato ma anche l’integrità e la correttezza, per assicurare che sia rilevato correttamente, che gli algoritmi di intelligenza artificiale vengano addestrati con dati non corrotti». Occorre quindi un bilanciamento delicato, complesso, tra la crescita economica e sociale e il rischio di minacce. «Regole sì, ma regole intelligenti, sia sulla privacy sia sulla sicurezza dei sistemi che ospitano quei dati. Ma le regole da sole non bastano, ne occorre una master: la diffusione capillare di una cultura della sicurezza informatica. L’accelerazione di cui sopra non ci ha dato modo di metabolizzare il cambiamento. Sempre meno ci appartiene quell’essere consapevoli di alcune regole fondamentali che impediscono il tracollo di alcuni sistemi. Tra i tanti compiti dell’Agenzia della cybersicurezza nazionale vi è anche questo: una diffusione capillare della sicurezza anche nel settore sanitario».

Giada Savini