Dalla letteratura

La ricerca su covid-19:
fino a quando sarà accessibile gratuitamente?

All’inizio della pandemia di covid-19, le riviste scientifiche si sono affrettate a rendere gratuita la lettura delle ricerche correlate, almeno temporaneamente. I lavori sulla malattia o sul virus SARS-CoV-2 sarebbero stati gratuiti almeno per la durata dell’epidemia, hanno dichiarato molti editor di riviste in abbonamento in una dichiarazione rilasciata il 31 gennaio 2020, il giorno dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva dichiarato la nuova epidemia di coronavirus una «emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale».

La domanda, oggi, è se e fino a quando la letteratura su covid19 sarà ancora liberamente accessibile. Il processo di normalizzazione della (ex?) pandemia è ormai avviato ed è possibile che il contagio e la diffusione di SARS-CoV-2 diventi uno dei tanti, ordinari problemi discussi sulla letteratura scientifica. Un articolo uscito su Nature1 pone la domanda in modo diretto, segnalando che lo scorso agosto aveva iniziato a girare la notizia che la ricerca relativa al covid stava tornando a essere nascosta dietro i paywall.

Un intervento di Virginia Barbour, nota editor di riviste ad accesso aperto, si era aggiunto alle altre segnalazioni: «Stiamo iniziando ad assistere a editori che spostano i documenti dietro i paywall» accusando direttamente uno dei maggiori player dell’editoria scientifica contemporanea, Elsevier.

Il dibattito nato spontaneamente nel mondo della ricerca sembra però dimostrare che le preoccupazioni non hanno particolare fondamento. Secondo Nature solo il gruppo editoriale del BMJ ha deciso di rendere gratuite le ricerche su covid-19 della maggior parte delle sue riviste per un solo anno dalla data di pubblicazione. A eccezione però degli studi pubblicati sulla rivista principale del gruppo, The BMJ. Secondo l’editore della British Medical Association, nel 2020 quasi la metà di tutta la produzione del BMJ è stata resa gratuita, ma ciò è diventato “insostenibile”. Inoltre, non sempre è facile distinguere gli articoli che trattano covid-19 e quelli che non affrontano l’argomento, perché ormai molta letteratura cita la pandemia senza però essere centrata su di essa.

Elsevier, Springer Nature e Wiley hanno dichiarato a Nature che stanno mantenendo la gratuità di accesso agli studi clinici e di base su covid-19. Allo stesso modo, la US National Library of Medicine di Bethesda (Maryland), che gestisce il repository PubMed Central, ha dichiarato a Nature di non aver ricevuto alcuna richiesta di ritirare le versioni gratuite dei documenti covid-19 inclusi fino a oggi nella banca dati.

In merito alle accuse di Barbour, Elsevier si è scusato sostenendo si sia trattato di un errore tecnico che aveva fatto sì che alcuni articoli non venissero segnalati come accessibili. Peraltro, spiega Nature, Elsevier ha chiuso il suo Coronavirus research hub dopo un anno, ma la chiusura non ha influito sulla disponibilità dei contenuti della ricerca su covid-19. «Abbiamo intenzione di continuare a mantenere aperti gli articoli fino a quando l’emergenza sanitaria sarà in corso», ha dichiarato Elsevier. Un portavoce di Springer Nature ha rilasciato una dichiarazione simile. Wiley, invece, ha comunicato che la letteratura su covid-19 prodotta dai suoi periodici sarà disponibile fino alla fine del 2023.

L’occasione di questo dibattito ha indotto Nature a tornare sul tema dell’opportunità che i risultati della ricerca in generale siano disponibili free dagli utenti di tutto il mondo. Difficile, infatti, distinguere tra emergenze sanitarie e questioni più o meno “ordinarie” sia in ambito clinico sia di sanità pubblica. Come comportarsi, per esempio, con la ricerca sulle relazioni tra clima e salute?




Bibliografia

1. Van Noorden R. COVID research is free to access - but for how long? Nature 2022; 611: 23.

Conflitto di interessi:
quando il whistleblower guadagna sulla sua confessione

Argomento di cui si parla molto – il conflitto di interessi – non sempre ottenendo l’attenzione dei professionisti sanitari. Stavolta, però, citiamo un contributo su un aspetto relativamente poco considerato, che ha suscitato una discreta eco sui media specialistici internazionali.

La rivista Science ha recentemente commentato una serie di articoli sul farmaco per l’Alzheimer denominato “simufilam” che potrebbero nascondere una cattiva condotta scientifica1. A essere “imputate” sono alcune immagini presenti in diversi lavori uno dei quali pubblicato nel 2012 sul Journal of Clinical Investigation2. Questa segnalazione ha suscitato la reazione della rivista presunta colpevole: fatto non scontato, importante e degno di ammirazione3.

L’articolo di Science (ripreso anche dal New York Times) ma soprattutto il commento dell’editor-in-chief del Journal of Clinical Investigation Elizabeth McNally3 hanno toccato un aspetto nuovo e importante: quello della vendita allo scoperto di titoli azionari (short selling stock: vendere sui massimi e comprare sui minimi). Come spiega il Journal, «la vendita allo scoperto consiste nel prendere in prestito azioni di un titolo, venderle a un prezzo elevato, quindi riacquistarle a un prezzo inferiore e intascare la differenza. I venditori allo scoperto traggono profitto dalla svalutazione di un titolo. È legale svalutare le azioni utilizzando dichiarazioni pubbliche e i venditori allo scoperto spesso utilizzano i social media come sede principale per fare dichiarazioni diffamatorie, espresse come opinioni. Questo processo è noto [in lingua inglese] con l’espressione “short and distort”».




La vicenda è riassunta in questo modo. «Nell’agosto 2021, il Journal è stato contattato via e-mail in merito all’articolo del JCI del 2012. L’e-mail asseriva la manipolazione delle immagini, affermando che il mittente era stato incaricato da uno studio legale di indagare su una preoccupazione di cattiva condotta scientifica relativa allo sviluppo di un farmaco destinato al trattamento del morbo di Alzheimer. Nell’estate del 2021, il prezzo delle azioni collegate all’azienda che stava valutando il simufilam è salito alle stelle, attirando l’interesse dei venditori allo scoperto. La società proprietaria di simufilam figura tra i titoli più shortati e, secondo alcune stime, oltre 100 milioni di dollari sono stati ricavati dalla vendita allo scoperto di questo singolo titolo. Secondo un articolo pubblicato sul New Yorker, nel 2021 due medici ricercatori hanno lavorato con un avvocato per chiedere alla Food and drug administration (Fda) di fermare gli studi clinici sul simufilam4. La Fda ha rifiutato di prendere in considerazione la domanda, ma questa è stata sufficiente a far crollare il prezzo delle azioni, facendo guadagnare chi le ha vendute allo scoperto, come riportato dal New Yorker e descritto da Compliance Weekly»5.




Nel suo editoriale, McNally sottolinea l’impegno della rivista da lei diretta per individuare la contraffazione delle immagini a corredo dei contenuti inviati per la pubblicazione: il JCI chiede immagini complete di gel e blot non tagliati come parte del processo di presentazione. Inoltre, a partire dal 2021 il JCI è stata tra le prime riviste a utilizzare un software basato sull’intelligenza artificiale per analizzare tutte le immagini prima di accettare un articolo. «Fondamentalmente – sostiene McNally – le riviste devono fidarsi della veridicità di ciò che viene rappresentato nelle figure. Le riviste non hanno accesso ai dati primari; le riviste hanno immagini che rappresentano i dati. I dati primari degli studi sono conservati presso le istituzioni in cui viene condotta la ricerca. Presto ci saranno più requisiti per depositare i dati primari della ricerca finanziata con fondi pubblici nel pubblico dominio, e questo potrebbe aiutare le riviste a migliorare l’individuazione della cattiva condotta scientifica o anche del semplice errore».

Resta il punto centrale che ha innescato la discussione: cosa deve fare una rivista di fronte a un whistleblower che potrebbe trarre dei vantaggi nel denunciare una frode? Il Journal chiederà agli informatori, proprio come agli autori, ai redattori e ai referee, una dichiarazione sui conflitti di interesse e cercherà anche di verificare autonomamente i potenziali conflitti dei whistleblower.

In definitiva: il nodo dei conflitti di interesse non solo non si scioglie ma diventa sempre più intricato.

Bibliografia

1. Piller C. Blots on a field? Science 2022; 377: 358-63.

2. Talbot K, Wang HY, Kazi H, et al. Demonstrated brain insulin resistance in Alzheimer’s disease patients is associated with IGF-1 resistance, IRS-1 dysregulation, and cognitive decline. J Clin Invest 2012; 122: 1316-38.

3. McNally EM. Conflicting interests: when whistleblowers profit from allegations of scientific misconduct. J Clin Investigation 2022; 132: e166176.

4. Radden Keefe P. The Bounty Hunter. The New Yorker 2022; January 17.

5. Jaeger J. The Cassava Sciences saga: short seller, “gaming” the FDA, and the damaging ripple effect. Compliance Week 2022; March 2.

Perché la peer review è più difficile al giorno d’oggi

«Ho l’impressione che la peer review sia diventata più difficile, anche nel periodo relativamente breve in cui sono stata coinvolta» osserva la ricercatrice Helen Kara nel proprio blog1. Le ragioni sono molteplici e la Honorary Senior Research Fellow della università di Manchester si concentra su tre motivi che ritiene evidentemente i principali: le false informazioni, la negligenza e la complessità.




Sembra che le riviste accademiche vengano regolarmente ingannate dai ricercatori stessi per pubblicare ricerche fasulle. La consultazione di Retraction Watch, un media che tiene traccia degli articoli di riviste ritrattati negli ultimi 12 anni mostra come diversi articoli vengano ritirati perché gli autori hanno commesso errori in buona fede. Ma la banca dati di Retraction Watch – spiega Kara – elenca molte altre ragioni per la ritrattazione, tra cui la falsificazione o la fabbricazione di dati e la manipolazione di immagini o dei risultati di studi (talvolta neanche svolti). I numeri sono impressionanti: oltre 1.500 articoli ritrattati per falsificazione e/o fabbricazione di dati e più di 1.000 per manipolazione di immagini. Beninteso, il database include solo gli articoli in cui la falsificazione, la contraffazione o la manipolazione sono state individuate e segnalate.




Come sottolinea Kara, «il lavoro accademico – e, di fatto, il mondo che ci circonda – sta diventando più complesso. Sempre più ricerche sono transdisciplinari, si spingono oltre i propri confini metodologici, sono condotte da ricercatori che parlano lingue diverse e così via. Il processo di peer review è stato ideato quando si lavorava in discipline tra loro distinte, e in quello scenario i revisori potevano svolgere il proprio lavoro con maggiore sicurezza. Oggi non è più così facile. Temi come la sostenibilità, la crisi climatica e la sicurezza alimentare scavalcano le discipline e i metodi delle diverse discipline. Ciò significa che nessuno è più un esperto, quindi la peer review è di fatto obsoleta. Eppure viene ancora utilizzata».

In sostanza: serve una peer review che preceda la pubblicazione, ma anche una che la segua. L’autrice fa l’esempio del progetto PubPeer, un sito web dove è possibile commentare gli articoli delle riviste pubblicate, se lo si desidera in forma anonima. «Questo permette ai ricercatori che dispongono di informazioni particolari di denunciare senza rischiare di perdere il posto di lavoro. Inoltre, si può usare PubPeer per controllare gli articoli che si intende citare, per assicurarvi che nessuno abbia sollevato dubbi sul lavoro che volete utilizzare.”

Il post di Helen Kara è interessante nella misura in cui si aggiunge alle numerose riflessioni sulla revisione tra pari che continuano a popolare la rete e la letteratura scientifica.

Riferimenti

1. Blog Helen Kara. Disponibile su: https://helenkara.com/ [ultimo accesso 10 novembre 2022].