In questo numero

«Per parlare della malattia [Francis Weld Peabody e Virginia Woolf] si concentrano sulla persona, ambedue ne valorizzano la natura storica e la dimensione sociale» scrive Carlo Saitto (pagina 82). «Il primo però parla della persona per raccontare la malattia, la seconda parla della malattia per raccontare della persona. Sono visioni estremamente vicine ma apparentemente inconciliabili, nello sforzo di parlare della stessa cosa ciascuno crea il proprio vocabolario e la propria gerarchia delle passioni». Peabody e Woolf si interrogano sulla stessa cosa, arrivando però a cercare di comprenderla da punti di vista diversi. La ricerca di “un senso condiviso” da assegnare all’esperienza della malattia è, secondo Saitto, «una parte non rinunciabile del suo statuto fondativo». L’impegno etico nei confronti dei pazienti presuppone la consapevolezza dell’importanza di ridurre la frammentarietà delle risposte che il sistema sanitario solitamente propone al malato e una «attenzione necessaria alle dimensioni affettive e culturali della malattia e della cura». C’è «la necessità di far ricorso alla competenza di molteplici soggetti, professionisti e non, che intervengono in un progetto di cura»: queste parole di Sandro Spinsanti (pagina 79) sembrano sostenere la riflessione di Saitto. È indispensabile un’etica nuova, “tridimensionale” che «richiede dialogo, talvolta negoziazione. Il suo punto di partenza è l’ascolto, piuttosto che la rigida applicazione di principi. Anziché importare dall’esterno l’etica nella pratica clinica, ne favorisce l’esplicitazione da parte dei soggetti coinvolti, in particolare dei clinici. Assomiglia più a un’opera di tessitura, in cui si incontrano ordito e trama, che a una rigorosa operazione intellettuale».

Questo è probabilmente il significato dell’importanza della medicina narrativa strumento per un «incontro clinico e dialogico tra medico e persona malata» come scrive Giuseppe Gristina (pagina 86). «Questa forte domanda di personalizzazione della relazione di cura, cui ancora oggi il medico moderno è impreparato a rispondere, dovrebbe trovare nelle scuole di medicina una risposta formativa centrata oltre che sulla guarigione dell’organo malato anche su quella della cura globale della persona, sostenuta dall’educazione alla comunicazione e all’etica clinica».

Come Woolf – in un dialogo immaginario – capovolgeva il punto di osservazione di Peabody, anche Gristina si chiede se non sia maturo il momento perché una nuova formulazione del Codice deontologico sia capace di «coniugare la sua funzione di guida con la flessibilità necessaria a includere nell’approccio clinico oltre alla biologia anche la biografia della persona malata». Solo in questo modo il codice si trasformerebbe in «uno strumento utile al medico per realizzare con le persone malate, con i suoi colleghi e con gli altri professionisti sanitari un dialogo etico adeguato a una società plurale svolgendo un ruolo attivo, credibile, di intermediazione tra la professione medica e tutti i suoi interlocutori di riferimento».