Dalla letteratura

Bambini vittime della pandemia, anche per l’apprendimento

In che misura i progressi di apprendimento dei bambini in età scolare sono rallentati durante la pandemia covid-19? Un numero crescente di studi affronta questa domanda, ma i risultati variano a seconda del contesto. Autori di Scuola diversa – ma tutti comunque attivi nel sistema universitario di Oxford – hanno condotto una revisione sistematica e una meta-analisi di 42 studi svolti in 15 Paesi per valutare l’entità dei deficit di apprendimento durante la pandemia1. Lo studio è stato presentato alla rivista Nature human behaviour nel giugno 2022 e pubblicato a distanza di oltre sei mesi, nel gennaio 2023.

È stato riscontrato un sostanziale deficit di apprendimento complessivo che persiste nel tempo. I deficit di apprendimento sono particolarmente elevati tra i bambini provenienti da contesti socio-economici bassi. I problemi sono maggiori in matematica rispetto alle materie umanistiche e nei Paesi a medio reddito rispetto a quelli ad alto reddito. Mancano prove sui progressi dell’apprendimento durante la pandemia nei Paesi a basso reddito.




Bibliografia

1. Betthäuser BA, Bach-Mortensen AM, Engzell P. A systematic review and meta-analysis of the evidence on learning during the COVID-19 pandemic. Nat Hum Behav 2023; Jan 30.

Vaccini e incidenti stradali: più di una correlazione

Gli incidenti stradali sono una causa comune di morte improvvisa, lesioni cerebrali, danni alla colonna vertebrale, fratture scheletriche, dolore cronico e altre condizioni invalidanti. Il rischio di incidenti si presenta come complicazione di diverse malattie, tra cui abuso di alcol, apnea notturna e diabete1. Le cause prime della maggior parte degli incidenti sono i comportamenti di chi è al volante: basti pensare all’eccesso di velocità, alla disattenzione, a manovre di guida imprudenti o scorrette, a sorpassi azzardati, al mancato rispetto della segnaletica, della precedenza o altre infrazioni. Comportamenti che potrebbero almeno in parte riflettere la consapevolezza dell’importanza della salute, un’attenzione riguardo la sicurezza, fino al maggiore – o minore senso civico – di chi guida. Questa premessa ha motivato un gruppo di clinici e ricercatori a condurre uno studio basato su un interrogativo originale: l’esitazione vaccinale covid-19 è correlata al rischio di un grave incidente stradale?

Gli autori hanno considerato tutta la popolazione dell’Ontario (una regione del Canada) di età superiore ai 18 anni (e quindi teoricamente in possesso di patente di guida) e gli incidenti stradali gravi durante il mese successivo all’avvio dello studio, sulla base dell’assistenza di emergenza-urgenza in tutta la regione (178 singoli ospedali). Sono stati considerati solo gli incidenti di una certa gravità, in altre parole quelli che hanno portato un paziente al pronto soccorso come conducente, passeggero o pedone.

Cos’hanno trovato? Che chi non aveva ricevuto il vaccino covid aveva maggiori probabilità di essere più giovane, di vivere in campagna e di avere un reddito basso. E fin qui, ci può stare. Inoltre, aveva maggiori probabilità di aver ricevuto in precedenza una diagnosi di abuso di alcol o depressione e minori probabilità di avere avuto una diagnosi di apnea notturna, diabete, cancro o demenza. Tra gli altri risultati abbastanza prevedibili ottenuti anche quello che la vaccinazione è associata a una forte riduzione della successiva polmonite da covid. Meno scontato è sapere che gli incidenti stradali sono continuati senza sosta durante la pandemia, nonostante ci fosse chi pensava che il distanziamento sociale avrebbe portato a un minor numero di vittime del traffico. Ancora: gli incidenti stradali coinvolgono in modo sproporzionato le persone in condizioni di povertà, contrariamente alle affermazioni secondo cui la sicurezza del traffico non è correlata alle disparità di salute.

Ma tornando al principale “interrogativo di ricerca”, quello sulle differenze tra vaccinati e non, i pazienti che non avevano ricevuto il vaccino sono stati responsabili di 1682 incidenti (25% degli incidenti totali), pari a un rischio assoluto di 912 per milione. Invece, chi aveva ricevuto il vaccino è stato responsabile di 5000 incidenti (75% degli incidenti totali), pari a un rischio assoluto di 530 per milione. Una differenza rilevante, che corrisponde a un rischio relativo di 1,72 maggiore nei pazienti che non avevano ricevuto il vaccino.

Donald Redelmeier – ricercatore molto noto che spesso collabora anche con l’economista Daniel Kahneman – ha portato avanti in parallelo anche un’altra ricerca che partiva dalla stessa ipotesi. Quella che chi ha comportamenti oppositivi a proposito di qualcosa – per esempio, non si vaccina – è probabile manifesti ostilità o faccia resistenza anche riguardo altre raccomandazioni in ambiti del tutto distanti. Per cercare di mettere alla prova questa ipotesi sono andati a vedere cosa succede sulla strada a chi non si vaccina contro l’influenza, scoprendo che gli Stati USA con bassi tassi di vaccinazione antinfluenzale tendono ad avere alti tassi di incidenti stradali mortali. C’è una correlazione sostanziale, equivalente a un aumento del 10% dei tassi di vaccinazione associato a una riduzione del 37% dei tassi di incidenti stradali mortali.

Insomma: i comportamenti che fanno male alla salute e i rischi del traffico vanno d’accordo. Una spiegazione potrebbe essere una mentalità di sicurezza che modella diversi comportamenti. Meccanismi alternativi potrebbero essere la fallacia ecologica, le barriere all’accesso, le disuguaglianze sociali o i fattori confondenti condivisi2. Il nostro studio non significa che la vaccinazione prevenga gli incidenti stradali mortali. I risultati suggeriscono invece che i decessi per incidenti stradali possono essere correlati ad altri comportamenti che giustificano l’attenzione a livello di singolo paziente.

I medici di medicina generale che desiderano aiutare i pazienti potrebbero cogliere l’occasione per richiamare l’attenzione dei propri assistiti che non hanno voluto vaccinarsi sull’importanza della guida sicura, sulla necessità di indossare la cintura di sicurezza, rispettare i limiti di velocità e sul non guidare mai in stato di ebbrezza.




Bibliografia

1. Redelmeier DA, Yarnell CJ, Thiruchelvam D, Tibshirani RJ. Physicians’ warnings for unfit drivers and the risk of trauma from road crashes. New Engl J Med 2012; 367: 1228-36.

2. Redelmeier DA, Wang J, Thiruchelvam D. COVID vaccine hesitancy and risk of a traffic crash. Am J Med 2023; 2: 153-162e5.

La ricerca sui farmaci sta cambiando così

Un lungo articolo di Vivek Subbiah uscito su Nature Medicine descrive talvolta anche nel dettaglio le prospettive della ricerca clinica con particolare attenzione a quella finalizzata allo sviluppo di nuove terapie1. È un articolo importante, anche perché mostra quanto siano ormai allineate le aspettative dei ricercatori istituzionali con quelle delle industrie. Sebbene non sia facile sintetizzare i molti argomenti considerati dal ricercatore del Department of Investigational Cancer Therapeutics nella Division of Cancer Medicine del MD Anderson Cancer Center di Houston, ne citeremo alcuni qui di seguito.

«I progressi nelle tecnologie indossabili, nella scienza dei dati e nell’apprendimento automatico hanno iniziato a trasformare la medicina basata sulle evidenze» sostiene Subbiah, «offrendo uno sguardo allettante al futuro della medicina di prossima generazione». Però, nonostante gli straordinari progressi nella scienza di base e nella tecnologia, la traduzione clinica dell’innovazione nelle principali aree della medicina ritarda. «Se da un lato la pandemia ha messo in luce i limiti sistemici intrinseci del panorama degli studi clinici, dall’altro ha stimolato alcuni cambiamenti positivi, tra cui nuovi disegni di studi e il passaggio a un sistema di generazione delle evidenze più intuitivo e incentrato sul paziente. Il panorama dello sviluppo dei farmaci e degli studi clinici continua a essere costoso per tutte le parti interessate, con un tasso di fallimento molto elevato». In particolare, spiega l’autore, il tasso di abbandono per i farmaci in fase di sviluppo iniziale è piuttosto alto, dato che più di due terzi dei composti non arriva al letto del paziente2. La crisi della ricerca clinica dipende da questo, fondamentalmente, e bisogna inventarsi qualcosa per ottenere dei benefici che possano tornare utili per la salute pubblica: «I modelli tradizionali di ricerca clinica dovrebbero lasciare spazio a idee e disegni di sperimentazione all’avanguardia».

Sebbene l’autore dia molto spazio a malattie rare e a patologie oncologiche di origine genetica, uno dei passaggi chiave dell’articolo è in un’osservazione sulle malattie croniche, ambito in cui la ricerca è ostacolata dal fatto che la maggior parte dei dati risiede in silos di dati. «La sottospecializzazione della professione clinica ha portato alla formazione di silos all’interno e tra le specialità; ogni area patologica principale sembra lavorare in modo completamente indipendente. Tuttavia, la migliore assistenza clinica viene fornita in modo multidisciplinare, con tutte le informazioni pertinenti disponibili e accessibili». Serve una diversa gestione del dato, che metta in condizione di disporne tutti gli attori del sistema assistenziale e di ricerca.

Subbiah passa poi a considerare un aspetto super discusso, vale a dire la scarsa rappresentatività dei risultati degli studi clinici che non fotograferebbero la popolazione reale; «spesso, i criteri restrittivi degli studi clinici e le analisi limitate, concepite per rispondere a domande specifiche, possono non applicarsi ai pazienti del mondo reale. Esiste quindi un ampio divario tra il mondo degli studi e il mondo reale, che si è cercato di colmare3. Per fortuna, però, le agenzie regolatorie sono pronte ad accogliere evidenze prodotte con studi di disegno diverso. «È importante distinguere tra real world data (Rwd) – precisa Subbiah – (che si riferisce ai dati generati dalla cura di routine e standard dei pazienti) e real world evidence (Rwe), vale a dire l’evidenza generata dalla Rwd per quanto riguarda l’uso potenziale di un prodotto. La Rwe è generata da disegni o analisi di studi e non si limita agli studi randomizzati; proviene invece da studi pragmatici e da studi osservazionali prospettici e/o retrospettivi».

L’importanza della Rwe deriva soprattutto dai progressi nella genomica delle malattie rare e dalla scoperta di tumori rari causati da oncogeni che hanno portato a terapie mirate specifiche, per le quali la valutazione in studi clinici randomizzati può non essere fattibile o etica e può ritardare l’accesso dei pazienti a terapie promettenti o salvavita. Quale può essere una soluzione? «In questi casi, i bracci di controllo sintetici stanno emergendo come opzioni per generare confronti che possano imitare i gruppi di controllo degli Rct. I bracci di controllo sintetici sono esterni allo studio e la maggior parte deriva da Rwd ottenuti da cartelle cliniche elettroniche, dati amministrativi, registri di storia naturale e dati generati dai pazienti da molte fonti, compresi i dispositivi indossabili4. I bracci di controllo sintetici possono anche essere generati dai dati di precedenti studi clinici (singoli o in pool). Si tratta di un’area emergente e pronta per l’innovazione, dal momento che oggi sono disponibili molti dati da più fonti».

L’articolo si chiude con la sollecitazione a partnership pubblico-privato che permettano di investire anche in aree dimenticate dalla ricerca, studiando soluzioni che incentivino investimenti importanti da parte delle imprese. Infine, Subbiah intravede nei social media uno strumento potente per motivare pazienti e loro familiari a partecipare alla ricerca clinica. «Un maggiore impegno da parte dei pazienti e dei gruppi di difesa dei pazienti può aiutare l’educazione e la sensibilizzazione dei pazienti e può facilitare la ricerca condotta in collaborazione con i pazienti, oltre a consentire l’incorporazione delle prospettive dei pazienti nella progettazione della ricerca clinica, generando in ultima analisi una ricerca guidata dalle esigenze delle persone reali affette dalla malattia in esame. Inoltre, i social media rompono i silos che dividono ricercatori e clinici, creando un enorme potenziale per influenzare tutte le aree della medicina».




Bibliografia

1. Subbiah V. The next generation of evidence-based medicine. Nat Med 2023; 29: 49-58.

2. Wouters OJ, McKee M, Luyten J. Estimated research and development investment needed to bring a new medicine to market, 2009-2018. JAMA 2020; 323: 844-53.

3. Sherman RE, Davies KM, Robb MA, et al. Accelerating development of scientific evidence for medical products within the existing US regulatory framework. Nat Rev Drug Discov 2017; 16: 297-8.

4. Mishra-Kalyani PS, Amiri Kordestani L, Rivera DR, et al. External control arms in oncology: current use and future directions. Ann Oncol 2022; 33: 376-83.

ChatGPT conosce la cardiologia?

È uno degli argomenti del momento: forse non proprio adatto per una discussione al bar, ma evidentemente appassionante per i ricercatori e per la cosiddetta “medicina accademica”. Almeno a giudicare dalla quantità di articoli usciti nelle ultime settimane. Sul JAMA gli hanno dedicato addirittura un editoriale a firma di alcuni degli editor di maggiore prestigio, sostanzialmente per mettere in guardia gli autori: come a dire “se lo usate, vi becchiamo e peggio per voi”1.

Parliamo di ChatGPT un “open source, natural language processing tool” di intelligenza artificiale che tra le molte applicazioni che promette potrebbe annoverare anche quella di saper scrivere articoli scientifici. Come leggiamo in un commento uscito su Nature2, «ricercatori e non solo hanno già utilizzato ChatGPT e altri modelli linguistici di grandi dimensioni per scrivere articoli e relazioni a convegni, sintetizzare la letteratura, redigere e migliorare i documenti, nonché identificare le lacune della ricerca e scrivere codice informatico, comprese le analisi statistiche. Presto questa tecnologia si evolverà al punto da poter progettare sperimentazioni, scrivere e completare manoscritti, condurre peer review e supportare le decisioni editoriali di accettazione o rifiuto dei manoscritti. L’intelligenza artificiale – concludono – probabilmente rivoluzionerà le pratiche della ricerca e i percorsi della pubblicazione scientifica, creando sia opportunità che preoccupazioni».

Ci siamo: opportunità e preoccupazioni.

Alcuni autori della Cleveland Clinic e della Stanford University hanno pensato fosse arrivata l’ora di mettere alla prova ChatGPT su un compito diverso: quello di informare cittadini e pazienti3. Per farlo, hanno creato 25 domande centrate sui concetti fondamentali della prevenzione cardiovascolare tra cui i fattori di rischio, i risultati dei test diagnostici e le informazioni sui farmaci, basandosi sui contenuti delle linee guida in tema di prevenzione e sulla propria esperienza clinica. Invece di rivolgersi a un collega notoriamente esperto, questi sono stati rivolti a ChatGPT registrando le risposte e dandole in valutazione a gruppi di tre ad altrettanti medici esperti di cardiologia preventiva che hanno classificato ogni serie di risposte come “appropriate” o “inappropriate” in base al loro giudizio clinico e al contenuto della risposta o come “inaffidabili” se le 3 risposte erano incoerenti tra loro. L’insieme di risposte è stato classificato come inappropriato se una qualsiasi delle tre risposte conteneva informazioni giudicate negativamente.

Alla fine, più preoccupazioni che opportunità intraviste.

Nella sezione Discussione dell’articolo gli autori prendono a esempio la risposta alle domande sull’esercizio fisico che raccomandavano sia l’attività cardiovascolare sia il… sollevamento pesi, attività non esattamente ideale per alcuni pazienti. Ancora, l’incompletezza delle risposte sull’interpretazione di livelli di colesterolo LDL di 200 mg/dL che non accennavano all’ipercolesterolemia familiare e mancavano di considerazioni genetiche. Infine, sembra anche che ChatGPT non abbia ricevuto visite da informatori farmaceutici: per lui, inclisiran non è ancora disponibile in commercio.

Trarre conclusioni su una materia come questa sarebbe ingenuo. È sicuro che nel tempo di scrittura di questa nota e ancor più della sua pubblicazione, ChatGPT non solo avrà conosciuto disponibilità, indicazioni e costo di inclisiran ma il sistema di machine learning che lo istruisce avrà anche provveduto ad affinare il resto delle sue conoscenze. Più divertente chiedersi se le skill circa le quali la comunità scientifica sta mettendo alla prova l’intelligenza artificiale non siano quelli più indigeste ai medici: scrivere articoli, fare la peer review, informare i pazienti. Incombenze magari noiose, ma davvero importanti.




Bibliografia

1. Flanagin A, Bibbins-Domingo K, Berkwits M, Christiansen SL. Nonhuman “authors” and implications for the integrity of scientific publication and medical knowledge. JAMA 2023; Jan 31.

2. van Dis EAM, Bollen J, Zuidema W, van Rooij R, Bockting CL. ChatGPT: five priorities for research. Nature 2023; 614; 224-6.

3. Sarraju A, Bruemmer D, Van Iterson E, Cho L, Rodriguez F, Laffin L. Appropriateness of cardiovascular disease prevention recommendations obtained from a popular online chat-based artificial intelligence model. JAMA 2023; Feb 03.

Le misure di barriera nel contrasto delle patologie respiratorie virali: una revisione sistematica

Non possiamo essere sicuri che indossare mascherine chirurgiche o del tipo N95/FfP2 contribuisca a rallentare la diffusione dei virus respiratori. L’attuazione di programmi rigorosi di igiene delle mani può invece contribuire a rallentare la diffusione dei virus respiratori. In estrema sintesi, queste sono le conclusioni di una revisione sistematica pubblicata il 30 gennaio 2023 nel Cochrane Database of Systematic Reviews1. Si tratta del quinto aggiornamento di una revisione pubblicata per la prima volta nel 2006. È un documento importante sia nel merito dei contenuti, sia per il suo valore metodologico.

L’obiettivo degli autori era verificare se le cosiddette “misure di barriera” possono arrestare o rallentare la diffusione dei virus respiratori. Le prove di efficacia sono state cercate in studi randomizzati controllati e sono stati ritenuti rilevanti 78 trial svolti in Paesi a basso, medio e alto reddito in tutto il mondo: in ospedali, scuole, case, uffici, centri di assistenza all’infanzia e nella comunità durante periodi di influenza non epidemica, la pandemia globale di influenza H1N1 del 2009, le stagioni influenzali epidemiche fino al 2016 e durante la pandemia covid-19. Cinque studi erano ancora in corso e non pubblicati al momento della conclusione del lavoro; due di questi valutavano l’efficacia delle mascherine in covid-19. Cinque degli studi selezionati sono stati finanziati congiuntamente da governi e aziende farmaceutiche, mentre nove studi sono stati finanziati solo da aziende farmaceutiche.

Riguardo le mascherine di tipo chirurgico, dieci studi sono stati condotti a livello di comunità e due su operatori sanitari. Indossare una maschera potrebbe fare poca o nessuna differenza nel numero di persone colpite da sindrome simil-influenzale/covid (9 studi; 276.917 persone complessivamente arruolate) e probabilmente fa poca o nessuna differenza nel numero di persone colpite da influenza/covid confermata da test di laboratorio (6 studi; 13.919 persone).

Circa le protezioni N95/FfP2, sono stati condotti quattro studi su operatori sanitari e un piccolo studio nella comunità. Rispetto all’uso di mascherine mediche o chirurgiche, l’uso di respiratori N95/FfP2 fa poca o nessuna differenza nel numero di persone che hanno contratto influenza confermata (5 studi; 8407 persone). Lo stesso si può dire riguardo il restare contagiati da una sindrome simil-influenzale (5 studi; 8407 persone) o da una patologia respiratoria (3 studi; 7799 persone).

Seguire un programma di igiene delle mani può ridurre il numero di persone che contraggono una malattia respiratoria o simil-influenzale, o che si ammalano di influenza confermata, rispetto ovviamente alle persone che non seguono un programma di questo tipo (19 studi; 71.210 persone). Resta però qualche dubbio, dal momento che l’effetto di riduzione non è stato confermato in modo statisticamente significativo quando sindromi simil influenzali non confermate e confermate in laboratorio sono state analizzate separatamente. Nel complesso, l’igiene delle mani è molto probabile sia utile per ridurre la diffusione della Sars-CoV-2, analogamente ad altri coronavirus beta che sono molto sensibili alle concentrazioni di alcol comunemente presenti nella maggior parte dei preparati usati allo scopo. Questo anche perché una scarsa igiene delle mani (nonostante l’uso di tutti i dispositivi di protezione individuale) è stata associata in modo indipendente a un aumento del rischio di trasmissione della Sars-CoV-2 tra gli operatori sanitari in uno studio retrospettivo di coorte condotto a Wuhan.

Qualche parola sugli effetti indesiderati: praticamente assenti nell’uso delle protezioni facciali (menzionato occasionalmente il disagio nell’utilizzarle) e qualche irritazione nel lavaggio frequente delle mani. In generale, bassa aderenza sia nel rispetto del corretto uso delle mascherine (soprattutto nei bambini), sia nell’igiene delle mani, il che potrebbe aver influenzato i risultati degli studi. A proposito dell’igiene delle mani, in alcuni studi i partecipanti hanno eseguito tra i 5 e i 10 lavaggi al giorno, ma l’aderenza potrebbe essere diminuita nel tempo a causa della diminuzione della motivazione o degli effetti avversi, trascurabili ma potenzialmente fastidiosi.

Dalle descrizioni riportate nella revisione emerge una grande disomogeneità nel disegno, nei metodi (per esempio, alcuni studi hanno combinato l’intervento con attività educazionali e non è semplice capire se queste attività integrate possano essere svolte su larga scala), nei materiali, nei setting, negli outcome e nelle popolazioni studiate (questo può suggerire l’esistenza di differenze nell’effetto dei diversi interventi).

Oltre alla scarsa aderenza prima citata, quali possono essere i motivi della scarsa o nulla efficacia dimostrata delle mascherine nell’interrompere la diffusione della malattia simil-influenzale (ILI) o dell’influenza/covid-19?

Secondo gli autori, le cause potrebbero essere nei disegni di studio inadeguati di gran parte dei trial esaminati; nel fatto che nel periodo di svolgimento di diversi studi si riscontrava una bassa circolazione virale; nella cattiva qualità delle maschere utilizzate; nella contaminazione della mascherina con le mani; nella mancanza di protezione degli occhi esposti alle goccioline respiratorie (che consente una via di ingresso dei virus respiratori nel naso attraverso il dotto lacrimale); nella saturazione delle maschere con la saliva dovuta all’uso prolungato. Infine, un aspetto più volte discusso durante la fase iniziale della pandemia di covid-19: il senso di sicurezza eccessivo che può essere indotto dall’indossare una protezione può portare a comportamenti imprudenti. L’impressione è che le misure di salute pubblica e gli interventi fisici possono essere efficaci per interrompere la diffusione delle infezioni virali respiratorie quando fanno parte di un programma strutturato e coordinato che comprende istruzione ed educazione, e quando sono accompagnati e sostenuti da un’elevata aderenza.

«È evidente la necessità di condurre studi pragmatici di grandi dimensioni per valutare le migliori combinazioni tra interventi e strategie diverse nella comunità e in ambienti sanitari riguardo differenti virus respiratori e in diversi contesti socioculturali» spiegano gli autori. «Gli studi controllati randomizzati (Rct) con un disegno pragmatico simile allo studio Luby2 o allo studio Bundgaard3 dovrebbero essere condotti ogni volta che è possibile. Analogamente a quanto è stato osservato per gli interventi farmaceutici, dove molteplici Rct sono stati completati rapidamente e con successo durante la pandemia covid-19, dimostrando che possono essere realizzati, si dovrebbe sottolinearne l’importanza e dare finanziamenti diretti per condurre Rct ben disegnati per studiare l’efficacia di molti degli interventi di barriera in diversi contesti, in particolare in quelli più a rischio, e in popolazioni molto specifiche e ben definite, monitorando l’aderenza agli interventi».

Non si può non restare interdetti approfondendo il contenuto di questa revisione sistematica, alla luce delle scelte di politica sanitaria che, nei momenti più difficili della pandemia, hanno deciso di rendere obbligatorio l’uso delle mascherine senza evidentemente poter contare su prove robuste della loro efficacia. Peraltro, sta crescendo la preoccupazione sui danni ambientali conseguenti lo smaltimento delle mascherine4,5. Potrebbero essere necessari sia studi ecologici ad ampio raggio, che aggiustino i fattori di confondimento, sia Rct di alta qualità per determinare se vi sia un contributo reale e indipendente derivante dall’uso delle mascherine come intervento fisico e come possano essere impiegate al meglio per ottimizzare il loro contributo. Inoltre – sottolineano gli autori – qualsiasi studio sull’intervento di protezione facciale dovrebbe concentrarsi sulla misurazione non solo dei benefici, ma anche dell’aderenza e dell’impatto della mascherina sul complessivo atteggiamento di maggiore o minore prudenza.

Un’ultima considerazione sulla determinazione di una “precisa distanza fisica” da rispettare in caso di pandemia. Come ha detto Tom Jefferson in un’intervista a Marianne Demasi6 i “due metri” di sicurezza sono stati raccomandati da diversi governi e istituzioni in assenza di prove che potessero giustificare questa come qualsiasi altra distanza. «Dato che questi e altri interventi fisici [come restrizione di viaggi o controlli aeroportuali, NdR] sono alcune delle principali strategie applicate a livello globale di fronte alla pandemia di covid-19, futuri studi di alta qualità dovrebbero essere una priorità globale da condurre nel contesto di questa pandemia, così come in future epidemie con altri virus respiratori di minore virulenza».




Bibliografia

1. Jefferson T, Dooley L, Ferroni E, et al. Physical interventions to interrupt or reduce the spread of respiratory viruses. Cochrane Database Syst Rev 2023; 1: CD006207.

2. Luby SP, Agboatwalla M, Feikin DR, et al. Effect of handwashing on child health: a randomised controlled trial. Lancet 2005; 366: 225-33.

3. Bundgaard H, Bundgaard JS, Raaschou-Pedersen DE, et al. Effectiveness of adding a mask recommendation to other public health measures to prevent SARS-CoV-2 infection in Danish mask wearers: a randomized controlled trial. Ann Intern Med 2021; 174: 335-43.

4. Shen M, Zeng Z, Song B, et al. Neglected microplastics pollution in global COVID-19: disposable surgical masks. Sci Total Environ 2021; 790: 148130.

5. Selvaranjan K, Navaratnam S, Rajeev P, Ravintherakumaran N. Environmental challenges induced by extensive use of face masks during COVID-19: a review and potential solutions. Environmental Challenges 2021; 3: 100039.

6. Demasi M. Lead author of new Cochrane review speaks out. 2023; 5 febbraio. Disponibile su: https://bit.ly/3x77jvS [ultimo accesso 8 febbraio 2023].