La democrazia ai tempi del coronavirus




Il governo dei dati sanitari è al centro dell’attenzione dei ricercatori, dei decisori sanitari e – più o meno consapevolmente – di moltissimi cittadini. Anche chi non ha letto il libro cult sulla materia – Il capitalismo della sorveglianza, di Shoshana Zuboff, inserito da Barak Obama nella propria lista dei migliori libri letti nel 2019 – confessa agli amici di rifiutarsi di richiedere lo Spid, di dare al farmacista la tessera del codice fiscale quando acquista un farmaco da banco o, comunque, di sentirsi controllato dai Faamg: Facebook Amazon Apple Microsoft e Google. A un livello certamente meno approssimativo di analisi si pongono le riflessioni di Donatella Di Cesare e Barbara Stiegler – per citare solo due tra le autrici e gli autori di piccoli libri di notevole interesse pubblicati negli ultimi anni. «Viviamo in una libertà costrittiva o in una libera costrizione» scrive Di Cesare, sostenendo che il «virus sovrano» (perché capace di ignorare recinti e confini) ha «smascherato i limiti di una governance politica ridotta ad amministrazione tecnica». La pandemia avrebbe svelato i limiti del sistema capitalistico e di una democrazia tenuta insieme dalla paura dell’altro, che prende sostanza nel timore del contagio e trae sollievo dal distanziamento e dalle misure di barriera per il contenimento dell’epidemia. «La democrazia immunitaria è povera di comunità» e davvero suona strano che le politiche sanitarie – proprio in anni attraversati dalla pandemia – abbiano riscoperto e rivalutato la medicina (o la cura) di prossimità (sempre che questa non si traduca in un’indiscriminata adozione della telemedicina).

Posizioni come quelle di Di Cesare sono state sbrigativamente considerate troppo radicali, quasi apocalittiche mentre avrebbero potuto innescare un dialogo serio su questioni importanti. Dibattito auspicato da Barbara Stiegler che scrive che «il dovere degli ambienti accademici e universitari è di rendere di nuovo possibile la discussione scientifica e di aprirla allo spazio pubblico, l’unica via per ricostruire un legame di fiducia tra la conoscenza e i cittadini, essenziale per la sopravvivenza delle nostre democrazie». Probabilmente ha ragione Stiegler nel sostenere che – nel mezzo dell’emergenza pandemica – «tra persone civili e istruite che discutono nello spazio pubblico, la conversazione politica sulla crisi sanitaria era ormai sospesa». La tesi della docente alla facoltà universitaria di Bordeaux-Montaigne è molto interessante: invece di ragionare sulle cause della catastrofe sociale e sanitaria, si è pensato che la sola risposta possibile fosse tecnologica, da una parte con l’innovazione farmaceutica e dall’altra con l’introduzione indiscriminata del digitale della e-health e del tracciamento individuale.

Veniamo dunque al tema affrontato da David Lyon nel suo libro più recente, Pandemic surveillance, tradotto in italiano con Gli occhi del virus. «Le questioni al centro del dibattito oggi sono quali tipologie di dati vengono raccolte, come vengono analizzate e a quali valutazioni e giudizi sono sottoposte, soprattutto a fronte del fatto che i dati sono estremamente sensibili, dal momento che riguardano la salute e il corpo». La preoccupazione del sociologo della Queen’s University in Canada è che la pandemia abbia avviato nuove «culture della sorveglianza» destinate a caratterizzare i rapporti tra potere e cittadini anche nei prossimi anni, a prescindere dalle crisi sanitarie. Occorre controllare che le risposte dei prodotti tech «siano adatte allo scopo e rispettino altre questioni essenziali oltre alla salute, come la privacy e le libertà civili». In questa cornice un aspetto importante è la relazione tra aziende tecnologiche e agenzie governative responsabili della sanità pubblica. Uno dei rischi concreti è l’inasprimento delle disuguaglianze sociali che questo intreccio tra politica ed economia può provocare, anche perché – spiega efficacemente Lyon – la tecnologia è (nel migliore dei casi) insensibile ai principali determinanti di salute: il reddito, gli spazi di vita, l’etnia, il livello culturale degli individui. Abbiamo visto come la crisi pandemica sia solo in parte un’emergenza sanitaria e qualsiasi misura di contenimento o di contrasto – anche in un’ottica di “sorveglianza” – dovrebbe essere mirata alla promozione della prosperità umana, al bene collettivo e certamente non al profitto dei grandi (o piccoli) player dell’economia del pianeta. Lyon chiede una sorveglianza per gli altri, non una sorveglianza degli altri. Convinto che esista un’altra opzione possibile: lavorare per la tecnologia e per le libertà civili prese insieme.