Dalla letteratura

Autori di libri di psicofarmacologia con conflitti di interesse

Leggiamo sul Community Mental Health Journal che due terzi dei libri di testo di psicofarmacologia hanno autori e/o curatori che ricevono denaro dalle aziende farmaceutiche. Senza che questi rapporti siano esplicitati dal momento che, a differenza della maggior parte degli articoli pubblicati su riviste scientifiche, la pubblicazione di libri non richiede una disclosure dei contributi ricevuti da chi li ha scritti.

Lo studio è stato condotto da Lisa Cosgrove e Farahdeba Herrawi della University of Massachusetts a Boston e da Allen F. Shaughnessy della Tufts University School of Medicine. «Due terzi dei libri di testo avevano almeno un curatore o un autore che aveva ricevuto pagamenti personali da una o più aziende farmaceutiche, per un totale di 11.021.409 dollari statunitensi pagati a 11 dei 21 curatori/autori in un periodo di sette anni» spiegano. «Gran parte di questo denaro è stato versato a un singolo autore, ma il 24% degli autori ha ricevuto oltre 75.000 dollari statunitensi ciascuno”. La conclusione è che, proprio come le riviste mediche, anche i libri di testo di medicina dovrebbero essere trasparenti sui pagamenti effettuati ai loro autori e curatori»1.

Una ricerca simile è stata condotta anche da Peter Gøtzsche, che in passato ha fondato e diretto il Nordic Cochrane Centre di Copenhagen. «Ho identificato i cinque libri di testo di psichiatria più comunemente utilizzati dagli studenti di medicina e psicologia in Danimarca e ho valutato se le informazioni presentate su cause, diagnosi e trattamento fossero adeguate, corrette e basate su prove affidabili» ha scritto nel blog Mad in America2. «I libri di testo erano in lingua danese, avevano un totale di 2969 pagine ed erano stati pubblicati tra il 2016 e il 2021. Tra gli autori c’erano alcuni dei più importanti professori danesi di psichiatria, ma i libri di testo erano ben lontani dall’essere basati sulle evidenze. Spesso contraddicevano le prove più affidabili; diversi gruppi di autori talvolta fornivano messaggi contraddittori anche all’interno dello stesso libro; e il modo in cui utilizzavano i riferimenti era insufficiente. […] In breve, ho scoperto una litania di affermazioni fuorvianti ed errate sulle cause dei disturbi mentali, se sono genetici, se possono essere rilevati dall’imaging cerebrale, se sono causati da uno squilibrio chimico, se le diagnosi psichiatriche sono affidabili e quali sono i benefici e i danni degli psicofarmaci e degli elettroshock. Gran parte di ciò che viene affermato equivale a disonestà scientifica e ai riscontrano anche frodi e gravi manipolazioni dei dati in ricerche spesso citate».




Bibliografia

1. Cosgrove L, Herrawi F, Shaughnessy AF. Conflicts of interest in psychopharmacology textbooks. Community Mental Health J 2021; 8: 1-5.

2. Gøtzsche P. Psychiatry textbooks are filled with errors and propaganda. Mad in America 2022; 2 agosto.

I cittadini sono tagliati fuori dai dilemmi bioetici?

Nel titolo di questa nota c’è la convinzione da cui parte un articolo uscito su Undark, un media che vale la pena di seguire con attenzione1. Quando si presentano dilemmi bioetici impegnativi, ricercatori e bioeticisti ne discutono le potenziali implicazioni in comitati e forum a porte chiuse da cui escono raccomandazioni messe a disposizione della politica. Purtroppo, però, il contributo dei cittadini non è sempre richiesto o lo è in misura limitata. E le opinioni del pubblico – che in fin dei conti è quasi sempre direttamente o indirettamente investito dall’esito di questo confronto – sembrano essere un elemento marginale. «Tutti noi dovremmo avere il diritto non solo di partecipare alle discussioni bioetiche, ma anche di parteciparvi in modo efficace e incisivo» scrive Parmin Sedigh, responsabile della comunicazione di Eye Hope Canada, un’iniziativa promossa da studenti che vuole far crescere la consapevolezza dei cittadini in un particolare ambito oncologico. «Altrimenti, un giorno andremo a dormire, ci sveglieremo la mattina dopo e ci renderemo conto di vivere in un mondo che non abbiamo contribuito a creare».

Indubbiamente, portare i cittadini dentro alla discussione bioetica non è una cosa semplice. Da una parte per avvicinarci a questioni complesse senza esserne travolti servono competenze articolate e obiettivamente non molto diffuse. Dall’altra, però, è abbastanza radicato un pregiudizio che ritiene il pubblico comunque impreparato a contribuire in modo significativo al discorso scientifico. «Anche se fosse vero – scrive Sedigh – non sarebbe un motivo sufficiente per escludere le persone interessate da tali decisioni. Le istituzioni devono impegnarsi per informare il pubblico e permettergli di esprimere la propria opinione».

Le iniziative citate nell’articolo tra quelle che promuovono il coinvolgimento dei cittadini, come i forum pubblici di bioetica della Harvard Medical School, sono molto interessanti. «Offrire questi spazi è un primo passo importante, in quanto aggiunge di fatto un posto a tavola». Harvard non è l’unico contesto in cui si sperimentano soluzioni più inclusive: per esempio, il Citizens’ reference panel on health technologies dell’Ontario, in Canada, ha avuto un piccolo ma fondamentale impatto sul processo decisionale governativo in esito alla valutazione di cinque tecnologie sanitarie. «La tecnologia su cui il panel ha avuto un effetto più profondo è stata quella dei metodi di screening per i tumori del colon-retto e i polipi. Sebbene la diffusione dello screening abbia molti vantaggi, i cittadini hanno espresso alcune preoccupazioni sulla perdita di autonomia del paziente quando lo screening viene eseguito automaticamente senza ascoltare il suo parere».

Un altro esempio viene dal Buckinghamshire, in Inghilterra, dove una giuria di cittadini ha espresso le proprie opinioni su come affrontare il mal di schiena, uno dei principali problemi di salute per i cittadini della contea. Le giurie di cittadini sono state sperimentate anche in Italia per iniziativa del progetto Partecipa Salute che ha promosso diversi momenti di confronto per discutere questioni sanitarie che implicano scelte rilevanti per i pazienti e produrre in esito a questo lavoro un documento di raccomandazioni.

Cosa fa sì che certi sforzi di deliberazione pubblica abbiano successo e altri no? Alla domanda finale, l’autrice risponde che i gruppi e le giurie di cittadini collegati a un’organizzazione governativa tendono ad avere un maggiore impatto politico, soprattutto nel breve periodo.

Bibliografia

1. Sedigh P. In bioethics, the public deserves more than a seat at the table. Undark 2023; 5 gennaio.

La ricerca mainstream ha più spazio di quella disruptive

Le conoscenze che via via consolidiamo permettono ai ricercatori, secondo le parole di Newton, di “stare sulle spalle dei giganti”? In altre parole, il sapere sta facendo passi avanti? Alcuni studi pubblicati di recente sono arrivati a conclusioni che fanno dubitare che questo stia accadendo.

Un articolo uscito su Nature ha analizzato i contenuti riguardanti 45 milioni di articoli e 3,9 milioni di brevetti provenienti da sei set di dati, ricorrendo a una nuova metrica quantitativa – l’indice CD – che caratterizza il modo in cui gli articoli e i brevetti modificano le reti di citazioni nella scienza e nella tecnologia1. «Abbiamo scoperto che i documenti e i brevetti hanno sempre meno probabilità di rappresentare una rottura con il passato orientando la scienza e la tecnologia in nuove direzioni. È una constatazione valida in tutti i campi ed è un’evidenza coerente anche utilizzando diverse metriche citazionali e testuali» spiegano gli autori.




Non sembra che la riduzione della potenzialità di cambiamento osservata sia dovuta a una trasformazione dei modi della comunicazione scientifica o della qualità di quanto viene pubblicato.

L’articolo riprende osservazioni che sono già state oggetto di riflessione da parte di altri gruppi di ricerca. Un articolo uscito nel 2021 sui PNAS aveva analizzato 1,8 miliardi di citazioni da 90 milioni di articoli su 241 materie, scoprendo già allora che la maggior parte dei lavori non aggiunge nulla di nuovo né invita a procedere verso nuove strade. «Piuttosto, porta a una sorta di calcificazione delle conoscenze» sottolineavano gli autori con amarezza. Chi fa ricerca in campi in cui vengono pubblicati molti articoli ogni anno – aggiungevano – ha difficoltà a essere pubblicato, letto e citato, a meno che il suo lavoro non faccia riferimento ad articoli già ampiamente citati». In sostanza gli articoli potenzialmente innovativi devono superare ostacoli molto maggiori per ottenere attenzione. Si tratta, forse, di qualcosa che avevamo solo sospettato: non è male che il dibattito intorno a questi temi diventi più ampio e arrivi anche sulle riviste più diffuse e, per molti aspetti, autorevoli.




Bibliografia

1. Park M, Leahey E, Funk RJ. Papers and patents are becoming less disruptive over time. Nature. 2023; 613: 138-44.

2. Chu JS, Evans JA. Slowed canonical progress in large fields of science. Proc Natl Acad Sci A S A 2021; 118: e2021636118.

Le disabilità sono sottorappresentate nei trial clinici in cardiologia

Le disabilità sono spesso sottorappresentate nei trial clinici in ambito cardiovascolare e, inoltre, sono comunemente utilizzate come criterio di esclusione in fase di reclutamento.

È quanto emerge dai risultati di un’analisi che presentata nel corso del meeting 2023 dell’American College of Cardiology (ACC.23), organizzato in collaborazione con la World Heart Federation (New Orleans, 4-6 marzo).

I ricercatori hanno preso in considerazione 80 trial clinici, selezionando gli ultimi 20 pubblicati in ognuna di quattro aree della ricerca cardiovascolare – fibrillazione atriale, coronaropatie, ipertensione e diabete – e individuando quelli con dati pubblicamente accessibili.

I risultati hanno messo in evidenza come il 38% dei trial clinici elencasse una disabilità tra i criteri di esclusione. Al contrario, solo l’8% degli studi considerati riportava queste condizioni tra le caratteristiche di base dei soggetti reclutati.

Tra le diverse aree della ricerca in ambito cardiovascolare, quella con il numero maggiore di trial clinici che indicavano una disabilità come criterio di esclusione è risultata essere l’ipertensione (55% dei trial), mentre quella in cui questa indicazione si riscontra meno frequentemente è risultata essere il diabete (15% dei trial).




Le disabilità citate più frequentemente tra i criteri di esclusione erano quelle riguardanti problemi cognitivi e psichiatrici, presenti in un trial clinico su tre. Tra il 3% e l’8% degli studi considerati  escludeva invece i soggetti con disabilità riguardanti la mobilità, la vista, l’udito, l’autonomia funzionale e la cura di sé.

L’esclusione delle persone con disabilità non riguarda però soltanto i trial clinici. Un altro studio presentato ad ACC.23, per esempio, ha messo in evidenza come le persone con disabilità a livello intellettivo ricoverate per una sindrome coronarica acuta abbiano una probabilità minore di essere sottoposte ad angiografia coronarica e rivascolarizzazione e un rischio maggiore di morire in ospedale.

Fabio Ambrosino