In questo numero

Ci fidiamo di più di un epidemiologo o di una epidemiologa? È una domanda simile a quella da cui è partito uno studio della Fondazione Bruno Kessler commissionato dal Comitato per le pari opportunità dell’Ordine degli avvocati di Rovereto e che ovviamente riguardava la professione di avvocato. Quali le conclusioni? Mediamente ci fidiamo più di chi si auto definisce avvocato. Al maschile e a prescindere dal genere. Ma la cosa che colpisce è che solo il 15% dei “principi del Foro” donne della città trentina preferisce farsi chiamare avvocata. Questo perché presentarsi come avvocata penalizza una professionista allo stesso modo di avere 15 anni di esperienza in meno. Ne ha parlato la sociolinguista Vera Gheno nell’episodio del 30 aprile 2023 del podcast Amare parole pubblicato da ilpost.it/

«Dal punto di vista linguistico l’italiano prevede l’uso dei femminili professionali quando si ha di fronte una persona che si presenta come appartenente al genere femminile», spiega Gheno, ma il meccanismo sembra incepparsi quando si ha di fronte una donna che lavora in un ambito dove la componente femminile appare ancora come una novità. In altre parole non abbiamo problemi a far riferimento a una cameriera o una fornaia ma ci fermiamo di fronte alla parola architetta o ingegnera. O medica. A questo punto non può non venire il dubbio che più che una questione di terminologia sia qualcosa che c’entra con l’esercizio di una forma di potere: importano le cariche e le gerarchie, non le vocali finali. Sono le parole che scegliamo di usare che contribuiscono a spiegare la realtà o a piegarla alla forma che desideriamo abbia a seconda della nostra convenienza, ha aggiunto Gheno in un’altra puntata del podcast il 7 maggio. Le parole mettono a fuoco o nascondono aspetti della realtà.

Ma cosa c’entra questa lunga premessa con il numero di Recenti progressi in medicina che stai sfogliando? C’entra perché le ricercatrici e i ricercatori che lo hanno interamente curato hanno sollecitato la rivista ad adottare una terminologia più inclusiva. È una richiesta opportuna a cui, purtroppo, non abbiamo potuto dar seguito immediatamente. Infatti, non solo le riviste scientifiche non sembrano essersi mai poste il problema, ma anche le associazioni come la World association of medical editors o la European association of science editors (Ease) non hanno ancora prodotto dei documenti di indirizzo o delle linee guida per evitare per quanto possibile l’uso di un linguaggio non inclusivo in termini di genere, a partire dal ricorso al cosiddetto “maschile neutro o inclusivo” che in realtà non è né neutro né inclusivo. In tempi brevi, Recenti progressi in medicina porterà la questione all’attenzione della Ease. Vale la pena segnalare però che da tempo la rivista sostiene i principi della Coalition for diversity and inclusion in scholarly publishing e l’utilizzo delle linee guida ­Sager che forniscono a ricercatori e autori uno strumento per standardizzare i riferimenti riguardanti sesso e genere nelle pubblicazioni scientifiche. Nelle norme per gli autori sul sito della rivista è possibile trovare maggiori informazioni e i link ai relativi documenti.

In questo numero gli argomenti affrontati sono diversi e di grande rilievo. Solo per citarne alcuni: la ricerca di un equilibrio tra il diritto alla riservatezza dei dati e il diritto alla salute; la gestione intelligente di alti volumi di dati raccolti potenzialmente in tempo reale; le interazioni tra ricerca epidemiologica, farmaci e ambiente in relazione alla salute; la partecipazione della popolazione alla ricerca; i determinanti ambientali della salute mentale. Sembra evidente che – nonostante l’inquietudine dovuta alla responsabilità di dover raccogliere il testimone da una Scuola epidemiologica competente ed esperta – la “nuova onda” dell’epidemiologia italiana abbia già trovato un proprio spazio. Ed è ora che le sia riconosciuto.