Gestione del paziente con microcitoma a stadio esteso. L’importanza della collaborazione tra oncologia e radioterapia

GABRIELE MINUTI1, ALESSIO STEFANI2, LUCA TRODELLA3, GIANCARLO ANTONINI CAPPELLINI4, FABIANA CECERE1, FRANCESCO DIONISI5, MARIANTONIETTA DI SALVATORE2, SABRINA MARIOTTI6, CIRO MAZZARELLA7, FABRIZIO NELLI8, SIMONA PISEGNA9, SERENA RICCIARDI10, MARCO RUSSANO11, SARA RAMELLA3, EMILIO BRIA2,12, FEDERICO CAPPUZZO1

1Ifo - Oncologia medica 2, Irccs Istituto nazionale tumori Regina Elena, Roma; 2Uoc Oncologia medica, Policlinico universitario Agostino Gemelli, Roma; 3Uoc Radioterapia oncologica, Campus Biomedico, Roma; 4Uoc Oncologia, Ospedale Sandro Pertini, Roma; 5Uoc Radioterapia, Irccs Istituto nazionale tumori Regina Elena, Roma; 6Uosd Oncologia medica, Policlinico Tor Vergata, Università di Roma Tor Vergata; 7Uoc Radioterapia, Policlinico universitario Agostino Gemelli, Roma; 8Uoc Oncologia, AO Belcolle, Viterbo; 9Uoc Oncologia medica, Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma; 10Uoc Pneumologia oncologica, AO San Camillo-Forlanini, Roma; 12Comprehensive Cancer Center, Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli, Irccs Roma.

Pervenuto il 21 febbraio 2023. Accettato il 15 marzo 2023.

Riassunto. Il microcitoma polmonare a piccole cellule (SCLC) rappresenta in ambito oncologico una delle sfide più complesse, un terreno in cui la ricerca avanza molto lentamente, contrariamente alla rapida evolutività della patologia. Da circa due anni il cardine del trattamento della malattia in stadio esteso (ES-SCLC) consiste nella combinazione di chemioterapia a base di platino e immunoterapia, a seguito dell’approvazione di atezolizumab, e in secondo luogo di durvalumab, sulla base di un vantaggio in sopravvivenza globale contenuto, ma consistente, rispetto alla sola chemioterapia. La prognosi infausta dopo il fallimento del trattamento di prima linea spiega il razionale nel cercare di massimizzare la durata e l’efficacia delle terapie sistemiche primarie, con la possibilità di integrare, anche nel setting dello ES-SCLC, la radioterapia. Il 10 novembre 2022 a Roma si è svolto un incontro a cui hanno partecipato 12 specialisti in oncologia e radioterapia di diversi centri oncologici della Regione Lazio riguardante il trattamento integrato dei pazienti con ES-SCLC. L’evento è stato diretto da Federico Cappuzzo, Emilio Bria e Sara Ramella. L’obiettivo dell’incontro è stato quello di condividere la propria esperienza clinica e di fornire una serie di indicazioni pratiche che possano supportare il clinico nella corretta integrazione tra il trattamento chemio-immunoterapico di prima linea e la radioterapia nello ES-SCLC.

Parole chiave. Chemioterapia a base di platino, immunoterapia, microcitoma polmonare, radioterapia.

Management of the patient with extensive stage microcytoma. The importance of collaboration between oncology and radiotherapy.

Summary. Small cell lung cancer (SCLC) represents one of the most complex challenges in the oncological field, with a very slow advancement in research, contrary to the rapid evolutionary of the disease. For nearly two years, the mainstay of treatment for extensive-stage disease (ES-SCLC) has been the combination of platinum-based chemotherapy and immunotherapy, following the approval of atezolizumab and subsequently durvalumab, based on a modest, but significant improvement in overall survival compared to chemotherapy alone. The poor prognosis after the failure of first-line treatment explains the need to maximize the duration and efficacy of up-front systemic therapies, in particular, the emerging role of radiotherapy, also in ES-SCLC. On 10 November 2022, a meeting concerning the integrated treatment of patients with ES-SCLC was held in Rome and was attended by 12 specialists in oncology and radiotherapy from various centers in Lazio, under the direction of Federico Cappuzzo, Emilio Bria and Sara Ramella. The aim of the meeting was to share their clinical experience and to provide a series of practical indications in order to support physicians in the correct integration between first-line chemo-immunotherapy and radiotherapy treatments in ES-SCLC.

Key words. Immunotherapy, platinum-based chemotherapy, radiotherapy, small cell lung cancer.

Introduzione

Nonostante i recenti progressi terapeutici, il carcinoma polmonare a piccole cellule (small-cell lung cancer - SCLC) costituisce ancora oggi un’importante sfida in ambito oncologico, rappresentando spesso una vera urgenza in quanto si tratta di una neoplasia estremamente aggressiva e caratterizzata da una rapida evolutività. Il fumo di sigaretta è l’agente eziologico della quasi totalità dei casi di microcitoma polmonare, tuttavia, è stato recentemente osservato un aumento dei casi di microcitoma in soggetti mai fumatori. Questi pazienti sono caratterizzati da una biologia molecolare peculiare, distinta dal classico SCLC fumo-relato, con una minore frequenza di mutazioni di RB1 e TP53 e una maggiore frequenza di alterazioni di EGFR, CYLD e MET1.

Il trattamento del microcitoma polmonare in stadio esteso (ES-SCLC), per oltre due decenni rappresentato esclusivamente dalla chemioterapia a base di derivati del platino ed etoposide, ha subìto un importante cambiamento negli ultimi due anni con l’approvazione dell’immunoterapia nel setting di prima linea. Atezolizumab e, in seguito, durvalumab – due inibitori del checkpoint immunitario, diretti entrambi contro PD-L1, in aggiunta alla chemioterapia nella fase di induzione e in monoterapia nella fase di mantenimento –, hanno dimostrato un significativo aumento della sopravvivenza globale (OS) in pazienti con ES-SCLC trattati in prima linea rispettivamente negli studi IMpower1332 e CASPIAN3, raggiungendo mediane di OS di circa 12-13 mesi. Benché il vantaggio assoluto in sopravvivenza nella popolazione globale sia di circa 2 mesi, è ben consolidato il fatto che una quota di pazienti, a oggi stimabile attorno al 10-15% per i trattamenti di combinazione, trae un notevole beneficio clinico dall’aggiunta dell’immunoterapia. Questa popolazione viene definita come “long-term survivors” (LTS), ovvero vivi oltre i 18 mesi dall’avvio del trattamento. Gli aggiornamenti degli studi registrativi sopracitati hanno confermato che la quota di LTS è nettamente maggiore tra i pazienti trattati con chemio-immunoterapia: nell’IMpower133, il tasso di OS a 18 mesi è del 34% nel braccio di atezolizumab e del 21% nel braccio di controllo, mentre nel CASPIAN il tasso di OS a tre anni è del 17,6% nel braccio di durvalumab e del 5,8% nel braccio di controllo3.

A oggi nessun bio-marcatore si è dimostrato in grado di prevedere la responsività all’immunoterapia, e l’espressione di PD-L1 o l’attestazione del tumor mutational burden (TMB) sono stati abbandonati come elementi di valutazione o stratificazione. Negli anni sono stati però sviluppati diversi modelli di classificazione molecolare dello SCLC, dei quali il più interessante attualmente si basa sull’espressione differenziale di fattori di trascrizione quali ASCL-1, NEUROD1, POU2F3 e di altri geni legati a pathway infiammatori4. Il sottogruppo di SCLC con espressione positiva di una signature pro-infiammatoria (i cosiddetti SCLC-I, da “inflamed”) sembrerebbe correlato a una maggiore efficacia dell’immunoterapia. Questo concetto era stato ipotizzato da studi di preclinica ed è supportato da analisi retrospettive, dove un maggior numero di pazienti del gruppo di SCLC-I si evidenzia tra i LTS. Tuttavia, sarà necessario convalidare tali risultati mediante studi prospettici prima di poter trarre delle conclusioni definitive circa il reale valore predittivo di questa classificazione basta sulla trascrittomica.

Dopo tre anni di immunoterapia nell’ES-SCLC

Dopo svariati tentativi fallimentari di applicazione dell’immunoterapia nel microcitoma polmonare, come nei pazienti pretrattati o a solo mantenimento dopo chemioterapia a base di platino, lo studio che ha sancito l’ingresso degli immunocheckpoint come terapia di combinazione alla chemioterapia di prima linea è stato l’IMpower133. Questo trial di fase III ha dimostrato la superiorità dell’associazione di atezolizumab (1200 mg, flat dose) + carboplatino (AUC 5 mg/ml/min) + etoposide (100 mg/mq gg1-3) per 4 cicli, seguita da mantenimento con atezolizumab fino a progressione o tossicità inaccettabile, rispetto alla chemioterapia standard nel setting di prima linea. Tale vantaggio, oltre che in sopravvivenza, si esprime anche in tempo libero dalla progressione e in qualità di vita per i pazienti che ricevono chemio-immunoterapia.

L’introduzione dell’immunoterapia, e il conseguente miglioramento prognostico dei pazienti con ES-SCLC, ha rafforzato il bisogno di rispondere a quesiti attualmente aperti, quali la possibilità di trattare pazienti con performance status compromesso (ECOG-PS 2 o superiore), di estendere i cicli di chemio-immunoterapia della fase di induzione della prima linea a un totale di 6 e il ruolo di un eventuale trattamento radioterapico sia sul residuo toracico di malattia sia sull’encefalo a finalità profilattica.

Tenuti in considerazione i limiti della parziale riproducibilità nel “real world” della popolazione da trial clinico e considerando anche i precedenti quesiti, è stato disegnato lo studio MAURIS, uno studio di fase IIIB finalizzato a includere pazienti con ECOG-PS da 0 a 2 (maggiormente rappresentativi della popolazione della pratica clinica quotidiana) con obiettivo primario quello di confermare il profilo di sicurezza e tollerabilità della combinazione di chemio-immunoterapia con atezolizumab. Lo studio ha, inoltre, tentato di superare il limite del trial registrativo di estendere il programma di chemioterapia fino a 6 cicli, rispetto a 4 cicli e la possibilità di includere un trattamento radioterapico di consolidamento sul residuo toracico di malattia. I risultati preliminari dello studio MAURIS, presentati all’ESMO 2022, hanno in primo luogo confermato la sicurezza e l’efficacia della combinazione in oggetto e suggerito un potenziale vantaggio in sopravvivenza nel completare 6 cicli di chemioterapia, seppure con i limiti derivati dalle analisi di sottogruppo.

In conclusione, data la crescente complessità nel trattare pazienti affetti da ES-SCLC, è sicuramente fondamentale un approccio multidisciplinare anche in caso di malattia avanzata, che includa sia gli oncologi sia i radioterapisti oncologi, al fine di massimizzare la strategia terapeutica e il potenziale benificio a lungo termine.

Temi

L’incontro è stato preceduto da una survey per individuare gli argomenti di discussione e gli snodi decisionali più critici e frequenti nella gestione dei pazienti con ES-SCLC. Ogni centro ha contribuito con la presentazione di casi clinici per supportare la discussione e diventare spunto di riflessione per i partecipanti.

Sulla base della survey sono stati scelti e affrontati i seguenti argomenti:

dalla corretta stadiazione alla gestione del paziente;

le opzioni al fallimento terapeutico;

la gestione del paziente anziano con comorbilità e/o con ECOG-PS 2;

radioterapia toracica: ruolo del trattamento di consolidamento;

la radioterapia encefalica nel paziente ES-SCLC.

Gli obiettivi del progetto sono stati quello di arrivare a una condivisione, il più possibile ampia tra i partecipanti al board, sulle problematiche decisionali e sulle modalità di comportamento per la gestione delle tematiche sopracitate e di riportare quanto emerso durante l’evento in un consensus paper di facile consultazione, che possa supportare le scelte terapeutiche anche nei Centri con minor casistica.

Dalla corretta stadiazione alla gestione del paziente

L’approccio terapeutico del microcitoma polmonare si basa ancora oggi sul sistema di stadiazione a due stadi del Veterans’ Administration Lung Study Group (VALG) modificato dalla International Association for the Study of Lung Cancer (IASLC) nel 1989. Tale classificazione deriva tuttavia dal concetto di “campo di irradiazione” definito in base alle metodiche di radioterapia dell’epoca, che prevedevano tecniche bidimensionali antero-posteriori e postero-anteriori. Oggi le tecniche moderne (3D e in particolare IMRT/VMAT) consentono di ottenere una distribuzione di dose altamente conformata sul volume bersaglio, definito su un imaging di ultima generazione, minimizzando quindi gli effetti collaterali sul tessuto sano.

Considerando il miglioramento delle tecniche di radioterapia e la soggettività del concetto di “campo di irradiazione”, le società scientifiche consigliano fortemente l’applicazione, anche nel caso del microcitoma polmonare, del sistema di stadiazione classico TNM.

La 18-FDG-PET si conferma indispensabile per la conferma della diagnosi di malattia in stadio limitato, o nel caso di lesioni dubbie che potrebbero entrare in diagnosi differenziale con eventi non neoplastici concomitanti alla malattia. La PET è superiore all’imaging convenzionale sia nella sensibilità (97-100%) sia nella specificità (78-96%) per l’individuazione della malattia nella maggior parte dei siti metastatici. In particolare, in pratica clinica permette spesso di identificare localizzazioni di malattia a livello dei linfonodi sovra-claveari (figura 1), frequentemente non riconosciute mediante la TC o di evidenziare lesioni ossee misconosciute (figura 2).




Inoltre, tra gli esami basali, ma anche durante il follow-up, oltre alla valutazione dell’NSE, sarebbe raccomandabile l’impiego della risonanza magnetica nucleare encefalica. Tale metodica consente infatti di identificare circa un 10-24% in più di metastasi encefaliche rispetto alla TC5. La definizione dell’impegno encefalico appare particolarmente importante non solo nella definizione del quadro di malattia all’esordio, ma anche per una corretta gestione e integrazione dell’eventuale radioterapia encefalica (profilattica o palliativa) nel programma di trattamento.

Le opzioni al fallimento terapeutico

Le opzioni terapeutiche a fallimento della prima linea sono decisamente limitate e solitamente questi pazienti con microcitoma polmonare avanzato pretrattati sono gravati da scarsa prognosi, rapida evoluzione di malattia e sintomi ingravescenti. L’unica terapia approvata in Europa in seconda linea è il Topotecan. Mentre nei paesi asiatici sono approvati in questo settinig un’antraciclina, chiamata amrubicina, e un’altra campotecina, l’irinotecano. Oltra alla mono-chemioterapia con inibitori delle topoisomerasi di classe 1 (TOP1) sono potenzialmente proponibili anche schemi poli-chemioterapici con ciclofosfamide, adriamicina e vincristina (schema CAV, che a parità di efficacia con il topotecan, è gravato da un più alto profilo di tossicità) o il re-challenge con platino ed etoposide. La possibilità di impiegare in seconda linea il medesimo schema di chemioterapia della prima linea è riservata a quei pazienti con un intervallo libero dal precedente trattamento a base di platino maggiore di 90 giorni, definiti con “ripresa di malattia sensibile”. Tale strategia è stata vagliata in uno studio di fase III in confronto alla terapia standard con topotecan6 dimostrando, a fronte di una migliore sopravvivenza libera da progressione (5,5 vs 2,7 mesi, HR 0,57), un profilo di tollerabilità e una sopravvivenza globale sovrapponibili. Nei pazienti con malattia refrattaria il topotecan, se effettuabile, rimane il trattamento di scelta7, seppure con scarsa efficacia (RR dal 2 al 6%, sopravvivenza mediana dalle 16 alle 20 settimane). La lurbinectedina è un agente antitumorale sintetico di derivazione marina che agisce come inibitore selettivo della trascrizione oncogenica. Lurbinectedina in monoterapia (3,2 mg/m2 ogni 3 settimane) ha ricevuto l’approvazione accelerata dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense sulla base dell’efficacia nei pazienti con SCLC in ricaduta dopo chemioterapia di prima linea a base di platino. Lurbinectedina, in mono-terapia, è a oggi disponibile in Italia a uso terapeutico (richiesta nominale) in pazienti pre-trattati almeno con una linea di trattamento a base di platino.

Tarlatamab8 è una nuova terapia immuno-oncologica (HLE BiTE). Si tratta di un anticorpo monoclonale bi-specifico, progettato per legare da una parte la proteina DLL3 (ligando delta-simile 3) sulle cellule tumorali e dall’altro lato CD3 su cellule T, formando una sinapsi citolitica che induce attivazione/espansione dei linfociti T e conseguente uccisione delle cellule tumorali cellulo-mediata. DLL3 è una proteina solitamente iper-espressa nei tumori neuroendocrini, come il SCLC e raramente su cellule non maligne. Precedenti esperienze con anticorpi coniugati (ADC) con target DLL3 erano risultate scarsamente efficaci e altamente tossiche (rovalpituzumab tesirine). Nello studio di fase I, in pazienti fortemente pretrattati con SCLC (n=106), tarlatamab ha dimostrato un’attività antitumorale incoraggiante e duratura (ORR 23% e DoR 13 mesi) con potenziale impatto sulla sopravvivenza globale (Os mediana oltre i 13 mesi). L’immunoterapico, però, comporta, come evento avverso di specifico interesse, la sindrome da rilascio di citochine (CRS), verificatasi principalmente nel primo ciclo di trattamento, raramente successivamente e generalmente di entità gestibile. Infatti, complessivamente, l’interruzione del farmaco da studio per eventi avversi correlati al trattamento è stata bassa (4%).

Per quanto riguarda l’impiego degli inibitori di PARP nel microcitoma polmonare (olaparib, veliparib, talazoparib), appaiono interessanti sia i dati in seconda linea in associazione a farmaci alchilanti9, al fine di massimizzare il danno sul DNA, sia le proposte nella fase di mantenimento in associazione all’immunoterapia di prima linea (THOR trial, NCT05623319).

La gestione del paziente anziano con comorbilità e/o con ECOG-PS ≥2

Data la diretta correlazione tra fumo di sigaretta e diagnosi di microcitoma polmonare, solitamente in pazienti si presentano con co-morbilità di tipo cardiovascolare, dismetabolico e gravati da broncopneumopatie croniche, stante che l’incidenza massima d’insorgenza avviene sopra i 70 anni (circa il 90%). La presenza di significative co-patologie a carattere internistico e l’età avanzata hanno da sempre rappresentato una problematica clinicamente rilevante nel trattamento sistemico del microcitoma polmonare, anche in epoca pre-immunoterapia e anche quando parliamo di malattia limitata. Tale quadro clinico combinato impone la necessità di valutare nella pratica clinica, in base alle caratteristiche paziente-specifiche (età, patologie concomitanti, riserva funzionale polmonare e d’organo, ECOG-PS) e il carico di malattia, un’eventuale personalizzazione dei trattamenti con l’impiego di profilassi (primaria o secondaria) con fattori di crescita granulocitari o riduzione dei dosaggi in caso di avvenute tossicità. Da una meta-analisi condotta nei vari trial di combinazione in prima linea possiamo dedurre come il beneficio dell’aggiunta dell’immunoterapia alla chemioterapia standard con platino ed etoposide si mantenga significativo e invariato indipendentemente dal genere e dall’età dei pazienti trattati (pazienti < o > di 65 anni)10. Globalmente, tale popolazione con età superiore ai 65 anni, inclusa nei vari trial, ne rappresentava circa la metà. Appare quindi plausibile, data l’assenza di specifiche segnalazioni, proporre la combinazione di chemio-immunoterapia anche in pazienti anziani e con co-morbilità, a patto che il discrimine principale sia la specifica tolleranza del paziente a un trattamento di combinazione chemioterapico a base di platino. Inoltre, l’impiego del carboplatino, già farmaco di riferimento nel trattamento del paziente anziano o con co-morbilità con neoplasie polmonari, appare la scelta più razionale in specifico quando combinato ad altri agenti chemioterapici e/o immunoterapici. Per quanto riguarda i pazienti con significativa compromissione delle condizioni generali (ECOG-PS 2 o superiore), essi rappresentano circa un terzo della popolazione con diagnosi di microcitoma polmonare, prevalentemente con malattia avanzata/metastatica, non candidabili a terapie loco-regionali. Tale popolazione, frequente in pratica clinica, è però assente negli studi clinici registrativi di chemio-immunoterapia, data l’esclusione di pazienti con un ECOG-PS superiore a 1. La compromissione delle condizioni generali può derivare direttamente dal quadro di malattia o dalle co-morbilità/età del paziente o da una combinazione di questi elementi. Data l’alta probabilità di ottenere una risposta (circa il 60%) e la rapidità con cui si instaura il beneficio clinico, la chemioterapia con platino/etoposide solitamente viene proposta anche nei pazienti con condizioni cliniche scadute, in specifico se tale compromissione generale appare sostenuta o condizionata dal burden tumorale. Questo concetto è sottolineato anche dall’aggiornamento del 2021 delle linee guida ESMO sul trattamento del microcitoma polmonare dove viene introdotta la distinzione tra ECOG-PS 2 o superiore dovuto alla malattia oncologica o alle co-morbilità del paziente, proponendo un atteggiamento terapeutico distinto (terapia sistemica versus best supportive care)11. Per quanto riguarda la chemio-immunoterapia e in specifico la combinazione di atezolizumab con carboplatino/etoposide, lo studio MAURIS, più simile alla pratica clinica come disegno e con minore selezione restrittiva dei pazienti, è volto a chiarire il profilo di tollerabilità e l’efficacia in questo sottogruppo, grazie all’inclusione anche di pazienti con ECOG-PS 2. I dati preliminari dello studio, come precedentemente citato, sono stati presentati all’ESMO 202212. Al momento per i pazienti con ECOG-PS 2, come nei pazienti anziani o con comorbilità, il discrimine principale nel proporre una terapia sistemica appare la possibilità del paziente di tollerare la combinazione di chemioterapia con platino/etoposide. Rispetto al potenziale incremento delle tossicità dalla combinazione della chemioterapia con l’immunoterapia, in specifico, se ci si rapporta al dimostrato miglioramento in termini di QoL che comporta l’aggiunta dell’immunoterapia rispetto alla sola chemioterapia, questo non appare una significativa limitazione, se non nei pazienti con controindicazioni maggiori all’impiego di inibitori dei check-point immunitari13.

Radioterapia toracica: ruolo del trattamento di consolidamento

Diversi studi hanno indagato il ruolo della radioterapia di consolidamento toracico nel setting metastatico per rafforzare la risposta a livello mediastinico, dopo il trattamento sistemico14-16.

Tuttavia questi studi sono stati condotti in epoca pre-immunoterapica e gli studi di fase III che hanno confermato il cambiamento di prima linea2,3 non prevedevano il consolidamento toracico.

Consolidamento che è stato indagato per la prima volta nello studio di Jeremic et al.15 in cui i pazienti erano avviati a una prima fase di terapia sistemica con cisplatino/etoposide per tre cicli e, successivamente, randomizzati tra radioterapia di consolidamento mediastinico e ulteriori due cicli chemioterapia con il medesimo schema. La radioterapia quando eseguita prevedeva una dose totale di 54 Gy in 36 frazioni per circa 3 settimane e mezzo di trattamento (150 cGy a frazione per due frazioni al giorno). I pazienti per essere randomizzati dovevano presentare una risposta completa extra-mediastinica documentata con l’imaging dell’epoca, spesso non 3D. L’aggiunta di radioterapia a livello mediastinico ha aumentato la sopravvivenza dei pazienti da 11 a 17 mesi e il dato è risultato statisticamente significativo. La sopravvivenza a 5 anni è risultata più che raddoppiata nel gruppo radio-trattato (9,1% vs 3,7%) (figura 3).

Il secondo studio randomizzato disponibile è il CREST Trial pubblicato nel 201514, disegnato per dimostrare un vantaggio del 10% della sopravvivenza a 1 anno. L’obiettivo primario non è stato raggiunto con una sopravvivenza globale a 1 anno del 33% nel gruppo sottoposto a radioterapia e del 28% nel gruppo di controllo (HR 0,84, 95% CI 0,69-1,01, p=0,066). Tuttavia a 2 anni nel gruppo di pazienti sottoposti a radioterapia di consolidamento la sopravvivenza globale era del 13% e nel gruppo di controllo del 3%, con una differenza statisticamente significativa (p=0,004), inoltre veniva riportata una riduzione di circa il 50% delle recidive intra-toraciche.

Rispetto al lavoro di Jeremic et al.15, dove i pazienti venivano trattati con una dose totale di 54 Gy, nello studio CREST sono stati erogati 30 Gy in dieci frazioni (300 cGy giornalieri). A fronte della diversa dose erogata, la tossicità polmonare di grado ≥3 riportata nello studio di Jeremic et al. è stata del 5% mentre nel CREST Trial non sono state registrate tossicità polmonari di grado ≥3.

Le linee guida ASTRO17 pubblicate nel 2020 raccomandano fortemente e con grado di evidenza alto il trattamento di radioterapia in presenza di residuo intratoracico dopo la sola chemioterapia. Inoltre, consigliano come “Expert Opinion” dopo la chemio-immunoterapia di prima linea un trattamento radioterapico a livello del residuo di malattia mediastinica da eseguire entro le 6-8 settimane con una dose totale di 30 Gy in dieci frazioni (simile allo schema di trattamento del CREST Trial) (tabella 1)14-18.




Come anche suggeriscono le linee guida ASTRO, il timing ottimale di quando inserire il trattamento radioterapico è al termine della fase di chemio-immunoterapia detta di “induzione” e quindi a ridosso del mantenimento con la sola immunoterapia. Infatti, dai dati dell’IMpower133, sappiamo che la mediana di tempo libero da progressione di malattia è di circa 5 mesi, quindi, valutare l’inserimento della radioterapia dopo un periodo troppo lungo potrebbe comportare una perdita di pazienti per avvenuta progressione.

In letteratura troviamo esempi di trattamenti dove si è cercata una escalation di dose (studio RTOG 0937)16, in cui la dose totale erogata a livello intratoracico è pari a 45 Gy in quindici frazioni (300 cGy giornalieri). La tossicità registrata con questo tipo di schedula di trattamento è stata più alta rispetto agli altri lavori citati con una tossicità polmonare di grado ≥3 del 9% (di cui una di grado 5). Sulla base di questi risultati va considerato che, nel momento in cui si voglia eseguire un trattamento con dosi più elevate, per cercare un maggior controllo locale, si dovrebbe preferire il frazionamento convenzionale per cercare di non aumentare la tossicità relata alla radioterapia.

Queste indicazioni e i quesiti ancora aperti assumono una prospettiva nuova oggi che è stata introdotta la possibilità di offrire una associazione di chemioterapia e immunoterapia come trattamento di prima linea ai pazienti affetti da ES-SCLC (tabella 2)19-28.




Sono attualmente in corso studi di intensificazione del trattamento, da un lato esplorando l’impiego di una doppietta di immunoterapia, dall’altro l’aggiunta del trattamento di radioterapia di consolidamento alla mono-immunoterapia.

Il primo caso di intensificazione che abbiamo citato è lo studio SKYSCRAPER-0229 che prevede un’associazione di una doppia immunoterapia con atezolizumab e tiragolumab sia nella fase di concomitanza alla chemioterapia con carboplatino ed etoposide sia nella successiva fase di mantenimento con sola immunoterapia. Altra strategia di intensificazione è quella dell’aggiunta della radioterapia allo schema classico con chemio-immunoterapia: lo studio RAPTOR30 prevede, dopo la fase di chemio-immuno, una randomizzazione a proseguire con solo atezolizumab (braccio standard) oppure l’aggiunta di un trattamento radioterapico di consolidamento toracico o extratoracio.

Negli ultimi anni, ci sono stati diversi lavori che hanno evidenziato la fattibilità di eseguire un trattamento radiante in concomitanza all’immunoterapia. Il primo a valutare la sicurezza della radioterapia a livello toracico in concomitanza con l’immunoterapia nei pazienti con microcitoma a stadio esteso è stato quello di Welsh et al.31. Si trattava di uno studio di fase  I, di dose-escalation di pembrolizumab (dose iniziale 100 mg, dose raccomandata 200 mg) pubblicato nel 2019 che andava a valutare la sicurezza dell’associazione di immunoterapia, con pembrolizumab, e radioterapia di consolidamento mediastinico dopo 2-6 cicli di chemioterapia a base di platino ed etoposide. Nello studio non sono state riportate tossicità relative all’immunoterapia dose dipendenti, né è stata registrata tossicità polmonare severa. Lo studio di Welsh et al., e altri lavori successivi, anche nel setting del NSCLC, ci danno oggi una rassicurazione sul poter proporre ai pazienti un trattamento radioterapico a livello toracico/mediastinico anche in corso di immunoterapia senza dover temere di osservare tossicità inaccettabili nei pazienti.

L’importanza di introdurre il trattamento radioterapico di consolidamento va ricercata nel rischio di progressione intratoracica anche nella malattia estesa trattata con chemio-immunoterapia di prima linea.

Nell’up-date dello studio IMpower13332 pubblicato nel 2021 il tasso di ripresa di malattia toracica in sedi già presenti alla diagnosi dei pazienti trattati nel braccio sperimentale è stato di oltre il 60% (ripresa a livello polmonare: 34% e linfonodale: 30%). Questo dato non differisce dalle riprese del braccio di controllo in cui le due percentuali sono state comunque del 34% e del 32% rispettivamente. Inoltre, le progressioni in siti non interessati alla diagnosi sono risultate pari al 17% nel braccio con immuno-chemioterapia e al 18,5% nel braccio di controllo. Da questi dati emerge chiaro il beneficio di un trattamento radioterapico di consolidamento mediastino sia nel controllare un eventuale residuo di malattia sia nel prevenire una possibile progressione intratoracica.

Punto strategico è rappresentato dalla corretta stadiazione del paziente da sottoporre al trattamento di consolidamento radioterapico. Sappiamo, da diversi lavori, che il numero delle metastasi (maggiore di 3) o la loro localizzazione (pazienti con secondarismi epatici) influenzano direttamente la prognosi e di conseguenza anche la possibilità di beneficiare di un trattamento locale, che tuttavia in una quota importante della popolazione metastatica consente anche la prevenzione di sintomi di compressione mediastinica che impattano sempre negativamente sia sulla qualità di vita sia nella fase di evoluzione della malattia.

Proprio per questo motivo, il ruolo e l’indicazione alla radioterapia di consolidamento toracica, in questi pazienti, dovrebbero sempre essere discussi in sede multidisciplinare, valutando ogni singolo caso in base alle caratteristiche cliniche del soggetto e alla risposta alla terapia sistemica (intra- ed extra-toracica) con l’obiettivo, oltre a un potenziale impatto sull’outcome, di una concreta riduzione delle recidive mediastiniche (figura 3).




La radioterapia encefalica nel paziente ES-SCLC

L’incidenza di metastasi cerebrali nel microcitoma polmonare è estremamente elevata. Circa il 18% dei pazienti presenta localizzazioni di malattie encefaliche alla diagnosi, percentuale che sale all’80% a due anni19.

Molti lavori, negli ultimi anni, hanno evidenziato una riduzione della comparsa di metastasi encefaliche sintomatiche e un aumento della sopravvivenza dopo irradiazione profilattica dell’encefalo (PCI). La meta-analisi di Aupérin et al.33 ha valutato 7 studi per un totale di 987 pazienti (il 15% con ED-SCLC) in cui la PCI veniva confrontata con la sola osservazione. Dall’analisi dei risultati veniva evidenziato un beneficio assoluto a 3 anni in termini di sopravvivenza (5,4% in OS e 8,8% in PFS) con una riduzione dell’incidenza di metastasi del 25,3% per i pazienti sottoposti a PCI33. Una revisione sistematica su 12 studi randomizzati eseguita da Meert et al.21 ha preso in considerazione il ruolo della PCI in oltre 1500 pazienti, metà dei quali in stadio esteso. Il lavoro ha mostrato un beneficio della PCI in termini di incidenza di metastasi (HR 0,48; 95% IC 0,39-0,6) e di sopravvivenza (HR 0,82) in pazienti con risposta maggiore alla chemio-radioterapia. In un’altra meta-analisi di Yin et al.34, sono stati valutati oltre 2100 pazienti provenienti da 7 studi diversi. I pazienti con SCLC in stadio limitato/esteso erano stati randomizzati a ricevere PCI o sola osservazione clinica. Gli obiettivi dello studio erano la sopravvivenza globale e l’incidenza di metastasi cerebrali. Gli autori riportano una riduzione dell’incidenza delle metastasi (HR 0,45, p<0,001) e un prolungamento dell’OS (HR 0,81) in chi è stato trattato con PCI.

Data la non omogeneità dei dati di questi studi, che comprendono pazienti con malattia sia limitata sia estesa, l’impiego della PCI nell’ES-SCLC è ancora controverso. Nonostante questo, tutti i pazienti in risposta, seppur con malattia estesa, dovrebbero essere discussi, valutando pro e contra di un eventuale trattamento con PCI.

Nello studio di Slotman et al.19, i pazienti con ES-SCLC, che avevano ottenuto risposta al trattamento chemioterapico (4-6 cicli), venivano randomizzati a ricevere una radioterapia panencefalica profilattica rispetto alla sola osservazione. Tra i 286 pazienti inclusi, il rischio di sviluppare metastasi a un anno è stato più che dimezzato (14,6% versus 40,4%) con un aumento della sopravvivenza a 1 anno (27,1% versus 13,3%) nel gruppo trattato con PCI rispetto al gruppo di sola osservazione.

Gli studi citati sull’irradiazione panencefalica risentono della mancanza di adeguata stadiazione encefalica.

Uno studio randomizzato su oltre 200 pazienti affetti da ES-SCLC in assenza di metastasi cerebrali dopo RM ci fornisce delle indicazioni per quanto riguarda una popolazione stadiata correttamente. I pazienti in risposta alla chemioterapia con doppietta a base di platino venivano avviati alla sola osservazione o a ricevere irradiazione cranica profilattica (25 Gy in 10 frazioni). I risultati hanno dimostrato una riduzione del rischio di metastasi (69% versus 48%), in assenza però di un beneficio in sopravvivenza.

La sorveglianza, se eseguita con RM encefalica, potrebbe essere un’alternativa nei pazienti non candidabili a trattamento radiante profilattico per comorbilità o in base al bilancio rischio/beneficio paziente specifico, come sottolineato dalla consensus ASTRO/ASCO35. Per i pazienti in stadio esteso che non abbiano risposto alla terapia sistemica iniziale, la PCI non è raccomandata, non comportando alcun vantaggio in termini di OS19. La possibilità di eseguire una sorveglianza non dovrebbe essere presa in considerazione solo per ridurre gli effetti collaterali radio-indotti (per es., deterioramento neurocognitivo), ma in presenza di comorbilità (aneurismi, patologie neurodegenerative, ecc.) già presenti. Esistono, infatti, differenti strategie per poter ridurre gli eventi avversi da PCI, quali un risparmio selettivo dell’ippocampo oppure l’utilizzo di farmaci con funzione neuroprotettiva (come la memantina durante la radioterapia, attualmente ancora non approvata in Italia).

Per quanto riguarda la strategia di risparmio dell’ippocampo nel trattamento PCI attualmente abbiamo due studi clinici di fase III che però danno dei risultati non allineati tra loro (figura 4).




Il primo studio randomizzato pubblicato nel 2021 è di Belderbos et al.36 e prevedeva una randomizzazione dei 168 pazienti arruolati tra il trattamento PCI standard (25 Gy in 10 frazioni da 250 cGy/die) e il trattamento sperimentale che prevedeva la stessa dose ma con un risparmio dell’ippocampo (dose media all’ippocampo sinistro e destro ≤8,5 Gy e un ippocampo D1% ≤10 Gy). Per valutare il declino cognitivo sono stati eseguiti test neuropsicologici al basale e 4, 8, 12, 18 e 24 mesi dopo il completamento del PCI. I pazienti che hanno perso cinque punti o più sui test sono stati rispettivamente del 29% nel braccio PCI e del 28% nel braccio con risparmio dell’ippocampo, non evidenziando una differenza tra le due modalità di trattamento per quanto riguarda il declino cognitivo.

Il secondo studio è di Rodríguez de Dios et al.37 pubblicato nel 2021 in cui 150 pazienti sono stati randomizzati con uno schema simile al lavoro di Belderbos et al.36 (25 Gy in 10 frazioni da 250 cGy/die con una dose massima permessa a l’ippocampo <17 Gy). La percentuale di pazienti con declino cognitivo a 3 mesi era significativamente inferiore nel braccio con risparmio dell’ippocampo (5,8%) rispetto al braccio standard (23,5%). Il trattamento con risparmio dell’ippocampo non ha portato a variazioni della sopravvivenza globale, infatti nessuna differenza tra i bracci è stata osservata (OS mediana di 23,4 mesi e 24,9 mesi, rispettivamente, per il braccio sperimentale e il braccio PCI). Anche per quanto riguarda l’incidenza cumulativa di metastasi a due anni non sono state riscontrate delle variazioni sostanziali (22,8% e 17,7% rispettivamente nel braccio con risparmio dell’ippocampo e nel braccio PCI). I risultati di questo studio suggerirebbero un vantaggio nel ridurre il declino cognitivo con la tecnica del risparmio dell’ippocampo senza però riscontrare alcuna differenza tra i bracci di trattamento per quanto riguarda la recidiva intracranica e OS.

I due studi riportano dati contrastanti sulla riduzione del declino cognitivo, probabilmente anche per la difficoltà di oggettivare un parametro come il declino neurocognitivo con dei test che possono risentire di più variabili e che necessitano di un delta tra i test basali e i test di controllo per essere considerati significativi. Al momento quindi, in mancanza di dati univoci, il suggerimento è di valutare i singoli casi e di discutere con i colleghi radioterapisti oncologi all’interno del meeting multidisciplinare la possibilità di effettuare un trattamento con risparmio dell’ippocampo.

Caso clinico

Durante l’incontro tra gli esperti dei differenti centri sono stati presentati diversi casi clinici per favorire la discussione sulle tematiche scelte in seguito alla survey. Dei 10 casi discussi è stato selezionato un caso che evidenziava maggiormente l’importanza della collaborazione tra oncologo medico e oncologo radioterapista.

Il caso vede protagonista una donna di 78 anni in discrete condizioni generali con diagnosi di ES-SCLC stadiato con PET a fine 2020. Il quadro di malattia (stadio IV) era rappresentato da voluminosa lesione (>7 cm, T4), grossolane adenopatie ilo-mediastiniche (N2), una localizzazione secondaria al polmone controlaterale e un dubbio surrenalico (M1). La RM encefalica risultava negativa per secondarismi, ma con evidenza di aree di leucoencefalopatia cronica, verosimilmente legate all’età della paziente. La paziente veniva avviata a terapia sistemica con carboplatino, etoposide e atezolizumab di cui eseguiva 4 cicli. La rivalutazione con PET/TC al termine della chemio-immunoterapia evidenziava una risposta parziale sia morfologica sia metabolica, con un minimo residuo a livello sia della lesione ilo-mediastinica sia del secondarismo polmonare; la lesione surrenalica rimaneva di dubbia interpretazione. La RM encefalo era invariata rispetto alla diagnosi. Data la mancanza di un percorso delineato per questa tipologia di paziente, ma alla luce dell’ottima risposta evidenziata al termine della terapia sistemica, il caso veniva presentato all’attenzione dei radioterapisti oncologi per valutare la possibilità di un trattamento di consolidamento a livello del residuo di malattia toracica. Dal confronto multidisciplinare emergeva la proposta di procedere a un trattamento di consolidamento toracico, interrompendo l’immunoterapia in corso e successiva PCI. Presentata la proposta terapeutica alla paziente, la stessa, dopo confronto con i familiari, accettava di sottoporsi al trattamento radioterapico di consolidamento ma rifiutava l’irradiazione panencefalica. Effettuava 33 Gy in 15 frazioni (equivalente in EQD2 alfa beta 10 a 30 Gy in 3 frazioni) sulle sedi di malattia positive alla diagnosi con una intensificazione di dose (45 Gy in 15 frazioni) a livello della malattia residua alla PET di rivalutazione. Al termine del trattamento radioterapico la paziente riprendeva l’immunoterapia di mantenimento e dopo 2 mesi, in seguito a comparsa di sintomatologia centrale, eseguiva RM encefalo che evidenziava due lesioni. Effettuava quindi trattamento panencefalico palliativo (30 Gy in 10 sedute con boost simultaneo integrato sulle due lesioni di 40 Gy in 10 frazioni), dovendo interrompere la terapia di mantenimento con atezolizumab.

Il resoconto del caso clinico a questo punto si è concluso lasciando ai partecipanti al meeting la possibilità di proporre quale prosecuzione del trattamento fosse consigliabile. I partecipanti hanno convenuto che al termine del trattamento radioterapico la paziente avrebbe potuto riprendere l’immunoterapia di mantenimento. Il trattamento delle oligoprogressioni dovrà essere ulteriormente investigato all’interno di studi clinici dedicati.

Questo caso clinico è servito quindi a dimostrare come l’integrazione dei trattamenti chemio-immunoterapici e radioterapici (sia intratoracici sia a livello encefalico) possa offrire un effettivo vantaggio rispetto alla sola terapia sistemica. Da considerare che l’assenza di consolidati dati di letteratura ha portato medico oncologo e radioterapista oncologo a un’attenta analisi di vantaggi e svantaggi dell’integrazione delle varie armi terapeutiche. Inoltre, nella gestione di questo caso, la situazione della paziente è stata subito discussa collegialmente una volta considerata l’ottima risposta al termine dell’immuno-chemioterapia. Dopo aver formulato un programma terapeutico condiviso, tale programma è stato proposto alla paziente e ai familiari optando per l’esclusivo trattamento toracico, ma l’aver discusso la radioterapia encefalica ha permesso di accorciare le tempistiche di trattamento al momento della progressione encefalica. Queste considerazioni sottolineano come l’importanza del dialogo tra le due discipline terapeutiche sia fondamentale, soprattutto per garantire adeguate tempistiche di trattamento, data l’aggressività e la rapida evolutività del microcitoma.

Conclusioni

Il trattamento dell’ES-SCLC sta evolvendo e il passo più importante è stato compiuto dall’introduzione dell’immunoterapia al trattamento chemioterapico di prima linea. Il prolungamento del controllo di malattia e delle aspettative globali di vita dall’attuale standard di trattamento chemio-immunoterapico impone nuove sfide quali l’integrazione della radioterapia sul residuo di malattia o la corretta indicazione alla radioterapia encefalica, rendendo, quindi, la gestione di questa patologia, anche nella fase estesa, multidisciplinare con un crescente impegno della figura del radioterapista oncologo. Nella tabella 3 sono riportati alcuni dei principali studi in corso sull’integrazione della radioterapia nei programmi oncologici.




Conflitto di interessi: Gabriele Minuti: collaborazioni con Roche, AstraZeneca, BMS, Novartis; Luca Trodella: compensi per consulenza di advisory board o letture da Janssen-Cilag; Fabiana Cecere: collaborazioni con Takeda, AstraZeneca, Novartis, Roche, Amgen; Mariantonietta Di Salvatore: collaborazioni con Roche; Ciro Mazzarella: collaborazioni con Roche; Simona Pisegna: invited speaker per Lily, Novartis, Roche, AstraZeneca, Daiichi Sankyo; Marco Russano: relatore a eventi congressuali sponsorizzati e consulente per advisory board o progetti editoriali per Roche, BMS, AstraZeneca, Pfizer, Merck, Takeda; Sara Ramella: ha effettuato consulenze scientifiche e ricevuto assegni di ricerca per Roche, Amgen, MSD Italia, AstraZeneca, Genetec, Istituto Gentili; Emilio Bria: è attualmente supportato dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc) come Investigator Grant (IG) No. IG20583. È supportato da Institutional funds dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (UCSC-project D1). Ha ricevuto speakers’ and travels’ fee da MSD, AstraZeneca, Pfizer, Eli-Lilly, BMS, Novartis e Roche. Ha ricevuto compensi per ricerche istituzionali da AstraZeneca e Roche; Federico Cappuzzo: compensi per consulenza di advisory board o letture da Roche, AstraZeneca, BMS, Pfizer, Takeda, Lilly, Bayer, Amgen, Sanofi, PharmaMar, Novocure, Mirati, Galecto, OSE e MSD. Gli altri autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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