Ritratto di Massimo Di Maio:
l’importanza delle decisioni condivise




Lavoro e formazione professionale

Quali persone hanno più influenzato il suo modo di fare il medico o il ricercatore?

Nella mia carriera ho cambiato vari posti di lavoro e ho incontrato tanti colleghi: ognuno mi ha dato qualcosa. Sicuramente, la mia formazione è stata segnata dall’esperienza al Pascale di Napoli con Franco Perrone, con cui ho lavorato molti anni prima di trasferirmi a Torino. Da specializzando, scelsi di frequentare l’Unità Sperimentazioni Cliniche del Pascale su consiglio di una collega più grande che aveva già fatto quell’esperienza: doveva essere la frequenza di un semestre, ma fu solo l’inizio di una lunga collaborazione. Oggi lavoro a Torino ma con Franco continuiamo a collaborare su molte cose, e il fatto che entrerò in carica come presidente dell’Aiom subito dopo di lui è per me un motivo di grande soddisfazione ed emozione.

Come è cambiata la Medicina dai tempi in cui lei scelse questa professione?

O, meglio: qual è il cambiamento (o i cambiamenti) più radicale?

L’Oncologia è molto cambiata in questi anni: quando mi sono specializzato, circa vent’anni fa, la grande maggioranza dei pazienti candidati a terapie sistemiche riceveva una chemioterapia (o terapie ormonali in alcuni tumori), oggi in tante neoplasie abbiamo farmaci dal meccanismo d’azione completamente diverso, come i farmaci a bersaglio molecolare o l’immunoterapia. In questi anni abbiamo assistito a notevoli successi terapeutici: credo che l’aspetto più difficile del nostro lavoro sia comunicare con equilibrio questi successi, perché la società e i singoli pazienti devono essere consapevoli dei progressi, ma al tempo stesso evitando toni trionfalistici, che sarebbero controproducenti e mancherebbero di rispetto alle tante persone che ancora oggi, purtroppo, muoiono per un tumore.

L’avanzamento delle conoscenze e la disponibilità di nuove terapie ha anche cambiato la fase diagnostica: fino a qualche tempo fa, il referto dell’esame istologico era sufficiente per decidere quali terapie proporre, oggi in molti casi bisogna ottenere informazioni aggiuntive sulle caratteristiche biologiche e molecolari della malattia.

E – se dovesse indicarne uno – quale cambiamento del Servizio sanitario e della sua organizzazione ritiene sia stato il più importante?

La data più importante del Servizio sanitario nazionale, a mio avviso, rimane quella della sua istituzione, nel 1978. Il Ssn ha rappresentato una risorsa preziosa, che ha garantito cure di qualità a milioni di pazienti italiani. In questi anni ho visto cambiamenti (in particolare, la “regionalizzazione” dell’organizzazione) che aumentano purtroppo il rischio di disparità di cura, e stiamo assistendo a una progressiva “erosione” delle risorse. Penso di non dire niente di sorprendente: chiunque lavori nel Ssn si trova quotidianamente a fare i conti con crescenti problemi di risorse. Sentir ripetere da più persone “… prima questa cosa funzionava meglio” non è bello, i sistemi dovrebbero andare sempre a migliorare. Al congresso nazionale Aiom del 2023, i giovani oncologi mi hanno chiesto di fare una relazione sui cambiamenti di paradigma in oncologia negli ultimi 50 anni: ho concluso dicendo che se c’è un paradigma che non deve cambiare è quello della centralità, e della solidità, del Ssn.

Qual è la parte del suo lavoro più gratificante? E quella più noiosa?

La parte del lavoro più gratificante come clinico è sicuramente la relazione con i pazienti, e a volte con i loro familiari: sia nei casi che vanno clinicamente bene, sia nei casi più sfortunati e “complessi”, si creano delle relazioni umanamente intense, ed è bellissimo (pur nelle difficoltà e nelle situazioni di stress quotidiane) vedere la gratitudine di chi è stato assistito e di chi ha accompagnato quelle persone nel percorso di malattia. Oserei dire che quando questa gratitudine viene per un caso che purtroppo è andato male è – se possibile – ancora più gratificante, dimostra che chi è dall’altra parte ha compreso che ci si è messo tutto l’impegno. Dal punto di vista universitario e scientifico, la parte più gratificante è la condivisione con i giovani: studenti, specializzandi, giovani colleghi. Ricordo ancora bene quando ero io nella loro posizione, e cerco di comportarmi di conseguenza. Da una parte sono “una spugna” desiderosa di assorbire tutto quello che viene offerto (e questo mi fa sentire una grande responsabilità), dall’altra sono una sorgente di spunti scientifici vivaci e stimolanti. In questi anni, pur aumentando gli impegni istituzionali, cerco sempre di trovare il tempo per loro. I lavori scientifici di cui sono più orgoglioso sono proprio quelli condotti coordinando i più giovani.

La parte più noiosa del lavoro è sicuramente la burocrazia, costantemente in aumento. Oggi un medico deve dedicare una parte percentualmente rilevante del suo tempo ad attività non cliniche ma amministrative. Sono convinto che l’attività quotidiana negli ospedali potrebbe essere organizzata molto meglio, con una migliore divisione delle competenze tra personale clinico e amministrativo e un’ottimizzazione del lavoro di ciascuno, ma questo chiaramente presuppone risorse adeguate.

Lettura, scrittura, aggiornamento

Quale forma di aggiornamento le sembra più utile? Leggere le riviste scientifiche? Andare ai congressi?

Beh, le riviste scientifiche sono una fonte fondamentale di aggiornamento, anzi il problema principale secondo me è che oggi si fa fatica a star dietro a tutte le novità. Andare ai congressi è importante non solo per l’aggiornamento ma anche per il confronto con i colleghi. Forse però oggi si fanno troppi congressi, a mio avviso alcuni troppo “locali” hanno poco senso e rischiano di essere doppioni. Il tempo da dedicare all’aggiornamento per i medici è sempre meno, ahimé…

Accettare consigli da colleghi è utile o rischioso?

Io lo trovo indispensabile. Penso che le decisioni condivise, in particolare su casi clinici più difficili e “non scontati”, siano molto utili a ridurre il “peso” che altrimenti può essere schiacciante se si è costretti a prendere decisioni sempre da soli. Io tendo a consultarmi spesso, sia con i colleghi sul posto di lavoro sia con alcuni che lavorano altrove e che per una patologia o per l’altra rappresentano per me un riferimento. Incoraggio anche i miei collaboratori a fare altrettanto.

Riceve newsletter di riviste generaliste come Lancet o BMJ o di riviste specialistiche?

Sì, sia di riviste generaliste che di riviste specialistiche. Ultimamente mi sto rendendo conto che non sempre riesco a leggere tutte le newsletter o le “table of contents”, ma sono uno strumento utile.

Qual è la sua rivista scientifica preferita?

Direi Lancet. Va detto che alcune grandi riviste (il New England, ma purtroppo anche Lancet, anche se un po’ meno) mi sembrano rispondere a logiche commerciali e non solo puramente scientifiche, e questo è un po’ deludente…

Che tipo di “informazione scientifica preferisce?

Articoli brevi con molti rimandi esterni e ricca bibliografia?

La bibliografia è importante in un articolo, e la sintesi è un dono importante per chi si deve orientare su un argomento. Ovviamente, se l’obiettivo è di approfondire nel dettaglio l’argomento, meglio un articolo più dettagliato, sul quale si possa “studiare”.

Le rassegne narrative hanno ancora una loro utilità?

Su alcuni argomenti direi di sì, ma chi legge dovrebbe sempre essere sicuro che la rassegna che sta leggendo garantisca una qualche “sistematicità” di citazione della letteratura importante.




Se il suo lavoro prevede di prendere decisioni cliniche, le sono utili – e usa – strumenti come Dynamed o UpToDate?

Ne capisco la filosofia, e non mi sorprende che molti colleghi in Italia e all’estero li usino, ma li uso poco, in verità.

Pensa sia corretto considerare le revisioni sistematiche il riferimento più affidabile?

Penso di sì, per il motivo di cui parlavo sopra. Per farsi un’idea affidabile su un argomento bisogna essere sicuri che chi lo sintetizza non “si sia perso” qualche pezzo importante.

Come potrebbe cambiare in meglio la letteratura scientifica?

Beh, negli ultimi anni mi è capitato di lavorare, coinvolgendo molto i giovani, a vari aspetti metodologici che rappresentano altrettanti inviti a migliorare la qualità della letteratura scientifica, ovviamente in ambito oncologico. Per esempio, qualche anno fa abbiamo sottolineato l’importanza di pubblicare gli studi negativi, senza però “forzarne” le conclusioni. Abbiamo ribadito l’importanza di includere la qualità di vita tra gli endpoint degli studi clinici in oncologia, pubblicando tempestivamente i risultati, che sono molto importanti per valutare il valore delle terapie. Nel 2023, abbiamo pubblicato un’analisi molto provocatoria che evidenzia come non sempre il braccio di controllo degli studi randomizzati pubblicati in oncologia sia veramente il miglior trattamento disponibile per quella patologia. Mi auguro che tutti questi studi che abbiamo condotto servano a formare i giovani all’importanza di questi aspetti metodologici quando leggono un lavoro, ma anche che possano servire a migliorare il disegno e la pubblicazione dei prossimi studi clinici…

Le capita ancora di sfogliare l’edizione cartacea di una rivista o consulta la letteratura solo su internet?

Negli ultimi anni mi capita molto di rado di sfogliare riviste cartacee. In linea di massima, consulto i lavori online, anzi a differenza di qualche anno fa tendo a non stamparli, per non sprecare carta. A casa, per scelta, non ho una stampante e devo dire che i momenti in cui rimpiango di non averla sono veramente pochi.

Legge articoli scientifici sullo smartphone?

Qualche volta, diciamo nelle situazioni “di urgenza”, se così si può dire, ma in linea di massima preferisco leggerli sullo schermo del computer.

La medicina basata sulle evidenze è ancora attuale?

Certo. Direi che è fondamentale, ricordando naturalmente che medicina basata sulle evidenze non vuol dire solo applicazione della letteratura, ma anche esperienza clinica e valutazione delle preferenze dei pazienti.

Cosa rende difficile che sia la base della didattica nelle facoltà di medicina?

Secondo me le “dimensioni” che rendono difficile la didattica in ambito medico sono almeno due: la vastità delle conoscenze e la loro rapida evoluzione nel tempo. Detto questo, agli studenti è importante insegnare il metodo, che poi potrà essere applicato specificamente nella disciplina o sull’argomento di interesse.

Chi è un “esperto” in campo medico?

Penso che la definizione di esperto in campo medico non debba misurarsi solo in termini di conoscenza della letteratura ma anche di esperienza clinica sull’argomento. Siamo in un’era di grande aumento delle conoscenze, e negli ultimi tempi, anche nell’ambito di una disciplina specifica come l’oncologia medica, stiamo constatando che non è più possibile essere esperti di tutti i tumori, e bisogna necessariamente dedicarsi a una patologia. Probabilmente non è ragionevole essere al passo con le novità, e soprattutto saperle declinare appropriatamente nella pratica, in tutte le patologie.

Internet e la disponibilità di mille e intelligenti pareri mette in crisi l’utilità degli “esperti”?

No, penso che sia uno strumento prezioso ed utile, ma il confronto con gli esperti rimane essenziale. Io non penso che i computer debbano sostituire l’uomo, ma semplificargli la vita.




Ricordi, passioni e…

Qual è stato il suo primo “esame”, non intendendo con questo gli impegni scolastici?

Nel 2006, essendo ancora precario a Napoli (era un periodo in cui c’era grossa difficoltà a trovare un posto di lavoro a tempo indeterminato, essendoci blocchi delle assunzioni in varie Regioni), vinsi il concorso per dirigente medico di Oncologia a Rossano, in Calabria. Per me era un’esperienza “ansiogena”: posto di lavoro nuovo, colleghi nuovi, realtà molto diversa da quella dove avevo lavorato fino a quel momento, responsabilità nuova. Ricordo qualche notte insonne all’inizio, ma poi è stata un’esperienza molto positiva, non solo sul piano umano ma anche sul piano professionale, perché lavorare in un day hospital “di provincia”, in una Regione considerata particolarmente “difficile” per il servizio sanitario, mi ha consentito di “farmi le ossa” e di acquisire più sicurezza sul lavoro.

Qual è il suo più grande rammarico?

Nel complesso ho avuto tante soddisfazioni lavorative, e mi ritengo una persona fortunata. Un rammarico è quello di vedere oggi tanti giovani poco motivati dall’idea di una carriera in Italia: forse il nostro Paese è meno “attrattivo” rispetto a qualche decennio fa, e le dinamiche sociali ed economiche fanno essere preoccupati per il futuro. Si dice che dovremmo sempre puntare a lasciare il mondo migliore di quello che abbiamo trovato, e forse le nostre generazioni non stanno rispettando questo dovere.

Parlando della vita fuori dal lavoro, quando è nata la sua passione per il ciclismo?

Come spettatore già da ragazzino… Nel 1991 il giro d’Italia fece tappa a Sorrento, era l’epoca di Bugno e Chiappucci, anche se quell’anno il giro lo vinse Chioccioli. Ricordo che rimediai una cartolina autografata da Moser e Bartali insieme. All’epoca già pedalavo in giro per la penisola ma non avevo una bici da corsa… la prima bici da corsa la presi nel 2002, e da allora non ho più smesso…

Quali gare ciclistiche riesce a seguire con maggiore costanza?

Beh, il giro d’Italia e il Tour de France, anche se difficilmente riesco a guardare in diretta le tappe nei giorni lavorativi… più facile seguire quelle dei weekend.

Quale “classica” sognerebbe di aver vinto?

Beh, se proprio posso sognare direi la Milano-Sanremo, per il fascino che ha per gli appassionati. Se invece di un sogno fosse un incubo direi la Parigi-Roubaix con tutto quel pavé… Non penso che riuscirei neanche ad arrivare al traguardo…

In cucina preferisce stare ai fornelli o a tavola?

Decisamente a tavola. Da quando sono sposato cucino veramente poco, l’ho fatto per un periodo quando vivevo da solo, ma era per necessità e non per passione.

Quale ricetta suggerirebbe ai nostri lettori?

Una cosa irresistibile nella sua semplicità, spaghetto di Gragnano con i pomodorini.

Qual è il suo romanzo preferito?

Mah, ce ne sono tanti che rileggerei con piacere. Due che ricordo in particolare sono “Il postino di Neruda” di Antonio Skarmeta (quello da cui è stato tratto il film con Massimo Troisi) e “Seta”, un romanzo breve di Alessandro Baricco. Poi, giusto per confondere le idee sui miei generi preferiti, mi piace Simenon e sin da ragazzo ho letto e riletto tutto Edgar Allan Poe.

Ha libri sul comodino?

In questo momento “Colpo grosso ai Frigoriferi Milanesi” di Francesco Recami. Ultimamente ci metto un po’ a finire un libro, ho meno tempo di prima per leggere…

Legge e-book?

No, molto poco. Lo so che può sembrare in contraddizione con il fatto che tendo a stampare poco e a leggere gli articoli scientifici al computer, ma per i libri sono più tradizionalista. Mi piace avere il libro tra le mani, sfogliarlo. Non so, magari in futuro mi convertirò agli e-book…

Ricorda l’ultimo libro che ha regalato?

A Natale, qualche settimana fa, ho regalato a mio padre un libro di Carlo Animato, “Un fantasma in pretura. L’anno in cui a Napoli sfrattarono l’aldilà”, dell’editore Franco Di Mauro. L’ho visto a Sorrento, in libreria, e il titolo mi ha incuriosito.

Usa Whatsapp anche come mezzo per comunicazione di lavoro?

Sì, non tanto con i pazienti quanto con i colleghi.

Quale motivo l’ha motivata a usare i social network come Facebook o Twitter?

Facebook lo uso abbastanza, soprattutto per aspetti non lavorativi. Mi piace condividere canzoni, o foto delle vacanze. Qualche volta lo uso anche come canale di diffusione per comunicazioni o eventi scientifici, consapevole però del fatto che la maggior parte dei miei contatti non sono addetti ai lavori. Twitter invece lo considero una grande risorsa per il confronto scientifico e l’aggiornamento lavorativo, sostanzialmente senza confini nazionali.

Curiosità

Se le piace andare al cinema o vederli in tv, qual è l’ultimo film che ha visto?

Fino a qualche anno fa andavo spesso al cinema, poi c’è stato il blocco causato dalla pandemia, e in generale a causa degli impegni di lavoro ho meno tempo libero per andarci. In TV guardo spesso film, mi piace rivedere anche i film classici. L’ultimo film che ho visto (anzi rivisto) un paio di sere fa in TV è “Un sacco bello”, l’opera prima di Carlo Verdone: conosco le battute a memoria, ma mi piace sempre rivederlo.

Se dovesse scegliere un romanzo e un film che un giovane medico dovrebbe sicuramente conoscere, quali sarebbero?

Anni fa mi ha molto colpito “Risvegli” di Oliver Sacks. In realtà avevo visto il film ancor prima che un amico mi regalasse il libro, e consiglierei entrambi. Nel film il compianto Robin Williams faceva la parte del medico, e Robert De Niro era eccezionale nella parte del paziente. Due interpretazioni superbe e commoventi. Nella storia ci sono tanti spunti: la difficoltà della prognosi di alcune malattie, la difficoltà della comunicazione, la difficoltà e al tempo stesso il fascino della sperimentazione clinica.

Qual è la città italiana dove va più volentieri?

Beh, ora che sono “emigrato al Nord”, le città dove torno più volentieri sono Napoli e Sorrento.