Libri

Aeger, cura te ipsum
«Una gran parte di quello che i medici sanno,
è insegnato loro dai malati»
Marcel Proust

La medicina contemporanea sembra aver superato l’auspicata fase di transizione: quella tra il paternalismo autorevole (autoritario?) del medico “omniscente” ed una più consapevole autonomia del malato. Quest’ultimo sta legittimamente assumendo il ruolo di coprotagonista. Ma tale traguardo non appare sufficiente all’Autore di un recente volume: Patient, heal thyself. How the new medicine puts the patient in charge, di Robert M. Veatch. Pagine 288. Oxford University Press, New York 2009. Dollari 288. ISBN 13-978-0-1953-1372-7. La domanda che egli pone al lettore è la seguente: giungeremo finalmente ad un itinerario diagnostico-terapeutico caratterizzato da una gerarchia del tutto inversa rispetto a quella attuale tra medico e paziente? Ed al ribaltamento dei ruoli nella scelta della strategia clinica? Il libro offre numerosi (ma non sempre convincenti) argomenti a favore di un assoluto protagonismo della persona malata, focalizzando la motivazione di base sulla “globalità” dell’alleanza terapeutica, la quale non dovrebbe più essere limitata all’ottimizzazione tecnica di una cura, bensì al perseguimento di un benessere più generale (e più complessa), giusta le attese del paziente. Questo obiettivo potrà perfino subordinare la massimizzazione della salute fisica al soddisfacimento di soggettive esigenze sociali, culturali, religiose o economiche. Il che implica, da una parte, il coinvolgimento del medico in problematiche extra-biologiche e, dall’altra, la disponibilità ad una condotta di compromesso tra guarigione e desistenza terapeutica. Da qui – afferma Veatch – la necessità di valutare insieme, malato e medico, ciascuno confrontando le proprie con le altrui ragioni, ogni decisione clinica, ma tenendo ben presente la priorità di quelle esigenze peculiari che il malato reputasse prioritarie. L’Autore aggiunge una precisazione: ad un nuovo scenario, deve corrispondere un nuovo vocabolario. Egli sostiene la necessità di superare formule paternalistiche quali “prescrizione terapeutica”, “dimissione ospedaliera”, “consenso informato”: espressioni tanto più obsolete quanto più correlate al primato della tecnica medica (pag. 92). Veatch auspica un modello di valutazione, di giudizio e di decisione (assenso o dissenso), condiviso e partecipato: ma l’ultima parola – ribadisce – deve spettare al malato (pag. 109). Sembra voler portare alle estreme conseguenze il diritto all’autodeterminazione dei pazienti, tanto che – scrive – «anche se la comunità scientifica intenda intraprendere una ricerca, il rapporto costi-benefici implicito ai metodi ed agli eventuali risultati non può fare a meno dell’assenso della popolazione laica» (pag. 211).



Questa massimizzazione del protagonismo del malato e la sua promozione a decisore ultimo delle modalità assistenziali ha il fascino del paradosso e l’ambiguità delle ideologie. Più che un rischio di radicalizzazione, soffre quello dell’impraticabilità, non infrequente negli enunciati del­l’eccesso. Da tempo, infatti, la dottrina e la pratica hanno studiato e gradualmente attuato ed accreditato un nuovo istituto per il malato: come già detto, egli è sempre meno “paziente” e sempre più consapevole non solo dei suoi diritti, ma anche delle proprie potenzialità terapeutiche; peraltro, da tempo, competenza e disponibilità sono considerate pilastri della professione medica: «qualità irrinunciabili e indivisibili», le definisce lo storico Cosmacini. Che così le delucida: «Tecnica ed etica, dunque. Volendo dividere nei nomi quel che è unito nei fatti, si può dire che la terapia ha per oggetto un oggetto, cioè la malattia intesa come “affezione”, come guasto della macchina organica, mentre la cura ha per oggetto un soggetto, cioè il malato inteso come individuo somatopsichico, come persona cimentata da una “afflizione”, da una pena esistenziale. La terapia è indirizzata a bonificare una realtà fisiopatologica inerente all’organismo; la cura è volta a migliorare una realtà antropologica inerente alla persona umana. La lingua inglese distingue, della malattia, due aspetti: quello oggettivo, relativo alla malattia definita “disease” o stato di alterazione dell’organismo, e quello soggettivo, relativo alla malattia definita “illness” o stato di sofferenza della persona. Altrettanto opportunamente distingue, della medicina, l’aspetto terapeutico riferito “to cure” e l’aspetto curativo riferito a “to care”: il primo si riferisce all’esercizio tecno-pratico della terapia, il secondo all’esercizio etico-pratico dell’aver cura e premura. Il medico competente e disponibile deve farsi carico del paziente sotto entrambi gli aspetti». (Giorgio Cosmacini: Prima lezione di medicina. Roma-Bari: Laterza 2009; pagine 14 e 15).
Non sembra che lo scenario ed i rapporti descritti in queste righe abbiano bisogno di chiarimenti o integrazioni. Piuttosto va sottolineato il beneficio che da un simile equilibrio di strumenti e finalità deriverebbe all’alleanza terapeutica. Ed allora perché metterla a rischio con fughe in avanti che invece di qualificar sempre meglio ruoli e funzioni, li rivoluzionerebbero? Investire i malati della responsabilità dell’elemento di base dell’assistenza (l’esercizio tecno-pratico della terapia) non comporterebbe, per loro, un’educazione medica continua e  talmente ampia da risultare, infine, un impegno sproporzionato rispetto all’equilibrio tra costi e beneficî? Il meglio è, qualche volta, nemico del bene: perché – quindi – non adottare soluzioni appropriate praticabili, anziché strategie ottimali ma non realistiche? Seconda considerazione: contare sulla massimizzazione dell’autonomia decisionale del paziente sembra ignorare il caso di malati gravi che, solitamente, più che autorità desiderano empatia e palliazione. In terzo luogo, non tutti i pazienti sono disposti ad assumere la responsabilità (anche se parziale) delle cure per la propria condizione; non pochi, ancor oggi, preferiscono delegarla.
Si può dunque concludere, convenendo con l’Autore sull’opportunità di incrementare quanto più possibile il  ruolo della compliance nell’alleanza terapeutica; non invece sulla necessità di modificarne radicalmente ruoli e funzioni.

Benedetta Marra
Di che sesso sono?
«Il sesso è la radice di tutto,
radice della radice, vita sotto la vita»
Walt Whitman
Oltre mezzo secolo è trascorso da quando l’équipe di John Money formulò l’ipotesi di una correlazione tra identità di genere e ambiente familiare e sociale, arrivando a datare la possibilità di una caratterizzazione sessuale già nei primi 18 mesi di vita. Venti anni dopo, Imperato-McGinley e collaboratori studiarono un’inconsueta coorte di nativi della Repubblica Dominicana i quali, a causa di una anomalia genetica capace di convertire testosterone in de-idrotestosterone, avevano presentato, alla nascita, genitalità ambigua, che aveva causato una troppo frettolosa assimilazione al sesso femminile; attribuzione che tuttavia fu da loro rifiutata una volta giunti all’età puberale. Da qui la conclusione degli Autori, secondo cui l’identità di genere sarebbe determinata non dall’ambiente sociale, bensì da imperativi ormonali. E il dibattito tra sostenitori della causa naturale e fautori della influenza culturale è tuttora vivo ed attuale. Nel suo Fixing sex: intersex, medical authority and lived experience (366 pagine, Duke University Press, Durham 2008, dollari 23,95) Katrina Karzakis ne fornisce un excursus storico assai erudito, ben coniugando aspetti scientifici ed umanistici. Il focus del libro è incentrato sul seguito che ebbe il caso (riportato da Money nel 1992) del paziente che per cambiare sesso si sottopose all’ablazione del pene. Esso suscitò sensazionale interesse anche di là della corporazione scientifica e la Karzakis non manca di sottolineare le ricadute positive che simili circostanze possono determinare, quando siano idonee a decrementare la distanza che troppo spesso aliena il mondo della ricerca biomedica da quello reale. Nella seconda parte, altrettanto nutrita, l’Autrice si sofferma sullo stato attuale delle politiche sanitarie nei riguardi delle nascite di transessuali, nascite che generalmente vengono anagrafate di sesso femminile. E non trascura di corredarle di varia casistica narrativa, a marcarne la perdurante problematica controversiale.



Nel tentativo di contribuire a dirimerla, la European Society of Pediatric Endocrinology e la Lawson Zilkins Society of Pediatric Endocrinology hanno, nel 2006, congiuntamente pubblicato una Consensus sul trattamento dei disordini intersessuali. Ne sono conseguite linee guida tanto sagge quanto documentate, ma pur sempre condizionate da un’ottica che, ovviamente, non può essere che generalista, con indicazioni non esaustive delle numerose, variegate esperienze ed esigenze individuali. In un’area dove la percezione soggettiva è la chiave di volta, soluzioni affidate a domande e risposte su questionari sono fatalmente destinate al rischio dell’astrazione accademica. E Karzakis non può fare a meno di rilevarlo, privilegiando la “viva voce” di pazienti, familiari e terapeuti della specialità. Viva voce che, sostanzialmente, ribadisce – insieme all’espressione di toccante disagio personale – diffusa insoddisfazione nei riguardi del contesto, sia esso un più o meno vasto ambito familiare, sociale, politico o lo specifico, ma altrettanto frustrante, pregiudizio terapeutico incline alla radicalità chirurgica. Verso la quale il libro non nasconde scetticismo dettato da prudenza. Le linee guida succitate raccomandano, infatti, in caso di soggetti femminili affetti da anormalità nella formazione degli organi sessuali, una precoce separazione di vagina e canale uretrale, ma le inevitabili sequele chirurgiche addizionali hanno fatto registrare esiti tutt’altro che univoci. E la Karzakis espone fondati argomenti a sostegno dei candidati reticenti, soprattutto a causa della frequente perdita di sensibilità clitoridea ed anche, quantunque più raramente, di depotenziamento generale del soddisfacimento sessuale. Beninteso, sono critiche e suggerimenti che, nonostante una rilevante misura di attendibilità, restano non immuni da opinioni e da scelte personali. E di conseguenza, restano i pro e i contra.
Ma tant’è: la materia è assai fluida, i protagonisti enigmatici e Katrina Karzakis è sufficientemente imparziale. Il libro, dunque, assolve il suo compito: presenta problemi, propone soluzioni, sintetizza risultati ed invita alla riflessione.

Chiara Fedeli

La cura e il diritto
«La legalità è libertà»
Goethe
Le problematiche di fine vita vengono occupando ampio spazio nel mondo scientifico e culturale, alimentando un importante dibattito tra studiosi di diverse discipline: filosofi morali, medici, sociologi, religiosi, politici; con un moltiplicarsi di saggi, opere cinematografiche e letterarie, proposte legislative. Ultimamente è stato pubblicato, negli Stati Uniti, un documentato volume di sociologia e diritto comparato sulla situazione della materia, oggi, in Europa: John Griffiths, Heleen Weyers, Maurice Adams. Euthanasia and law in Europe. Pagine 596. Hart Publishing, Portland 2008. Dollari 126. ISBN 978-1-84113-700-1. Una prima parte è dedicata alla rassegna delle normative ufficiali in tema di suicidio assistito ed eutanasia nelle nazioni ove tali pratiche non costituiscono reato: Olanda e Belgio, che le hanno legalizzate dal 2002. In capitoli successivi, si affrontano, seppure più brevemente, i dilemmi, i problemi e i compromessi correlati a comportamenti che, in molti paesi, continuano a determinare esiti di umana compassione, in deroga ai dettati del codice: Gran Bretagna, Francia, Spagna, Italia e Scandinavia. Ci si sofferma anche sulla particolare situazione della Svizzera, divenuta ormai meta del cosiddetto “turismo dei suicidi”, in conseguenza di una legislazione assai permissiva nei confronti del suicidio assistito.
Il libro è dovizioso di informazioni e casistiche ed è risolutamente imparziale: costituisce un aggiornamento valido anche per lettori non europei. La tematica, infatti, è attuale e discussa anche negli Stati Uniti, ove – recentemente – lo Stato di Washington ha approvato misure sul modello delle leggi vigenti nell’Oregon da oltre un decennio. Esse non consentono l’eutanasia attiva ma non incriminano il medico che prescrive un farmaco letale al fine di porre termine ad inevitabili e vane sofferenze del malato, anche se non in fase terminale.
Nel mettere a fuoco la loro analisi, gli Autori tengono presenti quattro temi teoretici di fondo: il primo è la necessità di fronteggiare un’istanza sempre più avvertita dalle comunità contemporanee, quella di una morte dignitosa; il secondo, l’opportunità di affiancare alla dotazione della coscienza morale del medico l’ausilio della norma giuridica; il terzo, l’imperativo di non abbassare la guardia a fronte del rischio del “piano inclinato”; infine, l’utilità di un confronto a tutto campo pluridisciplinare e senza pregiudizi, affinché sia possibile attingere risultati non formali, bensì funzionali alla dignità dell’essere. E, in tale itinerario, risulta particolareggiato e nutrito da vissuta esperienza il capitolo dedicato al trattamento palliativo, lodevolmente promosso al rango di autentica – alta – alleanza non soltanto contro il dolore dell’organo o del corpo, ma anche contro la sofferenza della persona. A favore di tale alleanza, recenti avvenimenti hanno vibratamente coinvolto l’opinione pubblica – e poi il legislatore – anche del nostro paese. Ma hanno anche drammaticamente messo in evidenza che la pur saggia norma della nostra Costituzione non è da sola sufficiente a tutelare il diritto di ciascuno a porre un limite all’accanimento terapeutico. Occorrerebbe dunque ulteriore, approfondita riflessione e generosità di intenti per ricondurre il momento di fine vita all’ambito suo proprio: quello – come ha scritto Adriano Prosperi – «in cui ciascuno decide, personalmente se può, o per il tramite di suoi fiduciari, fino a che punto è disposto a tollerare interventi sul suo corpo; quello in cui solo il medico fedele al suo giuramento può accompagnare l’essere ammalato e sofferente collaborando con i suoi familiari in scienza e coscienza».

Caterina Roghi