Sui rapporti tra apnea ostruttiva del sonno, insulinoresistenza, steatoepatite e obesità grave

Gli studi sull’apnea ostruttiva del sonno (OSA, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “obstructive sleep apnea”) hanno indicato che l’ipossia cronica intermittente e la frammentazione del sonno, caratteristiche di questa sindrome, si associano a insulinoresistenza e intolleranza glicidica, indipendentemente dalla presenza di obesità e che in questi pazienti è presente un lieve grado di infiammazione.
Tutti questi aspetti sono particolarmente evidenti se è presente un’obesità grave, definita da un indice di massa corporea (BMI: “body mass index”) superiore a 40 kg/m2 di superficie corporea; inoltre, mentre l’obesità può promuovere infiammazione sistemica, insulinoresistenza e apnea del sonno, quest’ultima può aggravare la condizione infiammatoria e le alterazioni del metabolismo. L’obesità, associata all’insulinoresistenza, può favorire lo sviluppo di steatosi epatica, mentre l’OSA può contribuire alla progressione di una steatosi epatica senza infiammazione verso una steatoepatite non alcolica (NASH: “non alcoholic steatohepatitis”) e, di qui, alla cirrosi epatica.
È stato recentemente condotto uno studio al fine di esaminare se l’OSA e la conseguente ipossia notturna intermittente aprano la via a insulinoresistenza, infiammazione sitemica e NASH in soggetti con obesità grave assegnati a interventi di chirurgia bariatrica (Polotsky VY, Patil SP, Savransky V, et al. Obstrucitve sleep apnea, insulin resistance and steatohepatitis in severe obesity. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 228).



Gli autori ricordano che l’evoluzione della steatosi epatica si verifica in due fasi: una prima fase, che comporta accumulo di trigliceridi negli epatociti, promossa da insulinoresistenza e obesità, e una seconda fase caratterizzata dalla progressione verso la NASH, favorita dalla presenza di diabete, ipertrigliceridemia, ipertensione ed età > 45 anni; questa evoluzione si verifica in circa il 25-30% dei pazienti con steatosi epatica, ma, come sottolineano gli autori, il meccanismo patogenetico di questi eventi non è ancora definitivamente chiarito.
Gli autori hanno studiato le correlazioni tra OSA, ipossiemia notturna intermittente, insulinoresistenza, infiammazione sistemica ed epatosteatosi non alcolica in un gruppo non selezionato di 90 pazienti con obesità (BMI) > 35 kg/m2). È stato osservato che la gravità della desaturazione notturna di ossiemoglobina, ma non l’indice dei disturbi respiratori (IDR, calcolato dalla somma degli episodi notturni di apnea e ipopnea), è apparsa correlata alla gravità dell’insulinoresistenza e potrebbe inoltre essere correlata all’epatosteatosi non alcolica. È stato anche rilevato che l’obesità grave è associata ad elevati livelli di proteina C-reattiva (CRP), sebbene in assenza di rapporto tra gravità dell’OSA, ipossiemia notturna e livello sierico di CRP. Secondo gli autori questi rilievi inducono a ritenere che obesità e OSA presentino distinti profili metabolici, infiammatori ed epatici.
Gli autori hanno osservato una prevalenza superiore all’80% dell’OSA nell’obesità grave, in accordo con precedenti studi (Frey WC, Pilcher J. Obstructive sleep-related breathing disorders in patients evaluated for bariatric surgery. Obes Surg 2003; 13: 676). Ritengono pertanto che nell’obesità grave la disfunzione metabolica possa essere correlata, non soltanto con l’adiposità di per se, ma anche con la concomitante OSA. In questo studio è stato rilevato che l’obesità grave conduce a una condizione di infiammazione cronica che è implicata in una compromissione cardiovascolare. D’altra parte, l’OSA determina una infiammazione di lieve momento, con ipercitochinemia, e infatti gli autori hanno osservato che l’aumento della CRP (un’importante marcatore dell’infiammazione sistemica) rappresenta un importante elemento predittivo di arteriosclerosi grave e di danno cardiovascolare. Gli autori rilevano che attualmente il ruolo dell’OSA nell’aumento della CRP è controverso; secondo la loro esperienza questo aumento è in rapporto all’obesità e non alla concomitante OSA e un’eccessiva adiposità può aggravare ogni possibile effetto proinfiammatorio di un’ipossiemia intermittente o di una frammentazione del sonno nei soggetti con obesità grave.
Per quanto riguarda il ruolo dell’obesità grave nella patogenesi dell’insulinoresistenza gli autori ricordano che anche l’OSA è associata a questa patologia metabolica, come è associata a intolleranza glicidica ed elevati livelli di emoglobina glicosata (HbA1C), indipendentemente dal BMI, e che l’insulinoresistenza migliora con il trattamento mediante pressione positiva continua sulle vie aeree (CPAP: “continuous positive airway pressure”). Gli autori sottolineano inoltre che il miglioramento dell’OSA ottenuto riducendo il peso corporeo può contribuire al miglioramento dell’insulinoresistenza indotto con la diminuzione del peso. Secondo gli autori l’insulinoresistenza è correlata all’ipossia intermittente piuttosto che alla periodicità degli episodi di apnea, cosicché lo stress determinato dall’ipossia in corso di OSA può essere implicato nella progressione dell’insulinoresistenza che si verifica nell’obesità grave.
Per quanto riguarda i rapporti tra OSA e NASH nell’obesità grave gli autori rilevano che, sebbene l’insulinoresistenza sia una causa riconosciuta di epatosteatosi, non è ancora ben definita la progressione di questa verso la NASH. Gli autori riferiscono di aver potuto documentare che gli episodi di ipossia cronica intermittente notturna si associano a infiammazione lobulare, rigonfiamento degli epatociti e fibrosi epatica, ma non epatosteatosi; pertanto essi ritengono che l’obesità grave, di per se stessa, operi come un primo stimolo alla progressione dell’epatosteatosi, mentre l’ipossia intermittente dell’OSA operi come secondo stimolo che determina la progressione della steatosi epatica verso la NASH.
Concludendo, gli autori ritengono di avere dimostrato che l’ipossiemia caratteristica dell’OSA rappresenta un elemento predittivo di insulinoresistenza e può influenzare l’evoluzione di un’epatosteatosi non alcolica in una NASH in pazienti con obesità grave. Per contro l’IDR, che è un indice tradizionale di OSA, non ha valore predittivo di disfunzione metabolica e/o danno epatico nei pazienti candidati alla chirurgia bariatrica per obesità grave. Inoltre, secondo gli autori, è da tenere presente che, sebbene l’obesità grave si associ a infiammazione sistemica, i risultati da loro ottenuti non dimostrano una correlazione tra disordini respiratori del sonno e livello sierico di CRP. Gli autori ritengono che su questi aspetti siano necessari ulteriori studi controllati.

Beneficî e svantaggi delle misure di isolamento dalle infezioni
Come è noto, in base ai consigli della Society for ­Healthcare Epidemiology of America e dell’Infectious Disease Society of America le persone ritenute comportare un rischio di infezione per altri soggetti sono poste in isolamento, accogliendole negli ospedali in camere singole e facendole assistere da personale sanitario che indossa vesti protettive spesso comprendenti guanti e camici; queste misure non soltanto sono dirette a proteggere la persona isolata, ma anche altre che potrebbero essere esposte a contagio. Tuttavia osservazioni recenti hanno messo in luce che queste misure non sono senza rischi. Si ritiene, infatti, che esse restringano i movimenti della persona isolata o perfino determinino in essa un disagio psicologico o addirittura comportino una assistenza medica meno accurata ( Stelfox HT, Bates DW, Redelmeier DA. Safety of patients isolated for infection control. JAMA  2003; 31: 354). È stato anche sottolineato che a volte un intervento adottato in favore di alcuni pazienti può recare danno ad altri (Bryan CS, Call TJ, Elliot KC. The ethic of infection control: philosophical frameworks. Infect Control Hosp Epidemiol 2007; 28: 1077).
In una recente rassegna sono stati esaminati criticamente i criteri che dovrebbero guidare l’isolamento, come (Kirkland KB. Taking off the gloves: toward a less dogmatic approach to the use of contact isolation. Clin Infect Dis 2009, 48: 766).



Vengono posti i seguenti quesiti. 1) scopi e base razionale delle misure di isolamento, 2) attuali conoscenze sui vantaggi di queste misure, 3) potenziali svantaggi e inconvenienti, 4) le condizioni in cui i vantaggi superano o giustificano gli svantaggi, 5) eventuali misure meno restrittive per ottenere l’isolamento, 6) quali sono le garanzie per mantenere le misure di isolamento in maniera corretta e giusta.
La rassegna si propone di presentare un sistema per disporre delle attuali dimostrazioni per una decisione sul modo e sul tempo di usare misure di isolamento in situazioni di emergenza.
Per quanto riguarda gli scopi e la base razionale per l’isolamento l’autore rileva che questi riguardano principalmente il controllo per prevenire le infezioni ospedaliere o acquisite in altre strutture sanitarie (HAI, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “healt care associated infections”) e ricorda che in questi ambienti il paziente acquisisce nuovi microrganismi in tre modi: 1) direttamente (eventualità non frequente, anche nelle stanze con più letti), 2) indirettamente attraverso un intermediario (mani contaminate del persoanle di assistenza) e 3) indirettamente dall’ambiente, come servizi sanitari comuni. Per questi motivi si consiglia l’isolamento al fine di eliminare la trasmissione dell’infezione attraverso un ambiente comune; i guanti e le vesti protettive sono consigliati per ridurre il rischio che può derivare al paziente dal personale di assistenza. L’autore osserva, a questo proposito, che queste misure sono prese per interrompere la trasmissione dell’infezione, mentre lo scopo ultimo è quello di prevenire l’infezione. Secondo l’autore la sola trasmissione non è né necessaria né sufficiente per causare l’infezione e pertanto, una volta che si è verificata la trasmissione, l’isolamento non è probabilemte in grado di prevenire la susseguente infezione, che, per verificarsi, ha necessità di accedere in aree sterili.
L’autore passa in rassegna i risultati di alcuni recenti studi dai quali risulta evidente che non derivano vantaggi isolando pazienti portatori di infezione, ad esempio, fra le più contagiose, quelle da Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (MRSA) (Nijssen S, Bonten MJM, Weinstein RA. Are active microbiological surveillance and subsequent isolation needed to prevent the spread of methicillin-resistant Staphylococcus aureus? Clin Infect Dis 2005; 40: 405).
Per contro l’autore ricorda i risultati di un crescente numero di studi che inducono a constatare che le procedure d’isolamento possono comportare dannose conseguenze non desiderate. Queste conseguenze consistono essenzialmente in sensazione di essere abbandonato, noia, ansia e depressione. Inoltre è stato rilevato che l’isolamento comporta spesso una riduzione del contatto con il personale di assistenza e, per conseguenza, riduzione del controllo delle condizioni cliniche e del numero di esami (Stelfox, et al. loc cit); tutto ciò può determinare nel paziente una condizione di insoddisfazione (Gasnik LB, Singer K, Fishman NO, et al. Contact isolation for infection control in hospitalized patients: is patient satisfaction affected? Infect Control Hosp Epidemiol 2008; 29: 275).
Per quanto riguarda il costo di uno stretto isolamento, indubbiamanete notevole, l’autore si pone questa domanda: chi vorrà pagare i costi dell’isolamento, quando questo è adoperato come intervento di sanità pubblica e non per il vantaggio del paziente isolato, ma per un vantaggio teorico di altri pazienti?
L’autore riconosce che, al momento attuale, non vi sono dati sicuri che consentano di stabilire se le procedure di isolamento comportino inconvenienti che “consistentemente” superino in tutti i casi i benefici e ricorda che, se da un lato è stato dimostrato che in occasione di epidemie, nelle quali le infezioni ospedaliere non sono controllate, i programmi di isolamento possono comportare un vantaggio, d’altra parte, non vi sono studi che dimostrino un chiaro effetto dell’isolamento, da solo, o con l’aggiunta del lavaggio delle mani. L’autore ritiene pertanto che, in mancanza di un chiaro e indipendente beneficio, anche una dimostrazione isolata di potenziali svantaggi debba essere presa attentamente in considerazione, secondo le diverse condizioni del paziente e quelle dell’ambiente ospedaliero in cui è accolto. A questo proposito l’autore sottolinea che recentemente è stato rilevato che il lavaggio delle mani da parte del personale di assistenza, in assenza di restrizioni per il paziente, sia adeguato a interrompere la trasmissione dell’infezione (Centers for Disease Control and Prevention. Guideline for hand hygiene in health-care settings: recommendation of the Healthcare Infection Control Practice Advisory Committee and the HICPAC/SHEA/APIC/IDSA Hand Hygiene Task Force. MM WR Morb Mortal Wkly Rep 2002; 51(RR16): 1).

Ruolo delle riacutizzazioni nella prognosi della broncopneumopatia cronica ostruttiva
In un recente aggiornamento sulla broncopneumopatia cronica ostruttiva (COPD, secondo l’acronimo d’uso internazionale “chronic obstructive pulmonary disease”) sono stati esaminati e discussi i problemi posti dalle riacutizzazioni di questa malattia (Maclay JD, Rabinovich RA, Mac Nee W. Update in chronic obstructive pulmonary disease 2008. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 533).



Gli autori ricordano che le riacutizzazioni della COPD esplicano un marcato effetto su qualità di vita, morbilità e mortalità e che la riduzione della loro frequenza e della loro intensità rappresenta un’importante misura dell’efficacia del trattamento. Si sottolinea che per valutare con precisione la frequenza delle riacutizzazioni della COPD sono molto utili i contatti con questi pazienti al loro domicilio, specialmente quando si tratta di soggetti anziani e di quelli con forme meno gravi di malattia. Queste misure sono utili per i pazienti con riacutizzazioni che non vengono segnalate e che in realtà presentano un aggravamento delle loro condizioni più evidente rispetto ai soggetti senza riacutizzazioni ( Langsetmo L, Peatt RW, Ernst P, et al. Underreporting exacerbation of chronic obstructive pulmonary disease in a longitudinal cohort. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 396).
Gli autori richiamano l’attenzione sul valore di alcuni biomarcatori specifici per la malattia nella valutazione delle condizioni dei pazienti e nel controllo della terapia, anche se nessun marcatore è risultato finora in grado di confermare la presenza di una riacutizzazione.
Gli autori citano in proposito gli studi sul siero-amiloide A (SAA) misurato mediante analisi proteomica del siero di pazienti con riacutizzazioni di COPD; queste misure si sono dimostrate più sensibili, utili particolarmente nelle riacutizzazioni di etiologia infettiva e specifiche della proteina C-reattiva (CRP) (Bozinowsky S, Hutchinson A, Thompson M, et al. Serum amyloid A is a biomarker of acute exacerbations of chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 269).
Un altro marcatore studiato in queste condizioni è la proadrenomedullina la cui concentrazione plasmatica è risultata aumentata nelle riacutizzazioni di COPD e, che, inoltre, ha consentito di prevedere la mortalità a 2 anni in questi pazienti (Stolz D, Christ-Crain M, Morgenthaler NG, et al. Plasma proadenomedullin but not plasma pro-endothelin predict survival in exacerbation of COPD. Chest 2008; 134).
Per quanto concerne il peso di una concomitante infezione batterica nella prognosi delle riacutizzazioni della COPD, gli autori confermano che questa è responsabile dal 30 al 50% delle riacutizzazioni, con marcato incremento di risposta infiammatoria polmonare e/o sistemica (Sethi S, Wrona C, Eschberger K, et al. Inflammatory profile of new bacterial strain exacerbations of chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir Crit Care Med 2008; 177: 491). Tuttavia, secondo questi autori, va precisato che la presenza di microrganismi preesistenti nelle vie respiratorie non necessariamente contribuisce all’insorgenza delle riacutizzazioni.
Gli autori osservano che l’identificazione di riacutizzazioni che tendono ad aggravarsi può consentire un tempestivo trattamento. A questo fine si sono rivelati utili tre criteri: 1) età > 70 anni, 2) numero di segni di gravità, e cioè cianosi, compromissione neurologica, edemi agli arti inferiori, asterixi e impegno della muscolatura respiratoria) e 3) grave dispnea (Roche N, Zureik M, Soussan D, et al. Urgence BPCO (COPD Emergency) Scientific Committee. Predictors of outcomes in COPD exacerbations cases presenting to the emergency department. Eur Respir J 2008; 32: 953).
Nella diagnosi e nella valutazione delle riacutizzazioni della COPD va infine ricordato quanto è stato sottolineato recentemente da Hurst et al (Hurst JR, Donaldson GC, Quint JK, et al. Temporal clustering of exacerbations in chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 369), (vedi questa Rivista, vol. 100, maggio 2009, pag. 27), rilevando la necessità di distinguere i sintomi delle riacutizzazioni “isolate” da quelle “iniziali”, poiché il quadro clinico è più caratteristico di una infezione virale negli episodi iniziali che sono in genere meno gravi di quelli isolati. Inoltre questi autori ritengono che la natura e la durata del primo episodio predispongano alla durata del tempo che intercorre tra questo e quello successivo. In queste condizioni è stato rilevato che la terapia delle riacutizzazioni si associa a riduzione del livello sierico di interleuchina-16 (IL-16) al disotto dei valori di partenza iniziali, con un nuovo incremento dopo la sospensione del trattamento. Gli autori sottolineano anche la necessità di distinguere riacutizzazioni che ricorrono dopo un efficace trattamento del primo episodio da quelle che insorgono dopo una terapia inefficace del primo episodio: nel primo caso si dovrebbe parlare di “ricorrenze”, nel secondo caso di “ricadute”.

Attuali problemi sull’inizio della terapia antivirale nell’AIDS
Il momento più adatto per iniziare il trattamento antivirale nei pazienti con sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) è tuttora oggetto di controversie, cosicché recenti linee guida sono state stabilite in base a studi osservazionali (Hammer SM, Bron JJ jr, Reiss P, et al. Antiretroviral treatment of adult HIV infection: 2008 recommendations of the International AIDS Society-USA panel. JAMA 2008; 300: 555). In linea generale si consiglia di iniziare il trattamento nei pazienti asintomatici che presentano un numero di linfociti CD4+ inferiore a 350/mL; infatti in alcuni studi è stato osservato che ritardare l’inizio della terapia fino a che la conta dei CD4+ non scenda sotto 250 cellule/mL comporta un accresciuto rischio di progressione della malattia o di obitus a confronto con un inizio quando i CD4+ superano la soglia di 350 cellule/mL (Hughes MD, Ribaudo HR. The search of data on when to start treatment for HIV infection. J Infect Dis 2008; 197: 1084). Inoltre è stato rilevato che l’inizio precoce della terapia antivirale nel corso dell’infezione da HIV può migliorare il decorso a lungo termine (Kelley CF, Kitchen CM, Hunt PW, et al. Incomplete peripheral cell count restoration in HIV-infected patients receiving long-term antiretroviral treatment. Clin Infect Dis 2009; 48: 787). Recentemente sono stati pubblicati i dati raccolti, come parte del progetto North America AIDS Cohort Collaboration on Research and Design (NA-ACCORD) of the International Epidemiological Databases to Evaluate AIDS, in un ampio studio su pazienti con infezioni da HIV, non trattati in precedenza, e classificati secondo la conta dei CD4+ in un gruppo con CD4+ da 351 a 500/mL e in un secondo gruppo con CD4+ oltre 500/mL (Kitahata MM, Gance SJ, Abraham AG, et al. Effect of early versus deferred antiretroviral therapy for HIV on survival. N Engl J Med 2009; 360: 1815).




In questo studio, nei pazienti del primo gruppo (n = 8362) con conta di CD4+ da 351 a 500 cellule/mL, il ritardo dell’inizio del trattamento fino a che la conta di CD4+ sia scesa sotto 350 cellule/mL il rischio di obitus è stato del 69% a confronto con i pazienti con trattamento iniziato quando la conta di CD4+ è persistita tra i due valore su citati. Nei pazienti del secondo gruppo (n = 9155) con conta di CD4+ ≥500 cellule/mL il ritardato inizio della terapia fino a che la conta di CD4+ non sia scesa sotto a 500 cellule/mL è stato associato a un significativo rischio di obitus del 94% a confronto con i pazienti con numero di cellule CFD4+ >500/mL. Gli autori hanno rilevato che l’aumento di rischio di obitus nei pazienti con ritardato inizio della terapia è stato uniforme per tutto il periodo di 10 anni di osservazione. Inoltre gli autori sottolineano di avere usato l’obitus come punto di riferimento (“end point”) primario, poiché l’hanno ritenuto maggiormente definitivo e comprensivo di tutte le misure del decorso della malattia rispetto alla progressione dell’AIDS usata come punto di riferimento in altri studi; a questo proposito gli autori osservano che, nei pazienti con inizio ritardato della terapia, le condizioni patologiche che non definiscono la presenza dell’AIDS si verificano più frequentemente rispetto ai pazienti con inizio precoce della terapia; ricordano inoltre che, nei pazienti con causa di obitus nota, la maggior parte delle cause non rappresentavano condizioni patologiche che definiscono l’AIDS.
Gli autori riconoscono che permane ancora incerto il momento adatto per l’inizio della terapia nei pazienti con infezione da HIV, ma asintomatici, e che un chiarimento definitivo potrà venire da studi clinici controllati e randomizzati. Pertanto, poiché il loro studio non è stato randomizzato, è probabile che la decisione di iniziare o procrastinare il trattamento sia stata influenzata da molti fattori; è per questo motivo che gli autori hanno cercato di ridurre il peso di fattori confondenti, come età, livello di RNA di HIV, storia di uso di droga e assenza o presenza di infezione da HCV. È stato anche tenuto conto di eventuale miglioramento a motivo dei progressi della terapia dell’AIDS. A questo proposito ricordano che i criteri per stabilire quando iniziare la terapia nei pazienti con infezione da HIV, ma asintomatici, sono stati modificati, negli ultimi dieci anni, dall’introduzione di potenti farmaci antiretrovirali e che la terapia per tutti i pazienti con infezione da HIV è stata consigliata quando la conta di CD4+ sia inferiore a 500 cellule/mL, pur con attenzione a inadeguata collaborazione del paziente, farmaco-resistenza ed effetti tossici; tutto ciò ha portato a procrastinare il trattamento a fasi più avanzate dell’infezione, mentre, per contro, i significativi progressi compiuti nelle conoscenze del ruolo dell’infiammazione e dell’attivazione immunitaria nella patogenesi dell’infezione da HIV, con conseguente potenziale danno tessutale e del sistema immunitario, hanno indotto a consigliare un trattamento precoce.
Nel commentare questi risultati Sax et al (Sax PE, Baden LR. When to start antiretroviral therapy. Ready when you are? N Eng J Med 2009; 360: 1897) osservano che essi non possono fornire una prova definitiva sull’inizio della terapia su tutti i pazienti con infezione da HIV, perché, come del resto sottolineato da Kitahata et al (loc cit), non si tratta di uno studio randomizzato, cosicché i pazienti con terapia precoce potrebbero trovarsi in condizioni cliniche differenti dalla situazione dei CD4+, per cui la sopravvivenza potrebbe essere stata prolungata da altri fattori non valutati e ciò anche tenendo presenti le correzioni relative a situazioni fisiologiche e patologiche concomitanti eseguite nello studio (epatite da HVC, droga, età, etc). Inolte Sax et al (loc cit) osservano che circa il 45% dei pazienti nei due gruppi o non ha iniziato il trattamento o non ha presentato una riduzione del numero di CD4+; questi pazienti non sono stati inclusi nell’analisi di confronto, cosicché non è possibile sapere se la terapia antivirale avrebbe dato un risultato positivo. Sax et al (loc cit) osservano inoltre che un più esteso uso di farmaci antiretrovirali può fare aumentare la farmaco-resistenza del virus e che non sappiamo quanto una più recente terapia possa influenzare le future scelte operative. Su tutti questi problemi sono necessari ulteriori ricerche.

Trattamento della porpora trombocitopenica idiopatica
La porpora trombocitopenica idiopatica (PTI) è dovuta ad aumento della distruzione e a ridotta produzione delle piastrine e un importante ruolo patogenetico assume in questa condizione l’aumento compensatorio della trombopoietina, che è una citochina stimolante la trombopoiesi. Clinicamente la PTI si manifesta con petecchie e soffusioni emorragiche di lieve entità e quadri più gravi come le emorragie intracraniche (Cines DB, Blanchette VS. Immune thrombocytopenic purpura. N Engl J Med 2002; 346: 995). In genere il trattamento della PTI si basa sul tentativo di bloccare il processo distruttivo delle piastrine mediante glicocorticoidi o immunoglobuline endovena o anti-RhD endovena o farmaci immunosoppressivi o splenectomia oppure anticorpi monoclonali contro le cellule B, ma non tutti i pazienti rispondono a queste terapie. Recentemente è stato studiata la possibilità di stimolare la trombopoiesi mediante trombopoietina ricombinante; senonché lo sviluppo di anticorpi che mostrano reazione crociata verso la trombopoietina ha dissuaso da questo trattamento ( Stasi R, Provan D. Management of immune thrombocytopenic purpura in adults. Mayo Clinic Proc 2004; 79: 504).



L’attenzione è stata quindi rivolta verso farmaci capaci di stimolare la proliferazione e la differenziazione dei magacariociti del midollo osseo, così da dar luogo ad aumento di piastrine normalmente funzionanti. Uno di questi composti è l’eltrombopag (ELT) che è un composto non-peptidico di piccolo peso molecolare agonista del recettore per la trombopoietina, che interagisce con il dominio transmembrana di questo recettore.
In un recente studio in fase II, l’ELT ha determinato aumento del numero delle piastrine in pazienti con PTI secondaria a epatite C (Mc Hutchison JG, Dusheiko G, Shiffman ML, et al. Eltrombopag for thrombocytopenia in patients with cirrhosis associated with hepatitis C. New Eng J Med 2007; 357: 2227).
In un successivo studio clinico controllato con placebo in fase III sono state valutate l’efficacia, l’innocuità e la tollerabilità dell’ELT somministrato per os alle dosi di 50 o 75 mg pro die in 144 adulti (Bussel JB, Provan D, Shamsi T, et al. Effect of eltrombopag on platelets counts and bleeding during treatment of chronic idiopatic thrombocytopenic purpura: a randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Lancet 2009; 373: 641). Nel gruppo trattato con ELT sono stati inclusi 73 pazienti con PTI cronica con meno di 30.000 piastrine per µL di sangue, che hanno ricevuto per oltre 6 settimane 50 mg di ELT per os pro die; dopo 3 settimane di terapia i pazienti che presentavano ancora meno di 50.000 piastrine per µL hanno ricevuto 75 mg pro die di ELT. Come punto di riferimento primario è stato considerato il raggiungimento di 50.000 o più piatrine per mL al 43° giorno di terapia.

Gli autori hanno osservato che, 43 su 73 pazienti (59%) trattati con ELT contro 6 su 37 (16%) pazienti del gruppo placebo hanno risposto raggiungendo ≥50.000 piastrine per µL entro le prime 2 settimane di osservazione e che, con l’aumento del numero delle piastrine, si è verificata una significativa riduzione degli eventi emorragici, sia durante che al termine dello studio. È stato, inoltre, rilevato che il numero delle piastrine è rimasto a 50.000 per µL e oltre per una settimana nei pazienti trattati, ritornando in genere ai valori di partenza entro 2 settimane dalla fine del trattamento, e ciò in accordo con precedenti studi ( Bussel JB, Cheng G, Saleh MN, et al. Eltrombopag for the treatment of chronic idiopathic thrombocytopenic purpura. N Engl J Med 2007; 357: 2237).
Gli autori riferiscono di avere scelto come punto di riferimento primario la concentrazione di 50.000 piastrine per mL dopo 6 settimane di terapia, perché ritengono che questo valore dimostri inequivocabilemte un miglioramento della crasi piastrinica, pur sapendo che il trattamento della PTI cronica non viene iniziato a valori superiori a 30.000/µL. Osservano inoltre che studi retrospettivi su pazienti con PTI con valori di partenza molto bassi di piastrine hanno indicato che molti pazienti ritenuti non rispondenti hanno presentato notevoli incrementi del numero di piastrine dopo terapia con ELT.
È stato inoltre rilevato che sulla risposta positiva al trattamento non hanno influito precedenti situazioni dei pazienti, come splenectomia, numero di piastrine ≤15.000/µL, contemporaneo uso di farmaci adoperati nella PTI e che i pazienti anziani hanno risposto come quelli più giovani. Per quanto riguarda il dosaggio di 75 mg pro die, gli autori riferiscono di averlo usato per ottenere una migliore risposta, sebbene sia noto che entrambi i dosaggi di 50 e di 75 mg hanno lo stesso effetto e che ancora non sia possibile affermare che la dose di 75 mg pro die o una più lunga durata del trattamento abbia effetto nei soggetti non rispondenti.



Gli autori ricordano che lo scopo principale della terapia della PTI cronica è quello di prevenire le complicanze emorragiche e che nei pazienti trattati con ELT hanno osservato una significativa riduzione di queste a confronto con i pazienti del gruppo placebo, inducendo a ritenere che le piastrine prodotte in risposta al farmaco funzionino normalmente. A questo proposito gli autori ricordano che non è stato ancora condotto un confronto tra ELT e romiplostim, un farmaco stimolante la trombopoiesi, che, alla dose di 1 o 3 µg/kg per via sottocutanea alla settimana, ha consentito di raggiungere la concentrazione di ≥50.000 piastrine/µL ( Kuter DJ, Bussel JB, Lyons RM, et al. Efficacy of romiplostim in patients with chronic immune thrombocytopenic purpura: a double-blind randomized controlled trial. Lancet 2008; 371: 395).
Per quanto concerne l’innocuità, è stato rilevato che la qualità di vita è rimasta molto stabile durante il trattamento con ELT, probabilmente anche a motivo della sua breve durata. In questo studio l’ELT è stato ben tollerato mostrando un profilo di eventi collaterali avversi simile a quello del gruppo placebo, con una prevalenza, rispetto al placebo, di nausea e vomito; in particolare non sono stati osservati eventi tromboembolici, mentre in alcuni pazienti si è verificato un lieve aumento degli enzimi epatici che ha indotto gli autori a controllarli in corso di terapia; in nessun paziente trattato con ELT è stato osservato un aumento di rischio di cataratta, segnalato in ricerche precliniche su animali. Dopo il termine della terapia due pazienti hanno presentato ricorrenze emorragiche associate a riduzione del numero di piastrine a meno di 10.000/µL. A questo proposito gli autori consigliano di controllare la crasi piastrinica dopo il termine del trattamento al fine di identificare una transitoria diminuzione delle piastrine e decidere se riprendere il trattamento.
Gli autori riconoscono un’importante limitazione allo studio dell’effetto dell’ELT nella PTI, costituita dal fatto che la misura del numero delle piastrine non è stata eseguita sistematicamente prima dell’8° giorno di terapia; pertanto, non essendo possibile identificare l’aumento delle piastrine entro la prima settimana, non vi sono indicazioni all’uso di ELT quando è richiesto un urgente aumento di queste cellule. A questo proposito gli autori informano che sono in corso studi a lungo termine (fino a 2 anni) sull’uso dell’ELT nel trattamento della PTI; fino a oggi i risultati ottenuti indicherebbero che l’ELT è efficace sia in pazienti splenectomizzati che non splenectomizzati, ma  non chiariscono come questo farmaco debba essere adoperato nella PTI cronica ( Bussel JB, Cheng G, Saleh MN, et al. Safety and efficacy of long-term treatment with oral eltrombopag for chronic idiopathic thrombocytopenic purpura. Blood 2008; 112: 117 (abstr 3432).

Livello di estradiolo circolante
e mortalità negli uomini
con insufficienza cardiaca cronica
Recenti studi hanno messo in evidenza un importante ruolo degli estrogeni nella fisiopatologia delle malattie cardiovascolari negli uomini e hanno dimostrato benefici effetti di questi ormoni sul miocardio e sui vasi con attenuazione del rimodellamento cardiovascolare e riduzione della necrosi e dell’apoptosi dei cardiomiociti. A queste osservazioni hanno corrisposto i risultati di recenti studi epidemiologici e clinici che hanno indicato una correlazione tra ridotta concentrazione di estrogeni e aumentato rischio di eventi cardiovascolari nella popolazione generale maschile ( Arnlöv J, Pencina MJ, Amin S, et al. Endogenous sex hormones and cardiovascular disease incidence in men. Ann Intern Med 2006; 145: 176). L’aumento di questo rischio è risultato particolarmente evidente negli uomini anziani. Inoltre in alcune ricerche sperimentali è stato ipotizzato che un alterato metabolismo degli estrogeni e una anomala espressione dei loro recettori possano essere implicati nella fisiopatologia dell’insufficienza cardiaca (Mahmodzadeh S, Eder S, Nordmeyer J, et al. Estrogen receptor alpha up-regolation and redistribution in human heart failure FASEB J 2006; 20: 926). D’altra parte è noto che un alterato metabolismo di androgeni, sia gonadali che surrenalici, è presente in uomini con insufficienza cardiaca cronica e ha uno sfavorevole significato prognostico (Jankowska EA, Biel B, Majda J, et al. Anabolic deficiency in men with chronic heart failure: prevalence and detrimental impact on survival. Circulation 2006; 114: 1829). Tutti questi studi hanno portato a ritenere che nei soggetti di sesso maschile, in corso di insufficienza cardiaca, siano presenti sia un alterato metabolismo degli androgeni che un’alterata sintesi e un’alterata degradazione di questi ormoni.
In un recente studio clinico è stata esaminata la correlazione tra concentrazione sierica di estradiolo e mortalità in pazienti di sesso maschile con insufficienza cardiaca e ridotta frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “left ventricular ejection fraction”) (Jankowska EA, Rozentryt P, Ponikowska B, et al. Circulating estradiol and mortality in men with systolic chronic heart failure. JAMA 2009; 301: 1982).




Nel periodo dal 1 gennaio 2002 al 31 maggio 2006 sono stati studiati 501 uomini di 58 anni di età media, con insufficienza cardiaca e ridotta LVEF (in media 26,8%), dividendoli in cinque quintili secondo la concentrazione sierica di estradiolo (da <12,90 pg/mL nel 1° quintile a ≥37,40 pg/mL nel 5° quintile) e considerando come valore di riferimento quello tra 21,80 e 30,11 pg/mL del 3° quintile. La concentrazione sierica di estradiolo e di androgeni (testosterone totale e deidroepiandrosterone solfato [DHEA-S]) è stata misurata con metodo immunologico.
È stato osservato che negli uomini con insufficienza cardiaca cronica stabile e ridotta LVEF la correlazione con il livello sierico di estradiolo mostra una curva ad U; infatti sia alti livelli che bassi livelli hanno un significativo valore predittivo di prognosi sfavorevole, indipendentemente dalla presenza dei convenzionali marcatori prognostici e da deficit di androgeni gonadici e surrenali. È stato inoltre rilevato che i pazienti con bassi o alti valori di estradiolo presentano differenti caratteristiche cliniche. Infatti quelli con bassi valori (1° quintile) presentano aumento del testosterone sierico, diminuzione del DHEA-S, più alta classe NYHA (New York Heart Association), prevalente etiologia ischemica dell’insufficienza cardiaca, diminuita concentrazione di emoglobina, riduzione del filtrato glomerulare stimato e ridotta massa grassa totale; inoltre questi soggetti sono stati meno frequentemente trattati con spironolattone, diuretici dell’ansa e digossina e più spesso con diuretici tiazidici. I pazienti del 5° quintile hanno presentato aumento della bilirubinemia e delle aminotransferasi, ridotta natriemia e più frequentemente sono stati trattati con spironolattone. Secondo gli autori queste differenze inducono a ritenere che il meccanismo fisiopatologico della correlazione tra livello di estradiolo e insufficienza cardiaca non sia lo stesso nei differenti quintili.
A questo proposito gli autori ricordano che gli estrogeni esplicano un ruolo importante nella fisiologia
e nella fisiopatologia dei soggetti di sesso maschile e un effetto cardioprotettivo. È noto, inoltre, che nel maschio gli estrogeni originano prevalentemente dall’aromatizzazione degli androgeni e che gli adipociti maschili dimostrano un’elevata attività dell’aromatasi con conseguente sintesi di estrogeni e che specifici recettori per gli estrogeni si trovano nel miocardio e nelle pareti vasali.
Gli autori rilevano che studi epidemiologici e clinici sull’uomo e sperimentali su animali, unitamente agli studi su malattie genetiche caratterizzate da deficit di estrogeni (deficit congenito di aromatasi e resistenza agli estrogeni dovuta a mutazioni recettoriali), hanno indotto a ritenere che una deficienza di estrogeni può dare luogo ad anomala maturazione scheletrica, riduzione della massa magra, dismetabolismo glicidico e lipidico e arteriosclerosi prematura nel sesso maschile.
Gli autori riconoscono che non è facile spiegare la correlazione a U della concentrazione sierica di estradiolo con la mortalità negli uomini con insufficienza cardiaca cronica e ridotta LVEF. In questo contesto il problema è quello di stabilire se il livello di estradiolo è in rapporto con le modificazioni che si verificano nell’organismo in corso di progressione dell’insufficienza cardiaca oppure è soltanto un marcatore di questa progressione privo di ruolo patogenetico. A questo proposito gli autori sottolineano che nel loro studio i pazienti con più alta mortalità presentavano una riduzione della funzione renale e della concentrazione di emoglobina, che possano avere contribuito alla bassa concentrazione di estradiolo (1° quintile) e alla mortalità; per contro, i pazienti del 5° quintile (anche essi con elevata mortalità) hanno presentato segni di danno epatico ed è noto che l’estradiolo è prevalentemente sintetizzato nel tessuto adiposo e metabolizzato nel fegato; da qui la maggiore gravità dell’insufficienza cardiaca di questo gruppo di pazienti. Secondo un’altra ipotesi è possibile, secondo gli autori, che il basso livello di estradiolo sia dovuto a ridotta attività dell’aromatasi del tessuto adiposo, come sarebbe indicato dal contemporaneo aumento nel siero del testosterone totale dovuto a inibizione della sintesi di estradiolo da parte del testosterone del tessuto adiposo. Gli autori ritengono che l’associazione tra basso livello sierico di estradiolo e riduzione del tessuto adiposo, osservata in uomini con insufficienza cardiaca cronica, possa spiegare alcuni aspetti della cachessia cardiaca, come disfunzione endoteliale e della muscolatura scheletrica, aumentata resistenza vascolare e alta mortalità. In questi pazienti è stato osservato aumento delle aminotransferasi e della bilirubinemia, con riduzione della natriemia. L’aumento del livello di estradiolo rilevato in corso di insufficienza cardiaca (5° quintile) è stato ritenuto, almeno, in parte dovuto ad alterazioni del metabolismo epatico e probabilmente ad aumentata aromatizzazione periferica. Tuttavia gli autori riconoscono che l’origine dell’aumentato livello di estradiolo in circolo negli uomini con insufficienza cardiaca cronica stabile e ridotta LVEF permane ancora sconosciuta.
Per quanto concerne le prospettive terapeutiche derivate da questi studi, gli autori ricordano che basse dosi di estrogeni possono migliorare negli uomini la perfusione miocardica, ma che la risposta terapeutica a questi ormoni dipende dai livelli basali e che, al momento attuale, non vi sono dimostrazioni che consiglino una terapia aggiuntiva con estradiolo in queste condizioni.