Dalla letteratura

Microplastiche nell’organismo: quali sono i rischi e come ridurre l’esposizione?

Vista la loro concentrazione – si stimano da 10 a 40 milioni di tonnellate di emissioni di microplastiche nell’ambiente all’anno, e questi numeri potrebbero raddoppiare entro il 2040 – sarà impossibile evitare totalmente l’esposizione alle microplastiche e alle nanoplastiche (Mnp). Un articolo pubblicato di recente su Brain Medicine e firmato da Nicholas Fabiano della University of Ottawa (Canada) et al.1 ha offerto una sintesi aggiornata delle evidenze riguardo l’esposizione umana alle Mnp, indicando percorsi attraverso i quali è possibile diminuirne l’assunzione con la dieta, o utili a favorire la loro eliminazione dall’organismo.

Secondo Fabiano et al. la ricerca sulle microplastiche è ancora agli inizi, ma stanno già venendo alla luce collegamenti preoccupanti. Citando un lavoro pubblicato su Nature Medicine a febbraio, i ricercatori hanno sottolineato come nei tessuti cerebrali siano state riscontrate quantità di Mnp da 7 a 30 volte superiori rispetto ad altri organi come il fegato o i reni: il cervello umano oramai conterebbe circa l’equivalente di un cucchiaio di Mnp. Inoltre, queste quantità sarebbero da 3 a 5 volte superiori nei cervelli di pazienti deceduti con una diagnosi di demenza documentata2.

Le evidenze raccolte nel paper, in gran parte basate su studi animali e colture cellulari, hanno suggerito che l’esposizione ai Mnp può portare a impatti negativi sulla salute attraverso lo stress ossidativo, l’infiammazione, la disfunzione immunitaria, l’alterazione del metabolismo biochimico/energetico, l’alterazione della proliferazione cellulare, lo sviluppo anomalo degli organi, l’alterazione delle vie metaboliche e la cancerogenicità. Con conseguenze dirette o indirette su vari sistemi di organi, tra cui quello respiratorio, gastrointestinale, cardiovascolare, epatico, renale, nervoso, riproduttivo, immunitario, endocrino e muscolare. In particolare, le persone con una placca carotidea in cui erano stati rilevati Mnp avevano un rischio maggiore di infarto miocardico, ictus o mortalità per tutte le cause3. Inoltre, le feci dei pazienti affetti da malattie infiammatorie intestinali (Ibd) contenevano una quantità di microplastiche circa 1,5 volte superiore rispetto al gruppo di controllo, con una media di 41,8 particelle per grammo di feci secche contro 28,04.

Su un commento al paper pubblicato su Medical News Today5, sono stati riassunti alcuni dei modi per ridurre l’esposizione alle Mnp, tra cui l’adozione di un’alimentazione povera di alimenti processati, l’utilizzo di contenitori in vetro o acciaio inossidabile, l’eliminazione del riscaldamento di cibi in plastica e il passaggio dall’acqua in bottiglia di plastica a quella del rubinetto. I ricercatori hanno suggerito che queste misure potrebbero ridurre l’ingestione annuale da decine a poche migliaia di microparticelle.

E sarebbero ancora poche le prove sull’effettiva rimozione delle microplastiche dall’organismo una volta ingerite. Uno studio condotto su 20 individui ha misurato la presenza di Bpa – un composto chimico utilizzato nella produzione di plastica che viene rilasciato quando la plastica si degrada – nel sangue, nel sudore e nelle urine. Lo studio ha mostrato che il sudore potrebbe facilitare l’escrezione di Bpa e altri composti derivati dalla plastica, ma saranno necessarie ulteriori prove per determinare se queste strategie sono effettivamente efficaci nell’eliminare le microplastiche dal corpo. Questo ultimo aspetto è legato a uno dei dati più promettenti ottenuti finora dalla ricerca, cioè la mancanza di correlazione tra età e accumulo di microplastiche: ciò vorrebbe dire che, nonostante la continua esposizione ambientale, l’organismo dispone di meccanismi per eliminare queste particelle nel tempo.




Bibliografia

1. Fabiano N, Luu B, Puder D. Human microplastic removal: what does the evidence tell us? Brain Medicine 2025; published online on 04 Mar.

2. Nihart A, Garcia MA, El Hayek E, et al. Bioaccumulation of microplastics in decedent human brains. Nat Med 2025; 31: 1114-9.

3. Ali N, Katsouli J, Marczylo EL, et al. The potential impacts of micro-and-nano plastics on various organ systems in humans. EBioMedicine 2024; 99: 104901.

4. Yan Z, Liu Y, Zhang T, et al. Analysis of microplastics in Human feces reveals a correlation between fecal microplastics and inflammatory bowel disease status. Environ Sci Technol 2022; 56: 414-21.

5. Mewman T. Microplastics in the brain: how can we avoid exposure? Medical News Today 2025; 12 marzo.

Andrea Calignano

In collaborazione con InMedicina

Inquinamento atmosferico e patologie neurodegenerative: nuove evidenze da due studi italiani

L’inquinamento atmosferico rappresenta una crescente minaccia per la salute globale, con evidenze sempre più consistenti che lo collegano non solo alle patologie respiratorie e cardiovascolari, ma anche a quelle neurodegenerative.

Di recente sono stati pubblicati due nuovi studi italiani che hanno esplorato questa relazione. Il primo studio, coordinato dall’Irccs Neuromed di Pozzilli e pubblicato su npj Parkinson’s Disease, ha indagato il legame tra l’esposizione al particolato fine (PM10) e il rischio di sviluppare la malattia di Parkinson1. Utilizzando i dati del progetto epidemiologico Moli-sani, che ha seguito per 20 anni circa 25.000 adulti residenti in Molise, i ricercatori hanno ricostruito l’esposizione individuale al PM10 attraverso modelli geostatistici basati sui dati dell’ARPA Molise e l’hanno incrociata con l’incidenza di Parkinson.

Il secondo studio, pubblicato sull’International Journal of Hygiene and Environmental Health, si è invece concentrato sulla Valle del Sacco, nel Lazio: un Sito di INTERESSE NAZIONALE (SIN) caratterizzato da un’elevata concentrazione di inquinanti atmosferici2. Il Dipartimento di epidemiologia del Sistema Sanitario della Regione Lazio – Asl Roma 1 ha condotto una coorte retrospettiva su quasi 300.000 residenti di età superiore ai 40 anni, analizzando l’associazione tra l’esposizione a vari inquinanti (PM10, PM2.5, biossido di azoto, benzene, ozono, biossido di zolfo) e l’incidenza di demenza e Parkinson. L’esposizione è stata stimata con modelli ambientali ad alta precisione e i casi di malattie neurodegenerative sono stati identificati tramite dati sanitari regionali.

I risultati di entrambi gli studi convergono nell’identificare un’associazione tra inquinamento atmosferico e malattie neurodegenerative. In particolare, entrambi evidenziano il ruolo del particolato, sebbene con alcune sfumature: lo studio Moli-sani si concentra sul PM10 e il Parkinson, mentre lo studio della Valle del Sacco associa il PM2.5 sia al Parkinson sia alla demenza, con un’associazione più marcata tra demenza e benzene, biossido di azoto e particolato fine.

In entrambi i casi i ricercatori fanno anche riferimento a possibili meccanismi biologici che potrebbero mediare la relazione tra inquinamento atmosferico e neurodegenerazione. Nello studio condotto sui dati del progetto Moli-sani si evidenzia il ruolo potenziale della lipoproteina(a) come mediatore tra l’esposizione al PM10 e il rischio di Parkinson, suggerendo un legame con il rischio cardiovascolare e il trasporto del colesterolo.

Gli autori dello studio sulla Valle del Sacco, invece, richiamano un corpus crescente di evidenze biologiche che indicano come l’infiammazione sistemica cronica, lo stress ossidativo, l’aumentata permeabilità della barriera emato-encefalica e i danni al Dna possano essere indotti dall’esposizione prolungata agli inquinanti, contribuendo al declino cognitivo e alla neurodegenerazione.

I due studi, nel loro insieme, rafforzano l’evidenza che l’inquinamento atmosferico rappresenta un fattore di rischio significativo per le malattie neurodegenerative. Questo ha importanti implicazioni per la salute pubblica, sottolineando l’urgenza di politiche ambientali volte a ridurre l’esposizione della popolazione a inquinanti neurotossici.

La ricerca futura dovrebbe concentrarsi sull’approfondimento dei meccanismi biologici alla base di questa associazione, sull’identificazione di biomarcatori precoci di danno neurologico da inquinamento e sullo sviluppo di strategie di prevenzione e intervento mirate a proteggere le popolazioni più vulnerabili.




Bibliografia

1. Gialluisi A, Costanzo S, De Bartolo MI, et al. Prominent role of PM10 in the link between air pollution and incident Parkinson’s Disease. Npj Parkinson’s Dis 2025; 11: 101.

2. Trentalange A, Badaloni C, Porta D, et al. Association between air quality and neurodegenerative diseases in River Sacco Valley: A retrospective cohort study in Latium, central Italy. Int J Hyg Environ Health 2025; 267: 114578.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con NeuroInfo

Mortalità nell’Hcc? Strettamente correlata alle disparità socioeconomiche

Il rischio di morire per carcinoma epatocellulare (Hcc) è circa il 30% più alto per i pazienti con un reddito familiare basso rispetto a quelli con un reddito familiare medio o alto. Lo dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Lancet Regional Health Europe1.

I ricercatori svedesi dell’Università di Göteborg coordinati da Juan Vaz avevano già dimostrato in un lavoro precedente che l’Hcc è circa cinque volte più comune in chi ha un reddito familiare basso rispetto a chi ha un reddito familiare alto. Lo scopo di questo nuovo studio era esaminare come la diagnosi, il trattamento e la sopravvivenza siano influenzati dal reddito, dall’istruzione, dall’etnia e da altri fattori sociodemografici.

Dallo studio è emerso che i pazienti con un basso reddito familiare hanno molte meno probabilità di ricevere una diagnosi precoce di Hcc e di ricevere un trattamento curativo. Il basso reddito familiare è anche legato a un tasso di mortalità del 29% superiore rispetto al reddito familiare medio o alto. «Lo studio mostra chiaramente che le differenze socioeconomiche sono fortemente legate a esiti sanitari meno favorevoli a tutti i livelli di assistenza per i pazienti con Hcc in Svezia. I risultati sottolineano la necessità di ulteriori sforzi per garantire che l’assistenza sia davvero equa e accessibile a tutti, indipendentemente dal background socioeconomico», afferma Juan Vaz, coordinatore del team, ricercatore in medicina di comunità e salute pubblica presso la Sahlgrenska Academy dell’Università di Göteborg e medico specialista presso l’Halland Hospital di Halmstad.

Sono stati presi in esame tutti i pazienti adulti con Hcc inclusi nel Registro nazionale svedese del fegato (SweLiv) tra il 2011 e il 2021, per un totale di 5.490 pazienti. I dati socioeconomici sono stati recuperati da altri registri sanitari nazionali e da database demografici. Tra i 5490 pazienti, è stata riscontrata un’associazione significativa tra il basso reddito familiare e la diminuzione della probabilità di diagnosi durante la sorveglianza (odds ratio aggiustato [aOR] 0-63; intervallo di confidenza [CI] al 95%: 0-50-0-80), di diagnosi in fase precoce (aOR 0-58; CI al 95%: 0-51-0-67) e di ricevere un trattamento curativo (aOR 0-65; CI al 95%: 0-50-0-85). Dopo aggiustamenti per tutte le variabili della BCLC, altre variabili sociodemografiche, comorbilità e stato di cirrosi, i pazienti con basso reddito familiare avevano un hazard ratio aggiustato per la mortalità di 1-29 (95% CI: 1-15-1-45) rispetto ai pazienti con alto reddito familiare.

Le disparità socioeconomiche si associano in modo marcato a uno stadio più avanzato al momento della diagnosi di Hcc, a un trattamento meno efficace e a una sopravvivenza minore. Affrontare queste disparità attraverso interventi mirati di sanità pubblica può migliorare le cure e gli esiti dell’Hcc nelle popolazioni socioeconomicamente svantaggiate.




Bibliografia

3. Vaz J, Hagström H, Eilard MS, Rizell M, Strömberg U. Socioeconomic inequalities in diagnostics, care and survival outcomes for hepatocellular carcinoma in Sweden: a nationwide cohort study. Lancet Reg Health Eur 2025; 52: 101273.

David Frati

In collaborazione con OncoInfo

Partire dai dati per trasformare il fenomeno della violenza contro le donne

“La violenza si propaga attraverso ‘mappe sociali’ e la condivisione è fondamentale per costruire consapevolezza collettiva. Parlare diventa un atto politico, un modo per costruire nuove trame concettuali e interrogarsi sul presente”. Inizia così l’intervento di Pietro Demurtas, ricercatore Cnr-Irpps, che apre il convegno “Ricerca e intervento contro la violenza di genere: pratiche e relazioni per il cambiamento”, che si è tenuto il 15 aprile presso il Consiglio nazionale delle ricerche a Roma.

L’incontro è stato organizzato con il Gender Equality Officer e dedicato a Maura Misiti, ricercatrice dell’Irpps impegnata sui temi dello sviluppo della società dell’informazione e della giustizia di genere. Nel pomeriggio, una sala dell’Irpps è stata intitolata alla sua memoria. All’evento hanno partecipato studiosi e studiose dei temi legati alla violenza di genere e al concetto stesso di genere, tra cui Pietro Demurtas, Antonella Veltri, Giusi Muratore, Franca Bimbi, Simona Lanzon, Oria Gargano, Patrizia Farina e Alberta Basaglia.

Uno dei primi argomenti affrontati è stato il tema della percezione della violenza di genere. Alla luce dei recenti femminicidi, che hanno coinvolto giovani donne in Sicilia e a Roma, è apparso evidente quanto sia diventato sempre più urgente parlare apertamente di questi fenomeni. Pietro Demurtas ha definito la violenza un fenomeno sommerso che, se non viene nominato, resta invisibile.

Demurtas ha presentato gli obiettivi del Progetto VIVA, che prosegue l’eredità di Maura Misiti, impegnata nella ridefinizione critica del concetto di genere in chiave femminista. Il progetto mira a costruire una rete di ricerca, comunicazione e intervento sociale. Demurtas ha poi citato l’importanza della Convenzione di Istanbul, adottata nel 2011 dal Consiglio d’Europa, primo trattato giuridicamente vincolante contro la violenza sulle donne e che riconosce la violenza di genere come violazione sistemica dei diritti umani. Oggi, 46 dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa l’hanno firmata, ma non tutti l’hanno ratificata. L’Unione europea ha concluso il suo processo di adesione nel 2023, ma resta emblematico il caso della Turchia, prima a firmare e ratificare, e poi a ritiratasi dalla Convenzione nel 2021.

Demurtas ha poi evidenziato tre pilastri per un’azione efficace delle istituzioni: formazione continua, approccio partecipato nella ricerca e trasparenza, in particolare nella condivisione dei dati, aspetto questo purtroppo spesso carente nell’ambito della ricerca.

Sul valore dei dati è intervenuta Giusi Muratore (Istat), sottolineando l’importanza di fare rete tra istituzioni e promuovere un’alleanza tra protezione e sostegno. I dati, ha ricordato, rendono visibile ciò che tende a restare sommerso: già nel 2006 oltre 7 milioni di donne in Italia avevano subito violenza. Nello stesso anno è stato attivato il numero 1522 e si è sviluppata una rete nazionale antiviolenza. Ma i dati non bastano: è attraverso le parole delle donne che si rompe il silenzio e si combattono gli stereotipi. Parlare è un atto politico. I centri antiviolenza non solo offrono supporto, ma costruiscono interpretazioni culturali e politiche del fenomeno. Le ricerche integrano esperienze e territori, mostrano la complessità del fenomeno della violenza. Contare significa riconoscere, e nominare significa trasformare.

Un intervento di rilievo è stato quello di Franca Bimbi, ex docente di sociologia all’Università di Padova. Ha proposto che la ricerca futura si focalizzi sulle violenze interpersonali e quotidiane, ma anche sui contesti di guerra, come quelli del 7 ottobre o dell’Ucraina, per comprendere meglio il vissuto delle donne e dei bambini. Ha criticato approcci che non sempre riflettono l’esperienza reale delle vittime, sollevando la necessità di ripensare il linguaggio usato per parlare di violenza, in particolare nei contesti istituzionali e accademici.




Bimbi ha anche richiamato esperienze formative come il progetto Urban, sottolineando la necessità di una conoscenza dal basso. Ha poi messo in guardia dal rischio di ridurre la narrazione della violenza alla sola dimensione della vittimizzazione femminile e ha analizzato il cosiddetto “paradosso nordico”, secondo cui nei paesi più avanzati in termini di parità di genere le donne sembrano più esposte alla violenza.

Infine, ha sottolineato quanto le percezioni della violenza siano legate alle norme sociali e alla violenza simbolica interiorizzata, che continua a plasmare le relazioni. Ha criticato la preminenza dell’approccio biografico nella narrazione pubblica e ha posto domande sulla rappresentazione di libertà ed erotismo nelle società contemporanee, spesso ridotte a forme di consumo.

In conclusione, l’incontro ha ribadito la necessità di unire ricerca, attivismo e istituzioni per affrontare la violenza di genere in modo sistemico. La violenza è un fenomeno strutturale, non episodico, e richiede un cambiamento nelle politiche e nella cultura quotidiana. Le parole e il lavoro di Maura Misiti ricordano che studiare e parlare di violenza è il primo passo verso una rete di solidarietà e una società fondata sul rispetto e sull’uguaglianza.




In un mondo segnato da sfide globali, partire da dati, esperienze e ricerca condivisa è fondamentale per trasformare la cultura della violenza in una cultura del rispetto.

Clotilde Manno

In collaborazione con Careonline

FaceAge: il volto come biomarcatore di età biologica nei pazienti oncologici

Il gruppo di ricerca dell’Artificial Intelligence in Medicine Program (Mass General Brigham, Harvard Medical School, Boston, MA, Usa) ha sviluppato e validato FaceAge, un sistema basato su deep learning in grado di stimare l’età biologica partendo da fotografie del volto. Lo studio, pubblicato su The Lancet Digital Health, si è concentrato sulla valutazione della rilevanza clinica di questo strumento nei pazienti oncologici, con l’obiettivo di migliorare la prognosi e supportare il processo decisionale, in particolare nei contesti palliativi1.




Il modello è stato addestrato su un set di 56.304 immagini di individui sani di età ≥60 anni, provenienti dal database IMDb–Wiki, e validato tecnicamente su 2.547 immagini del dataset UTKFace. L’analisi clinica è stata condotta su 6.196 pazienti con diagnosi oncologica, appartenenti a tre coorti distinte (MAASTRO, Harvard Thoracic e Harvard Palliative), e confrontata con un gruppo di controllo di 535 soggetti non oncologici.

L’algoritmo ha mostrato una differenza media di 4,79 anni tra l’età stimata e quella anagrafica nei pazienti oncologici, indicando un’apparenza mediamente più anziana rispetto alla popolazione di riferimento (p<0,0001). Questo divario si è confermato trasversalmente nei diversi tipi di tumore.

Nella coorte MAASTRO (n=4906), l’aumento di una decade nella FaceAge era associato a un incremento significativo del rischio di morte (HR 1,151; p=0,013), dopo aggiustamento per età, sesso e sede tumorale. Risultati analoghi sono stati osservati nella coorte con tumori toracici (HR 1,15; p=0,011) e in quella palliativa (HR 1,12; p=0,021), con un contributo prognostico indipendente da quello dell’età cronologica.

FaceAge è stato inoltre incorporato nel modello TEACHH per la previsione della sopravvivenza a 6 mesi nei pazienti metastatici in fase avanzata. La sostituzione dell’età anagrafica con FaceAge ha migliorato le performance predittive del modello (AUC 0,80 vs 0,74; p<0,0001). L’algoritmo si è rivelato anche un utile supporto per i medici nella stima della prognosi, riducendo la variabilità tra valutatori e migliorando l’accuratezza predittiva in un esperimento condotto su 100 pazienti.

Infine, l’analisi genomica ha evidenziato una correlazione significativa tra FaceAge e l’espressione del gene CDK6, coinvolto nei meccanismi di senescenza cellulare, rafforzando l’ipotesi di FaceAge come possibile biomarcatore dell’invecchiamento biologico, indipendentemente dall’età cronologica.

L’integrazione di FaceAge nei percorsi clinici potrebbe contribuire a una più precisa stratificazione prognostica e a decisioni terapeutiche più personalizzate, in particolare nei pazienti fragili o in fase terminale. Gli autori raccomandano ulteriori validazioni in coorti più ampie e diversificate prima di una piena implementazione clinica.

Bibliografia

1. Bontempi D, Zalay O, Bitterman DS, et al. FaceAge, a deep learning system to estimate biological age from face photographs to improve prognostication: a model development and validation study. Lancet Digit Health 2025: 100870.

L’Italia si astiene sull’Accordo Pandemico dell’Oms:
una scelta che preoccupa la comunità scientifica

Il 20 maggio 2025, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha adottato un accordo storico per rafforzare la preparazione e la risposta globale alle future pandemie. Il documento, frutto di oltre tre anni di negoziati, è stato approvato con 124 voti favorevoli e nessun contrario. Tuttavia, 11 Paesi, tra cui l’Italia, si sono astenuti.

L’accordo mira a colmare le lacune evidenziate durante la pandemia di Covid-19, promuovendo una cooperazione internazionale più equa e tempestiva. Tra le misure previste vi è l’istituzione del sistema Pabs (pathogen access and benefit sharing), che garantisce la condivisione di dati genetici e l’accesso equo a vaccini e terapie.

Nonostante l’accordo riaffermi esplicitamente la sovranità degli Stati nella gestione della salute pubblica, il Ministro della Salute italiano, Orazio Schillaci, ha motivato l’astensione con la necessità di tutelare la sovranità nazionale. Una posizione che ha suscitato perplessità, considerando che l’accordo non impone obblighi vincolanti, ma promuove principi di cooperazione e solidarietà.

La scelta dell’Italia è stata accolta con preoccupazione dalla comunità scientifica. In un momento in cui la comunità globale cerca di rafforzare le proprie difese contro future pandemie, l’astensione dell’Italia rischia di isolarla e di compromettere la nostra credibilità nel contesto internazionale. È fondamentale che il nostro Paese riconsideri la sua posizione, partecipando attivamente alla definizione e all’attuazione di strategie globali per la salute pubblica.

Per i professionisti sanitari e i ricercatori, l’adesione a iniziative come l’Accordo Pandemico dell’Oms rappresenta un passo cruciale verso una risposta più coordinata ed efficace alle crisi sanitarie globali. L’Italia ha l’opportunità di contribuire significativamente a questo sforzo collettivo, mettendo a frutto le competenze e le risorse del suo sistema sanitario e della sua comunità scientifica.

In collaborazione con
Associazione Alessandro Liberati
Cochrane affiliate centre