Ritratto di Peter Kurotschka




Lavoro e formazione professionale

quali persone hanno più influenzato il suo modo di fare il medico e il ricercatore?

Le persone in effetti sono molte. Ne nomino anzitutto tre, che sono quelle che mi hanno consentito di acquisire non tanto le competenze tecniche mediche o scientifiche, quanto quelle più generali e umane, che sono quelle che mi hanno permesso di fare sia il medico sia il ricercatore.

La prima è Vanna Gessa-Kurotschka, mia madre, scomparsa quando ancora ero un ragazzo. Faceva la filosofa morale e si è occupata a lungo di consulenza filosofica, del rapporto tra neuroscienze e saperi umani e di bioetica. Mi ha insegnato, con i fatti più che con le parole, due cose fondamentali. La prima è la necessità di considerare la complessità dell’essere umano. Non possiamo ridurci a molecole, cellule o organi, mente o corpo. Siamo tutte queste cose insieme. Anche le nostre identità sono complesse: possiamo essere allo stesso tempo dei professionisti, dei pittori, degli amanti del calcio, possiamo essere cristiani, appassionati di cucina, eterosessuali, femministi, un po’ razzisti, e magari ci piace andare a cantare al karaoke e crediamo, contro ogni evidenza scientifica, che i vaccini siano dannosi. Da questa consapevolezza della complessità penso di aver imparato ad ascoltare senza giudicare e a prendermi cura, quindi, della persona in quanto tale, non solo dei suoi “pezzi” eventualmente malati. La seconda cosa che ho imparato da lei è stata quella di perseverare. La perseveranza è importante nella consultazione medico-paziente: prima di essere giunti a comprendere cosa ci sta dicendo la persona e ad avere condiviso un percorso terapeutico, non ci è consentito mollare l’osso. La comprensione della complessità, da una parte, e la perseveranza, dall’altra, mi hanno anche aiutato a fare il ricercatore: in questo mestiere i progetti vanno pensati, strutturati ed eseguiti. Tra l’inizio e la fine di un progetto spesso intercorrono anni. Nel processo è molto importante mantenere una visione organica, complessa, di un problema clinico-scientifico ma è importante anche perseverare, cercare di non mollare mai l’osso per l’appunto, tenere d’occhio i dettagli, tra cui i tempi, specie se si hanno ruoli di coordinamento sul campo.

La seconda persona è Lorena Preta, una psicoanalista. Io volevo fare lo psicoanalista quando studiavo medicina. Non l’ho fatto poi ma l’analisi personale è stata molto importante anche a livello professionale, perché mi ha consentito di aumentare di molto la mia disponibilità all’ascolto e di presa in carico della complessità.

La terza persona è Giuseppe Parisi, ho letto un suo libro per caso nel 2018 (“Clinica, relazione, decisione”) scoprendo un filone di studi che si occupa della consultazione medica in cure primarie e che è lui l’esperto in Italia. Gli scrissi e da allora è nato un rapporto di amicizia e collaborazione scientifica profondo e proficuo.

Devo qui però nominare anche i miei due mentori: Ildikó Gágyor e Mark Ebell, che sono stati molto importanti nella mia formazione tecnica da ricercatore.

Come cambierà la Medicina nei prossimi anni? O, meglio: qual è il cambiamento (o i cambiamenti) più radicale che si attende?

Penso che il cambiamento maggiore si stia già avvertendo nei rapporti economici e purtroppo è un cambiamento in negativo. La forbice tra ricchi e poveri si sta allargando sempre di più e c’è già oggi chi, dopo una relativamente breve parentesi di un sistema sanitario universalistico, si può permettere cure di qualità e chi no. Sono molto preoccupato del fatto che la salute sia sempre più un affare privato. C’è chi si può permettere le buone cure, perché istruito e perché ha i mezzi economici. Ma per quanto tempo? E gli altri? L’aumento delle diseguaglianze di salute mi preoccupa molto.

Si parla molto di intelligenza artificiale: quali sono le sue aspettative? E le sue preoccupazioni?

Penso che l’intelligenza artificiale sia un possibile potenziamento dell’umanità ma che vada usata con cautela, come qualunque altra innovazione. Ad esempio: chi, da medico, firmerebbe mai un referto di una Tac senza aver fatto una specializzazione in radiologia? Potenzialmente l’intelligenza artificiale può essere un alleato del medico e del rapporto medico-paziente. Anche del ricercatore. Nessuno di questi strumenti però può essere usato acriticamente, sono note le “allucinazioni” che i modelli di intelligenza artificiale possono avere. Non mi preoccupa l’intelligenza artificiale di per sé, mi preoccupa di più chi la utilizza oggi. Numerosi studi mettono in evidenza quanto sia importate la “AI literacy”, l’acculturamento all’intelligenza artificiale. Quanti medici, oggi, vengono formati ad un utilizzo consapevole di questi modelli? L’offerta formativa in merito è molto carente.

Lettura, scrittura, aggiornamento

Quale forma di aggiornamento le sembra più utile? (Leggere le riviste scientifiche? Andare ai congressi? Riceve newsletter di riviste generaliste come NEJM, Lancet o BMJ o di riviste specialistiche? Qual è la sua rivista scientifica preferita?)

Esistono strumenti, detti bedside, molto validi che supportano il medico nella decisione clinica. Tra questi, BMJ Best Practice e CKS (Clinical Knowledge Summaries) di NICE, quest’ultimo studiato apposta per le cure primarie, offrono risorse sintetiche, aggiornate e affidabili su diagnosi, trattamento e follow-up.

Un altro strumento utile sono le revisioni sistematiche della Cochrane, che nella maggior parte dei casi forniscono evidenze di elevata qualità, orientate al paziente e direttamente applicabili alla pratica quotidiana. La loro forza sta nella metodologia rigorosa e nella sintesi critica di studi primari, che permette al clinico di accedere rapidamente a informazioni affidabili.

Diverso è il ruolo delle riviste scientifiche, che restano fondamentali per chi fa ricerca, ma meno fruibili nel quotidiano da parte dei medici. Leggere articoli originali, valutarne la qualità metodologica e comprendere se e come applicarne i risultati richiede tempo, competenze specifiche e una distanza dal ritmo serrato dell’ambulatorio. Il clinico ha invece bisogno di potersi fidare di linee guida e sintesi di evidenze che facciano da filtro tra la ricerca e la pratica.

Purtroppo, in Italia, le linee guida e le sintesi di evidenze rivolte in modo specifico ai medici di medicina generale sono ancora pochissime e frammentarie. Spesso l’aggiornamento scientifico è affidato a congressi o eventi finanziati, direttamente o indirettamente, dalle case farmaceutiche, perché i finanziamenti pubblici alla formazione continua in medicina sono scarsi e non omogenei. Anche l’offerta a pagamento di aggiornamenti indipendenti è molto limitata. Sarebbe importante che istituzioni pubbliche, come l’Istituto Superiore di Sanità, che ha un centro nazionale apposito per la redazione di linee guida, ricevessero risorse adeguate a colmare questo vuoto e coordinare la redazione di più linee guida.

In questo panorama, trovo che i POEMs (Patient Oriented Evidence that Matters) rappresentino uno strumento utile e concreto per aggiornarsi. Dal 1995, un gruppo di medici di medicina generale statunitensi invia ai propri colleghi una newsletter quotidiana con una breve sintesi di uno studio clinico rilevante per la pratica, ben condotto e con esiti clinici rilevanti per i pazienti. Dal 2023, insieme ad alcune colleghe e colleghi, curo per la rivista Recenti Progressi in Medicina la rubrica italiana dei POEMs, dove ogni mese selezioniamo e pubblichiamo quattro o cinque studi tra quelli più significativi per il contesto della medicina generale italiana.

Che tipo di “informazione scientifica preferisce?

Dipende dallo scopo che ci si prefigge. Se lo scopo è quello di informare delle novità in campo medico-scientifico, gli articoli brevi sono i più utili per i clinici. Non necessariamente devono avere un’ampia bibliografia, la loro missione è quella di guidare il clinico a trarre quelle informazioni dagli studi, tra i tantissimi pubblicati, che siano le più rilevanti e utili. Se, invece, lo scopo è quello di fare una revisione della letteratura esistente, è evidente che più questa revisione è sistematica e meglio è. In questo caso gli articoli devono essere più lunghi e spiegare bene la metodologia che hanno adoperato, per permettere, a chi li legge, di giudicare se fidarsi o meno delle informazioni che riportano. Anche in questo caso, però, l’articolo deve essere facilmente accessibile e gli autori devono sforzarsi di comunicarne i risultati in maniera tale da essere compresi rapidamente.

Come potrebbe cambiare in meglio la letteratura scientifica?

Parlo dell’ambito medico, che è quello che conosco, ma sospetto che in altre discipline la situazione non sia molto diversa. Negli ultimi decenni, c’è stato un aumento esponenziale sia del numero di articoli pubblicati sia del numero delle riviste scientifiche: su PubMed, la principale banca dati bibliografica usata nel mio ambito, vengono indicizzati annualmente oltre 1,5 milioni di articoli scientifici pubblicati in circa 30.000 riviste. Ricerche bibliometriche confermano ciò che, in fondo, ogni ricercatore sa: attualmente si pubblica semplicemente troppo. La causa del fenomeno è nota. Le carriere dei ricercatori, come anche i finanziamenti che ricevono, dipendono in larga misura dalla quantità di manoscritti pubblicati da ciascun ricercatore e dalle citazioni che ciascuna pubblicazione riceve. Questo alimenta una pressione a pubblicare, nella migliore delle ipotesi, risultati parziali che poco aggiungono alle conoscenze o che non hanno impatto sulla pratica clinica. A questo si aggiungono le strategie di marketing aggressive delle grandi case editrici, che alimentano il circolo vizioso offrendo sempre nuovi spazi di pubblicazione, spesso a pagamento, a fronte di un sempre minore controllo della qualità dei manoscritti.

La soluzione è, in teoria, semplice: sganciare le carriere dei ricercatori e i finanziamenti alla ricerca da indici bibliometrici quantitativi che quasi nulla ci dicono del valore di un ricercatore.

Se il suo lavoro prevede di prendere decisioni cliniche, le sono utili – e usa – strumenti come Dynamed o UpToDate?

Dal 2022 faccio prevalentemente il ricercatore ma fino ad allora principalmente consultavo ­cks.nice.org.uk, che è uno strumento molto utile per chiunque operi nelle cure primarie. Il nostro compito principale, per noi intendo i medici di medicina generale, è quello di scovare, tra le tante cronicità come il diabete o la pressione alta, o i tanti disturbi “minori”, come le infezioni delle vie respiratorie e le cistiti, la bandiera rossa, la red flag, come dicono gli inglesi. In altre parole, tra i cavalli – come l’influenza se il paziente ha la tosse, o l’ansia se il paziente ha dolore addominale – si nasconde una zebra, ovvero la malattia più grave (il tumore o altro)? Quale è il rischio che il quadro clinico peggiori e diventi pericoloso? Strumenti come cks.nice.org.uk sono formidabili in questo ma ne esistono altri, come ad esempio BMJ best practiceo Essential Evidence Plus. Non sono a conoscenza di strumenti simili in lingua italiana.

Le capita ancora di sfogliare l’edizione cartacea di una rivista o consulta la letteratura solo su internet?

Sono di una generazione che non ha mai conosciuto la rivista scientifica cartacea come strumento di aggiornamento o studio. L’unica rivista cartacea che leggo è Recenti Progressi in Medicina, perché la ricevo a casa. Temo che il cartaceo delle riviste scientifiche ormai abbia le ore contate, le grosse banche dati, come PubMed, sono accessibili online e gli articoli possono essere consultati in tempo reale. Penso che questa sia stata una evoluzione positiva.

Legge articoli scientifici sullo smartphone?

Solo gli abstract, leggere interi articoli scientifici è complicato sullo smartphone, preferisco il computer.

Accettare consigli da colleghi è utile o rischioso?

Non è rischioso né solo utile. Penso che sia importante. Ho imparato molto da colleghi più anziani di me e, in generale, penso che siano i colleghi più anziani quelli deputati a insegnare il mestiere ai più giovani, quando sono disponibili a farlo. Sarà poi cura di chi ascolta i consigli o vede operare i colleghi di farne tesoro criticamente, consultando parallelamente linee guida di alta qualità, quando disponibili.

La medicina basata sulle evidenze è ancora attuale?
Cosa rende difficile che l’Ebm sia alla base della didattica nelle facoltà di medicina?

Il vero problema non è che la Ebm sia in crisi a mio avviso. La Ebm è viva e gli studenti di oggi ci “credono” di più di quelli di dieci o vent’anni fa (la mia generazione). Certo, ci sono criticità in questo ambito: è sempre più difficile orientarsi tra i milioni di articoli pubblicati ogni anno, anche considerando che molti sono di qualità discutibile.

È positivo che nelle università princìpi di Ebm vengano insegnati precocemente. Vedo in questo due problemi però.

In primo luogo, la Ebm viene spesso insegnata da chi non deve davvero prendere decisioni cliniche ma da chi le racconta, ovvero dagli epidemiologi e dagli statistici. La conseguenza è che i ragazzi che studiano medicina devono seguire corsi in cui si tenta di insegnare loro a distinguere tra vari disegni di studio o ad applicare strumenti di critical appraisal. Per contro, ciò che andrebbe imparato precocemente è il ragionamento clinico basato sulle evidenze, che è il vero nucleo centrale della Ebm: come applico le evidenze disponibili al caso clinico concreto, al paziente che ho davanti, tenendo conto delle sue preferenze, dei suoi valori e del suo contesto sociale, familiare e culturale? Questo talvolta non avviene, anche perché a insegnare la disciplina sono spesso soltanto i “teorici”, mentre manca il contributo di quei clinici che si occupano di malattie frequenti e comprensibili da tutti, ovvero dei medici di medicina generale. Questo è vero soprattutto in Italia, a causa della mancata accademizzazione della medicina generale, già avvenuta da decenni in pressocché tutti i paesi ad alto reddito e in molti paesi a medio-basso reddito. Un esempio della centralità, per la Ebm, delle cure primarie lo abbiamo all’Università di Oxford, dove il prestigioso Centre for Evidence-Based Medicine è parte dello storico Nuffield Department for Primary Healthcare, non il contrario. In Italia siamo oltre mezzo secolo indietro su questo.

Il secondo problema che vedo è che ancora oggi un ostacolo alla evidence-based medicine è la eminence-based medicine. All’università e durante la specializzazione gli studenti e i medici in formazione talvolta imparano a prendere decisioni cliniche non basandosi sulle evidenze ma basandosi solo o principalmente sull’esperienza clinica del professore, del diretto superiore o del centro clinico in cui operano. Quando questo accade, il problema è principalmente culturale di chi ha responsabilità didattiche e cliniche.

Come definirebbe un “esperto” in campo medico?

L’“esperto”, in ambito medico generale, è chi sa coniugare le migliori evidenze scientifiche con la propria esperienza clinica per prendere, insieme al paziente, le migliori decisioni cliniche, tenendo in considerazione il contesto familiare, sociale e culturale in cui opera. Essere “esperti” significa anche avere il senso del limite, disciplinare e contestuale: l’esperto deve saper riconoscere quando interpellare esperti di altri ambiti o quando il contesto di cura in cui opera, ad esempio quello ambulatoriale, non è quello più adeguato al problema clinico del paziente.

L’“esperto ricercatore” invece, nel mio ambito, è chi sa coniugare il rigore metodologico con un certo pragmatismo. L’esperto sa innanzitutto individuare una domanda di ricerca a cui vale la pena rispondere e sa tradurla in un disegno di studio rigoroso ma fattibile nella pratica clinica quotidiana. L’aspetto della fattibilità sul campo va sempre tenuto in considerazione, soprattutto nella ricerca no-profit che non riceve finanziamenti dall’industria farmaceutica, che è quella che preferiamo fare in medicina generale.

Passione e tempo libero

In cucina preferisce stare ai fornelli o a tavola? (nel primo caso, quale ricetta suggerirebbe ai nostri lettori?)

Mi piace molto mangiare del buon cibo e mi piace anche molto cucinarlo. Ho imparato a cucinare da ragazzino, quando mi piaceva stare in cucina con mia nonna la domenica e aiutarla a fare il pranzo. Lei era una ottima cuoca, è un peccato che il suo libro di ricette sia stato rubato da qualcuno. Vi do, però, la sua ricetta del girello di manzo in umido. Dopo aver fatto rosolare il girello su tutti i lati a fuoco alto in abbondante olio extravergine di oliva, aggiungere cipolla, aglio, salvia e rosmarino tritati finissimi. Fare appassire, sfumare con Vernaccia di Oristano abbondante, quando è sfumato l’alcol regolare di sale. Poi coprire e fare cuocere per diverse ore a fuoco bassissimo a coperchio chiuso aggiungendo, di tanto in tanto, brodo di manzo. A termine di cottura far riposare 30 minuti a fuoco spento e coperchio chiuso. Regolare di nuovo di sale. Tagliare a fettine sottili e servire nel proprio sugo. Accompagnare con verdure a piacere.

Ha libri sul comodino?
Qual è il suo romanzo preferito? Ricorda l’ultimo libro che ha regalato?

Di recente ho cominciato a prendermi cura degli oliveti di famiglia. Quindi ho acquistato diversi libri di olivicoltura, scoprendo che esistono anche qui pratiche basate sulle evidenze scientifiche e pratiche basate sul “si è sempre fatto così”, un po’ come in medicina. Con un po’ di stupore ho visto che, nel decidere quali tipi di lavori eseguire in campagna, si possono applicare regole simili a quelle che stanno alla base della Ebm: considerare le migliori evidenze disponibili per prendere decisioni sul caso concreto, tenendo in considerazione il contesto socioculturale e familiare.

Non ho un romanzo preferito, purtroppo negli ultimi anni mi sono preso anche poco tempo per leggerne.

L’ultimo libro regalato è un romanzo di Piervittorio Tondelli, “Camere separate”.

Usa Whatsapp anche come mezzo per comunicazione di lavoro?

No, lavorare in Germania in questo è stato istruttivo, i tedeschi sono rigidi e qui la regola è che whatsapp non si usa per lavoro. Questo è un bene, dato che la messaggistica istantanea, come suggerisce il nome, tende a obbligarci a rispondere istantaneamente. Viviamo in un mondo già troppo veloce, pieno di distrazioni. Whatsapp è una di queste. Penso che dovremmo riabituarci tutti a far trascorrere del tempo prima di rispondere o aspettarci delle risposte, quando non si tratta di questioni di vita o di morte.

Usa i social network per avere dei flash utili per il suo aggiornamento?

No. Non ho tempo per i social network, ma mi dicono che LinkedIn sia molto utilizzato anche per la divulgazione scientifica. Forse prima o poi lo sperimenterò.

Se le piace andare al cinema o vederli in tv, qual è l’ultimo film che ha visto?

L’ultimo film che ho visto è stato “La vita da grandi”, film che racconta in maniera molto sensibile la storia vera di un uomo autistico che desidera fare il cantante e di come sua sorella lo aiuti a realizzare il suo desiderio di indipendenza da una famiglia accudente ma, a tratti, opprimente.

Se dovesse scegliere un romanzo e un film che un giovane medico dovrebbe sicuramente conoscere, quali sarebbero?

Non ho in realtà consigli specifici né su romanzi né su film. Mi viene però in mente una serie tv di, mi pare, otto episodi che ho visto di recente e che in effetti consiglierei a un collega più giovane, dato che ben rappresenta la complessità dell’identità individuale e dei rapporti sociali e familiari, anche dei propri, che ogni medico dovrebbe saper cogliere per curare bene i propri pazienti: Ethos. La serie mette a confronto due mondi molto diversi. Da una parte c’è una giovane donna, la protagonista, che proviene da un ambiente tradizionale e religioso, e la sua famiglia, composta da un fratello nevrotico, da sua moglie depressa, e dai figli della coppia. Dall’altra parte c’è il medico della donna, una psichiatra ospedaliera che soffre la solitudine, e altri personaggi, legati tra di loro e provenienti da un contesto più moderno e laico: una psicoterapeuta con una storia familiare tragica, un’attrice di soap opera, un giovane uomo in crisi della ricca borghesia di Istanbul. La storia ruota attorno agli incontri tra la protagonista e la sua psichiatra: conversazioni difficili, incomprensioni, pregiudizi, fragilità comuni. Ma, a poco a poco, la terapia produce un cambiamento, non solo nella paziente, anche nel suo medico. È una bella serie tv che mette in scena la complessità dell’identità dell’individuo, l’influenza sulla sua salute dei rapporti familiari e sociali, e che guarda il rapporto medico-paziente e i rapporti tra le persone in generale con una profondità non banale.

Qual è la città italiana dove va più volentieri?

Cagliari, è la mia città di origine, dove non vivo più ma dove ritornerò.