Dalla letteratura

- Le parole dell’innovazione in sanità

Roma, 15 maggio 2025, Centro congressi Roma Eventi

Le pagine del numero estivo della rubrica “Dalla letteratura” di Recenti Progressi in Medicina sono dedicate, come ogni anno, a un rapido resoconto degli interventi dei relatori che, da punti di vista diversi, hanno approfondito il significato e le parole chiave discusse all’ottava riunione annuale “4words - Le parole dell’innovazione in sanità”. Gli argomenti dell’edizione del 2025 (4words25) sono stati: valutazione, telemedicina, one health, abitudini. Ci auguriamo così di tenere aperto il confronto e sollecitare fra i lettori la discussione sulla sanità che sta cambiando. www.forward.recentiprogressi.it




VALUTAZIONE

Robert Golub
Peer review: un processo controverso al cuore della scienza

“Tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili. Il mio corollario è che la maggior parte degli studi sono sbagliati, ma molti sono utili”.

Il contributo di Robert Golub (clinico, per 18 anni editor del JAMA) a 4words25 è un’analisi approfondita e critica del processo di revisione paritaria (peer review) nella ricerca clinica, che sottolinea in particolare la necessità di un “pensiero critico” applicato a tutte le fasi della valutazione della ricerca, dai ricercatori ai lettori.

Golub analizza il processo di peer review attraverso quattro “agenti” principali: i ricercatori/autori, i revisori paritari, gli editor/riviste e i consumatori (clinici, altri ricercatori, media e pubblico). Per ciascuno di questi agenti, esamina i ruoli, i problemi potenziali e le possibili soluzioni.

Per i ricercatori e gli autori, il ruolo è quello di scegliere domande di ricerca importanti, progettare studi solidi, eseguirli bene e produrre manoscritti completi, accurati, precisi e trasparenti. Tra i problemi potenziali, elenca studi mal progettati, scrittura scadente, metodi incompleti o poco chiari, sovrainterpretazione dei risultati, mancato utilizzo delle linee guida di reporting, “salami slicing” (pubblicazione frammentata), pubblicazioni duplicate, “ghost authorship” e conflitti di interesse. L’adesione a linee guida di reporting standard, come le linee guida SPIRIT per i protocolli di trial e le linee guida CONSORT per i trial randomizzati, potrebbe migliorare significativamente la qualità della ricerca e della sua presentazione, chiosa Golub.




I revisori paritari agiscono come consulenti esperti per gli editor, valutando l’importanza della domanda di ricerca e dei risultati, l’adeguatezza del design dello studio, l’assenza di problemi metodologici o statistici, e dichiarando ed evitando conflitti di interesse. I problemi, in questo caso, includono la mancanza di focus, i conflitti di interesse (intellettuali e finanziari), la scarsa familiarità con metodi o statistiche, i rallentamenti nel processo, i tentativi di sabotaggio o promozione di specifiche linee di ricerca, l’inconsistenza, l’“effetto Matteo” (recensioni più positive per ricercatori già affermati), i bias consapevoli e inconsci, e l’incapacità di rilevare dati falsificati o altre condotte scorrette. Le soluzioni proposte da Golub su questo fronte spaziano dalla retribuzione e riconoscimento accademico dei revisori ai programmi di formazione, dalla standardizzazione del formato di revisione tra le riviste all’evitamento di revisori suggeriti dagli autori, dall’assunzione di revisori statistici dedicati all’esplorazione di formati alternativi di revisione (single-blind, double-blind, triple-blind, open review, transparent peer review, collaborative peer review, community peer review di preprint e post-publication peer review). Sono invece forti le riserve espresse da Golub sulla community peer review di preprint e sulla post-publication peer review per i clinici, perché li espongono a ricerche non ancora sottoposte a una revisione critica.

Il ruolo degli editori e delle riviste è quello di mediatori tra autori e clinici, non di sostenitori degli autori, spiega Golub. Devono condurre la valutazione editoriale e la peer review per raggiungere una conclusione condivisa sulla probabilità che i risultati di uno studio rappresentino un’approssimazione della verità, giudicando la qualità dello studio e la sua corrispondenza con gli scopi della rivista. Devono anche verificare l’adesione al protocollo e al piano di analisi statistica, essere attenti ai segni di cattiva condotta e migliorare la presentazione dello studio. Golub si sofferma sul fatto che la maggior parte delle riviste non ha editor scientifici a tempo pieno e adeguatamente formati, e che alcuni editor mancano delle competenze metodologiche per valutare indipendentemente gli studi, affidandosi eccessivamente ai revisori. Tra i problemi citati ci sono l’introduzione di errori, la difficoltà nell’identificare i conflitti di interesse, sistemi di sottomissione macchinosi, processi lenti, decisioni editoriali soggettive e il “potere esecutivo supremo” degli editor. Ma l’intero processo di peer review, secondo Golub, si basa fondamentalmente sulla “fede”, una palese incoerenza nell’era della medicina basata sull’evidenza. La formazione degli editor e la definizione di competenze chiave possono sicuramente rappresentare fattori di miglioramento, e Golub soppesa anche l’idea radicale di eliminare del tutto la peer review pre-pubblicazione, lasciando ai ricercatori la decisione su quando il loro lavoro possa considerarsi pronto per la condivisione, esprimendo però forti dubbi su questo approccio non democratico e potenzialmente rischioso per i pazienti. L’intelligenza artificiale è vista come una potenziale soluzione futura per attività “algoritmiche” come la selezione delle riviste, il controllo qualità iniziale dei manoscritti e la selezione dei revisori, ma Golub ammette dei limiti per ora non aggirabili nella capacità dell’IA di fornire un contesto e prendere decisioni di revisione.

Infine, ai consumatori (lettori) spetta il ruolo di leggere l’articolo, decidere l’importanza dei risultati e la loro applicabilità ai pazienti, ricordando che l’informazione non è mai completa. I ricercatori devono cercare di cogliere la qualità dello studio per incorporarne i risultati nella loro futura ricerca. I media devono diffondere i risultati in modo accurato e responsabile. Il problema principale, da questo punto di vista, è, per tutti, la mancanza di formazione in progettazione di studi e nella valutazione critica, incluso chi scrive di scienza sui media che spesso si affida a comunicati stampa o a interviste agli autori. Le statistiche sono troppo complesse, c’è una dipendenza dall’autorità e una crescente sospettosità del pubblico verso gli esperti. La soluzione proposta è, ancora una volta, l’educazione. E Golub cita, in quest’ottica, un corso per studenti delle scuole superiori sull’analisi critica degli studi clinici, con l’obiettivo di estendere questa capacità alla valutazione critica delle informazioni in generale.

Golub conclude il suo contributo riaffermando tre messaggi chiave: è responsabilità ultima dei lettori apprezzare le sfumature negli articoli; l’intero processo di peer review si basa sulla fede; non esiste un consenso su cosa costituisca una “buona revisione paritaria”. La speranza è che l’analisi dei quattro agenti del processo di revisione possa aiutare a identificare i problemi, ma, quali che siano le soluzioni scelte, è certo che richiederanno estrema attenzione nella loro applicazione.

Per approfondire

Bauchner H, Fontanarosa PB, Golub RM. Editorial evaluation and peer review during a pandemic: how journals maintain standards. JAMA 2020; 324: 453-4.

Moher D, Galipeau J, Alam S, et al. Core competencies for scientific editors of biomedical journals: consensus statement. BMC Med 2017; 15: 167.

A cura di Alessio Malta

Il Pensiero Scientifico Editore




Giovanna Scroccaro
La valutazione dei farmaci, dal rischio-beneficio alla costo-efficacia

Giovanna Scroccaro, farmacista specializzata in farmacia clinica, responsabile della Direzione farmaceutico-protesica-dispositivi medici della Regione Veneto e membro della Commissione scientifica ed economica (Cse) dell’Aifa, ha offerto una disamina approfondita del complesso percorso di valutazione dei farmaci. Il suo intervento ha tracciato l’evoluzione e le criticità di un sistema multilivello che mira a bilanciare l’accesso all’innovazione terapeutica con la sostenibilità economica, delineando un panorama spesso poco comprensibile per i non addetti ai lavori ma fondamentale per garantire l’equità nell’accesso alle cure.

L’architettura del sistema di valutazione, ha ricordato Scroccaro, si articola tradizionalmente su tre livelli complementari, rappresentati da Ema, Aifa e Regioni, ciascuno con competenze specifiche ma strettamente integrate. L’Ema (l’Agenzia europea del farmaco) conduce la valutazione scientifica del farmaco che ne determina l’autorizzazione all’immissione in commercio, basandosi su sicurezza ed efficacia assolute. Successivamente, a livello nazionale, l’Aifa si occupa di definire la rimborsabilità e stabilire il prezzo attraverso complessi processi negoziali. Infine, le Regioni gestiscono gli aspetti organizzativi dell’utilizzo del farmaco e della programmazione della spesa sanitaria.

A questa architettura consolidata da tempo, si è aggiunto recentemente un quarto livello, definito dal Regolamento UE 2021/2282: il Joint clinical assessment (Jca). Operativo da gennaio 2025 solo per i farmaci oncologici e le terapie avanzate (Atmp), esteso anche ai farmaci orfani dal 2028 e obbligatorio per tutti gli altri farmaci dal 2030, il Jca fornirà una valutazione clinica congiunta dell’efficacia e della sicurezza relativa rispetto alle alternative terapeutiche esistenti.

Si tratta di un’innovazione particolarmente significativa, ha sottolineato Scroccaro, alla luce dei risultati di uno studio pubblicato sul BMJ, che ha analizzato 131 farmaci oncologici approvati dall’Ema tra il 1995 e il 20201. L’analisi di 458 valutazioni di beneficio terapeutico aggiunto effettuate da diverse agenzie internazionali, tra cui la rivista Prescrire, l’Haute Autorité de Santé francese, l’Institute for Clinical and Economic Review di Boston e la stessa Aifa, ha rivelato una realtà non sempre confortante: il 41% delle valutazioni indicava un valore terapeutico nullo o non quantificabile, percentuale che sale al 63% considerando anche i farmaci con valore terapeutico aggiunto limitato. Tale criticità risulta particolarmente frequente per i farmaci approvati tramite procedure accelerate, sollevando interrogativi fondamentali sull’opportunità di introdurre percorsi di rimborso rapido a livello nazionale senza solide garanzie di beneficio clinico, questione attualmente dibattuta in diversi contesti politici europei.

Il Jca si concentrerà su domini clinici condivisi, utilizzando un approccio PICO standardizzato (Population, Intervention, Comparator, Outcome) per garantire omogeneità valutativa a livello europeo. È importante sottolineare, ha continuato Scroccaro, che questo strumento non fornirà raccomandazioni dirette su prezzo o rimborsabilità, competenze che rimarranno saldamente nazionali, ma produrrà dossier tecnici redatti dalle aziende farmaceutiche secondo linee guida condivise. L’Aifa sta attualmente lavorando per essere completamente operativa in questo nuovo contesto, preparandosi a integrare nel proprio percorso i rapporti del Jca, che includeranno l’analisi della casistica attesa, la valutazione della presenza di bisogni medici non soddisfatti (unmet medical need) e una valutazione critica dei punti di forza e delle limitazioni delle evidenze disponibili.

Un aspetto positivo emerso dall’analisi effettuata da Scroccaro riguarda la posizione dell’Italia nel panorama europeo: nonostante le complessità del sistema, il nostro Paese è tra i più rapidi nel rendere disponibili i farmaci approvati dall’Ema, secondo solo alla Germania in termini di tempistiche di accesso. Questo dato testimonia l’efficienza relativa del sistema italiano, pur nelle sue complesse articolazioni procedurali.

La valutazione nazionale si compone dunque di tre fasi sequenziali che rappresentano il cuore del processo decisionale: la valutazione del rischio-beneficio assoluto condotta dall’Ema, la valutazione del rischio-beneficio relativo attraverso il Jca e, infine, la valutazione della costo-efficacia e dell’impatto sulla spesa sotto la responsabilità dell’Aifa. Quest’ultima fase rappresenta il momento più delicato dell’intero processo, dove considerazioni cliniche ed economiche devono trovare un equilibrio sostenibile, regolato dal “decreto prezzi” del 2019.

La Cse dell’Aifa esprime un giudizio fondamentale sul valore terapeutico aggiunto (Vta) rispetto ai farmaci già disponibili (comparatori), considerando non solo modelli teorici ma anche i vincoli finanziari reali del sistema sanitario. Il processo negoziale può concludersi negativamente se non emerge una chiara superiorità clinica e l’azienda farmaceutica non propone un prezzo competitivo rispetto alle alternative esistenti. Un aspetto cruciale è che anche in assenza di alternative terapeutiche, situazione particolarmente frequente nell’ambito delle malattie rare, le aziende devono documentare accuratamente il prezzo richiesto attraverso valutazioni economiche specifiche che tengano conto dei costi di ricerca, sviluppo e produzione.

Quando viene riconosciuto un effettivo Vta, si giustifica un premium price la cui entità rimane comunque oggetto di negoziazione. Se invece un farmaco non dimostra un Vta significativo, il prezzo dovrebbe allinearsi a quello delle alternative (parity price). Gli studi di costo-efficacia (Icer) e le analisi di impatto sul budget (Bia) rappresentano strumenti fondamentali ma non esclusivi in questo processo valutativo. L’Italia non adotta una soglia Icer vincolante rigida, ma utilizza come riferimento valori medi emersi dalla ricerca di Russo et al. pubblicata su Pharmacoeconomics, che attestano l’Icer medio post-negoziazione intorno ai 33.000 euro per QALY (Quality-Adjusted Life Years), con maggiore flessibilità per i farmaci orfani destinati alle malattie rare2. Le analisi farmacoeconomiche presentate all’Aifa sono in costante crescita, estendendosi anche a categorie di farmaci che storicamente ne erano meno interessate, come appunto i farmaci orfani.




Scroccaro ha concluso il suo intervento ribadendo un principio fondamentale che dovrebbe guidare ogni decisione in questo ambito: l’accesso equo ai farmaci deve basarsi su una valutazione integrata che non separi mai l’evidenza scientifica dalla sostenibilità economica, poiché le due dimensioni devono procedere congiuntamente. Le agenzie regolatorie, incluse quelle italiane, svolgono un ruolo cruciale nell’analizzare criticamente la struttura, i dati e le ipotesi degli studi di costo-efficacia presentati dalle aziende farmaceutiche, potendo giungere a conclusioni diverse da quelle proposte. Spesso questi studi vengono riformulati dalle agenzie stesse per migliorarne la trasparenza e la replicabilità, garantendo così una valutazione più obiettiva e confrontabile. Il confronto con le alternative terapeutiche rappresenta un elemento essenziale del processo valutativo, e, anche in loro assenza, il prezzo proposto dall’azienda farmaceutica deve essere sempre motivato e documentato. L’insieme delle informazioni su costo-efficacia, impatto sul budget e fatturato atteso viene analizzato congiuntamente per definire un prezzo equo e sostenibile per il Servizio sanitario nazionale. Tuttavia, l’adattamento dei modelli valutativi alle specificità delle malattie rare rimane una sfida metodologica aperta, che richiederà ulteriori sviluppi e raffinamenti nei prossimi anni. L’evoluzione del sistema di valutazione dei farmaci rappresenta quindi un equilibrio dinamico tra innovazione terapeutica, rigore scientifico e sostenibilità economica, elementi tutti essenziali per garantire l’accesso alle cure più efficaci per i pazienti.

Bibliografia

1. Brinkhuis F, Goettsch WG, Mantel-Teeuwisse AK, Bloem LT. Added benefit and revenues of oncology drugs approved by the European Medicines Agency between 1995 and 2020: retrospective cohort study. BMJ 2024; 384: e077391.

2. Russo P, Zanuzzi M, Carletto A, Sammarco A, Romano F, Manca A. Role of economic evaluations on pricing of medicines reimbursed by the Italian National Health Service. Pharmacoeconomics 2023; 41: 107-17.

A cura di Mara Losi

Il Pensiero Scientifico Editore

TELEMEDICINA

Patrizio Rubcich
Dalla grotta al mondo:
la trasmissione dei dati in ambienti esterni

Cosa succede quando la medicina esce dalle corsie e si spinge in luoghi dove non c’è luce, non c’è rete, non c’è supporto? È da questa domanda che prende le mosse l’intervento di Patrizio Rubcich al convegno 4words2025, nella sessione dedicata alla Telemedicina.

Medico anestesista e rianimatore presso l’Aou Sant’Andrea di Roma, Rubcich è anche vice direttore della Scuola nazionale medici speleologi del Cnsas – Corpo nazionale soccorso alpino e speleologico. Ma il suo profilo non si ferma alla medicina. È esploratore geografico, partecipa a spedizioni scientifiche in ambienti estremi – dal deserto di Atacama ai Tepui in Venezuela – e ha una lunga esperienza in scenari dove il soccorso è una sfida quotidiana, logistica ed emotiva.

Il suo intervento ruota attorno a un’idea chiave: portare la medicina dove sembra impossibile, adattandola a contesti che non possono essere trasformati, ma solo affrontati. Le grotte, in particolare, sono ambienti con caratteristiche uniche: buio assoluto, temperature basse e stabili, umidità costante, spazi stretti o al contrario vastissimi, dove l’orientamento è complesso e ogni metro percorso richiede fatica e attenzione.

Rubcich lo dice con chiarezza: “La medicina di soccorso è caratterizzata da una enorme solitudine”. Un’affermazione che vale sia dal punto di vista operativo – perché il medico spesso lavora isolato, lontano da ogni supporto – sia da quello umano. Portare soccorso in grotta significa condividere con il paziente un’esperienza estrema, fatta di attesa, dolore, adattamento. Significa restare con lui per ore, a volte giorni, finché l’uscita non diventa possibile.

Pensate a cosa può significare avere un incidente in una grotta. L’acqua – che ha scavato quelle cavità nel corso di milioni di anni – è sempre presente. Gli spazi possono essere così stretti da dover avanzare strisciando. Altre volte, invece, sono così vasti da rendere il recupero lentissimo. Il ferito spesso deve essere trasportato su una barella per tratti lunghi e complessi, in condizioni fisiche e psicologiche difficilissime. In questi casi, il tempo ha un altro ritmo, la fatica un altro peso.

Per affrontare questi contesti, Rubcich presenta ERMES – Enhanced Remote Medical System, un sistema di supporto medico pensato per funzionare anche in assenza di connessione. Basato su un’infrastruttura leggera e facilmente trasportabile, e dotato di un algoritmo di intelligenza artificiale capace di elaborare dati biometrici e ambientali, ERMES consente al medico di avere un’interfaccia decisionale anche quando non può comunicare in tempo reale. L’obiettivo è duplice: garantire continuità clinica e ridurre il senso di isolamento del professionista.

La comunicazione, in questi casi, può avvenire in modalità asincrona, sfruttando tecnologie simili a quelle usate nelle missioni spaziali o nelle esplorazioni polari. Anche quando la rete non c’è, un messaggio può essere registrato e inviato non appena il segnale torna disponibile. È un modo per restare connessi, anche nella distanza.

Ma Rubcich non si ferma alla tecnologia. La sua riflessione tocca il senso stesso della telemedicina: non uno strumento per spostare la cura lontano, ma per avvicinarla dove non arriva nessuno. Un dispositivo relazionale, prima che digitale. Un modo per proteggere la vita, e anche la fiducia, nelle condizioni più dure.




Il medico speleologo è un professionista completo: deve avere competenze cliniche, forza fisica, conoscenze tecniche, capacità di autosoccorso. Ma soprattutto deve saper assumere responsabilità in totale autonomia. È una figura lontana dalla medicina iperspecialistica e centralizzata, più vicina a una sanità di prossimità radicale, fatta di presenza, ascolto e resilienza.

In fondo, la grotta è una metafora potente. E l’esperienza di Rubcich ci ricorda che la medicina, quella vera, è quella che non si ferma nemmeno al buio.

Per approfondire

Petrucci E, Pizzi B, Scimia P, et al. Wireless and low-weight technologies: advanced medical assistance during a cave rescue: a case report. Wilderness Environ Med 2018; 29: 248-51.

Schneider TM, Bregani R, Stopar R, et al. Medical and logistical challenges of trauma care in a 12-day cave rescue: a case report. Injury 2016; 47: 280-3.

A cura di Tiziano Costantini

Dipartimento di Epidemiologia Ssr Lazio – Asl Roma 1

Claudia Dallari
Search and rescue in ambienti ostili:
l’impiego dei droni

Il cambiamento climatico sta ridefinendo i parametri operativi del soccorso alpino1, creando nuove sfide che richiedono l’implementazione di tecnologie innovative. È questa la prospettiva con cui Claudia Dallari, dirigente medico presso il reparto di rianimazione ed emergenza territoriale dell’Azienda sanitaria locale di Bologna e medica volontaria del soccorso alpino, di cui è referente sanitario regionale, ha illustrato come l’evoluzione tecnologica stia trasformando le operazioni di emergenza in ambiente montano.




Gli eventi meteorologici estremi, valanghe, alluvioni e frane, sono decisamente in aumento. Un esempio emblematico è l’evento del 3 luglio 2022 sulla Marmolada, quando il crollo di un seracco – un blocco di ghiaccio instabile – a Punta Rocca ha provocato undici morti e diversi feriti. Circa 300.000 m3 di ghiaccio e detriti hanno percorso 1,5 km a 300 km/h, travolgendo escursionisti e professionisti della montagna. L’operazione di soccorso ha evidenziato alcune criticità, soprattutto dal punto di vista comunicativo tra i vari enti coinvolti, ma ha anche rappresentato il primo impiego operativo della squadra droni del Soccorso Alpino, ha sottolineato Dallari. In questo contesto i droni si sono rivelati uno strumento molto utile soprattutto per l’individuazione dei dispersi, permettendo di diminuire il rischio per i soccorritori. A distanza di tre anni, ancora oggi, tutti i giorni un drone sorvola l’area interessata dal crollo per il monitoraggio continuo della zona.

I droni stanno rivoluzionando le operazioni di ricerca e soccorso grazie alla loro capacità di operare in tempo reale in ambienti complessi e con costi contenuti. Secondo i dati di DJI®, il maggior produttore di droni al mondo, 750 persone finora sono state salvate grazie al loro utilizzo. Le tecnologie attualmente disponibili includono termocamere ad alta risoluzione, per l’individuazione di persone in condizioni di scarsa visibilità, altoparlanti integrati, per la comunicazione diretta con l’utente e i membri della squadra di soccorso, sensori di caduta, per fornire aiuti immediati come acqua, medicinali e cibo, oltre alla possibilità di costruire mappe e modelli 3D per valutazioni precise delle aree interessate.

I vantaggi operativi sono molteplici: i droni permettono di ridurre il tempo di arrivo sul paziente2, consentono di raggiungere aree particolarmente impervie e pericolose, possono essere utilizzati in scenari diversificati come alluvioni, incendi e terremoti, oltre a permettere una grande sinergia con le diverse squadre di soccorso. L’integrazione con l’intelligenza artificiale offre inoltre software di pianificazione delle missioni che ottimizzano i voli e raccolgono dati in tempo reale. Un esempio dell’efficacia di questa tecnologia è il test condotto nella gola del Black Hawk in Alto Adige, un canyon lungo 8 km con pareti alte circa 400 m dove la copertura telefonica è assente e le operazioni con elisoccorso risultano complicate. Cosa è emerso dal test? Il confronto tra la ricerca tradizionale condotta da sei squadre a piedi e l’utilizzo del drone ha evidenziato una riduzione del 25% dei tempi di ricerca da parte del sistema automatizzato.

Un’ulteriore frontiera d’innovazione è rappresentata dal trasporto di defibrillatori3. Dallari ha riportato il caso in cui, durante una forte nevicata notturna a Stoccolma, un drone ha trasportato un defibrillatore presso un’abitazione privata, in cui si era verificato un arresto cardiaco. I soccorritori presenti hanno utilizzato il dispositivo per rianimare con successo la persona addirittura prima dell’arrivo dei mezzi di soccorso tradizionali. Sempre in tema di sperimentazioni, quella condotta sul lago di Braies ha confrontato l’efficacia del trasporto di defibrillatori tramite drone rispetto ai metodi tradizionali. Su un percorso ad anello di 4 km, i risultati hanno mostrato come l’utilizzo del drone mantenga tempi costanti indipendentemente dalla distanza, mentre i tempi di intervento tradizionali aumentano proporzionalmente alla distanza dal punto di accesso al defibrillatore.

Ma quali sono i limiti e le difficoltà, in particolare nelle aree remote, di questi strumenti? Secondo uno studio di un gruppo di ricerca tedesco2, i limiti operativi includono la necessità di velocità elevate per volare e sistemi automatizzati per l’efficacia operativa. Ma il limite più importante che è stato rilevato è l’interazione con i protocolli locali dell’aviazione civile. In Italia, ha precisato la relatrice, l’Ente nazionale di aviazione civile rappresenta l’ente di riferimento e i principali vincoli derivano dall’interazione con altri mezzi aerei.

Spostando lo sguardo verso chi “è già un po’ più avanti di noi”, prosegue Dallari, in Cina sono stati sviluppati sistemi che permettono di trasportare fino a 300 kg di peso, offrendo supporto per trattamenti come l’infusione endovenosa e la rilevazione dei parametri vitali, operando anche a temperature molto basse e ad alta quota fino a 5000 m.

L’integrazione con la telemedicina rappresenta un ulteriore elemento di innovazione. Dallari ha illustrato il progetto realizzato al soccorso pista del Cimone nel febbraio 2024, dove sono state trasmesse immagini ecografiche eseguite direttamente sulla pista da sci. Le immagini venivano inviate alla centrale operativa dove specialisti e radiologi fornivano supporto diagnostico a distanza.

Il potenziale di questi strumenti si mostra anche in contesti urbani, pensiamo all’alluvione dell’Emilia-Romagna del 2023. La relatrice, personalmente coinvolta nell’intervento, ha descritto le difficili condizioni in cui operavano, come la scarsa visibilità e le forti correnti. In questo caso, l’utilizzo preventivo di droni avrebbe potuto fornire informazioni sui potenziali pericoli e ridurre i rischi operativi.

Le prospettive future vedono l’utilizzo dei droni in nuovi scenari operativi, il miglioramento dell’autonomia, l’integrazione avanzata con sistemi di intelligenza artificiale e lo sviluppo di programmi di formazione integrata. Un segnale significativo è rappresentato dall’inserimento, nelle nuove linee guida sulla rianimazione cardiopolmonare che verranno pubblicate nel 2025, di una sezione specifica dedicata al trasporto e utilizzo di defibrillatori tramite drone. Come ha concluso Dallari, il cambiamento climatico rappresenta una realtà con cui occorre confrontarsi attraverso strategie di adattamento sia a livello di popolazione sia nell’implementazione delle tecnologie di soccorso4. L’evoluzione tecnologica offre strumenti sempre più sofisticati per affrontare le sfide operative in continua evoluzione, richiedendo un approccio integrato che combini innovazione, formazione e adattamento ai protocolli esistenti.




A cura di Giada Savini

Il Pensiero Scientifico Editore

Bibliografia

1. Roveri G, Crespi A, Eisendle F, et al. Climate change and human health in Alpine environments: an interdisciplinary impact chain approach understanding today’s risks to address tomorrow’s challenges. BMJ Glob Health 2024; 8: e014431.

2. van Veelen MJ, Vinetti G, Cappello TD, et al. Drones reduce the time to defibrillation in a highly visited non-urban area: a randomized simulation-based trial. Am J Emerg Med 2024; 86: 5-10.

3. Schierbeck S, Svensson L, Claesson A. Use of a drone-delivered automated external defibrillator in an out-of-hospital cardiac arrest. N Engl J Med 2022; 386: 1953-4.

4. van Veelen MJ, Strapazzon G. Green HEMS in mountain and remote areas: reduction of carbon footprint through drones? Scand J Trauma Resusc Emerg Med 2023; 31: 36.

ONE HEALTH

Simone Pollo
Cambiare prospettiva:
oltre l’antropocentrismo

Il concetto di One Health può andare oltre alla nozione di approccio integrato di salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi, e spingersi fino al campo della morale. Simone Pollo, docente di Filosofia morale presso la Sapienza Università di Roma e membro del National Biodiversity Future Center, ha presentato una riflessione che propone un arricchimento in questa direzione. Durante il suo intervento nella sessione dedicata a One Health, il professore ha sostenuto che questo approccio deve rappresentare un aspetto del progresso morale e dell’avanzamento della civilizzazione.

Partendo dalla definizione ufficiale dell’Organizzazione mondiale della sanità, che descrive One Health come “un approccio integrato e unificante che ambisce a bilanciare in modo sostenibile e ottimizzare la salute di persone, animali ed ecosistemi”, Pollo ha evidenziato come al centro di questa definizione vi sia il concetto di salute. È proprio questo concetto, ha spiegato il professore, che consente di sostenere la natura morale della nozione di One Health: la salute riguarda ciò che gli individui e le società ritengono buono e desiderabile rispetto alla condizione di vita di un essere umano e alle sue funzioni corporee e mentali.

I caratteri valutativo e normativo della nozione di salute assumono una dimensione morale quando si connettono a valori fondamentali per la società democratica. Quando sulla salute e sulle sue politiche si giocano questioni relative alla libertà individuale, all’uguaglianza, alla giustizia, al pluralismo e alla convivenza pacifica, ci si trova di fronte a un orizzonte morale, etico e politico in cui collocare e discutere il concetto stesso di salute.

Con Charles Darwin è nata la cornice scientifica in cui l’ecologia e la biologia evoluzionistica si pongono come premessa alla nozione e alla pratica di One Health, anche nei suoi aspetti morali. La condizione di salute di ogni organismo non è separabile dalla salute degli altri organismi dell’ambiente e da una condizione di salute globale del sistema ecologico.

Il naturalista britannico esprimeva già chiaramente alcune delle conseguenze morali della sua nuova visione del mondo. In particolare, Pollo ha riportato un brano in cui Darwin scriveva degli animali: “Quelli che abbiamo reso nostri schiavi, non ci piace considerarli nostri eguali” e concludeva affermando che “potremmo essere tutti legati in un’unica rete”. Queste parole, ha sottolineato il docente, contengono l’enunciazione del dato fondamentale che è alla radice dell’ecologia: dal resto del vivente, noi non siamo nettamente separati.

Pollo spiega come Darwin abbia fornito le ragioni scientifiche utili anche per abbandonare l’antropocentrismo descrittivo, dimostrando che noi non siamo al centro del vivente, non siamo superiori agli altri viventi, non siamo qui per uno scopo e la nostra natura non è il frutto di un progetto. La rivoluzione scientifica darwiniana ha una ricaduta inevitabile sulle convinzioni morali della società in questo senso.

Il professore ha evidenziato come la rivoluzione scientifica darwiniana abbia contribuito in modo decisivo al processo che in epoca moderna e contemporanea ha portato a una riflessione teorica e a un dibattito pubblico sul riconoscimento morale, politico e giuridico di animali non umani, piante ed ecosistemi. Animalismo, ambientalismo, etica animale ed etica ambientale sono, secondo Pollo, figli della rivoluzione darwiniana.

Le politiche di One Health dovrebbero essere anche politiche di trasformazione morale delle relazioni fra umani e mondo non umano. Lavorare nel paradigma One Health senza una visione anti-antropocentrica appare non solo inadeguato da un punto di vista teorico, ma probabilmente anche fallimentare dal punto di vista pratico.

Per esempio, il benessere animale non può essere considerato come un semplice strumento per un migliore uso degli animali o per rendere più accettabili questi usi all’opinione pubblica; deve essere inteso come un concetto in costante perfezionamento verso un più compiuto non antropocentrismo ed eventualmente l’abolizione di alcuni usi degli animali. Produrre 350 milioni di tonnellate di carne ogni anno con forme di allevamento intensivo industriale; ottenere più di 200 milioni di tonnellate di cibo da organismi acquatici attraverso la pesca e l’acquacoltura; distruggere ecosistemi causando una sesta estinzione di massa, non sono solo le premesse per rischi enormi alla salute delle persone, ma rappresentano vere e proprie ingiustizie morali e politiche.

Declinare in un’accezione di non-antropocentrismo morale l’idea di One Health può contribuire, secondo il professore, all’elaborazione di una nuova idea di cosmopolitismo. Riprendendo l’ideale illuminista di una considerazione morale e politica di tutti gli esseri umani al di là dei confini nazionali, è possibile considerare il concetto di One Health come parte di un nuovo cosmopolitismo ecologico, che considera il confine di specie come un ostacolo alla realizzazione di una giustizia globale. L’ecologia che fiorisce da Darwin mostra che la vita sul nostro pianeta è possibile solo grazie agli intrecci e alle relazioni fra viventi, e fra viventi e ambienti. Alla luce di questo percorso storico e culturale, l’approccio One Health, in un senso più pieno e non solo strumentale, può contribuire alla realizzazione di questa giustizia globale.

Per approfondire

Savarino L, Vineis P. La salute del mondo. Ambiente, società, pandemie. Milano: Feltrinelli, 2021.

Pollo S. Considera gli animali. Roma: Laterza, 2025.

A cura di Federica Ciavoni

Il Pensiero Scientifico Editore

David Quammen
Ritrovare il legame tra uomo, animale e ambiente

Non esistono salute umana e salute animale per William Karesh, veterinario della fauna selvatica che nei primi anni duemila lavorava per la Wildlife Conservation Society. Racconta David Quammen, giornalista e scrittore statunitense, che Karesh fu uno dei primi, circa vent’anni fa, a estendere il concetto di One Health e a sostenere che la salute umana è connessa a quella degli animali e dell’ambiente. “Esiste una sola salute. Credo Karesh l’abbia detto a un reporter nel corso di un’intervista alla fine di una conferenza, probabilmente simile a quella di oggi”.




Durante il suo intervento, lo scrittore e saggista ha condiviso una riflessione sull’urgenza di dare forza a questa visione, che converge da un insieme di discipline generalmente considerate distinte: medicina umana, medicina veterinaria, microbiologia, ecologia, salute pubblica, immunologia, epidemiologia, genetica molecolare, virologia e biologia evolutiva. “È tutto riconducibile all’ecologia e alla biologia evolutiva. Quelle discipline ci permettono di capire come un patogeno possa passare da una specie all’altra, adattarsi e diventare minaccia globale”. Un processo già visto, che secondo il giornalista continueremo a vedere.

Nel 2020, la pandemia da SARS-CoV-2 ha messo alla prova i tre pilastri sui quali dovrebbe poggiare la nostra consapevolezza: prevention, warning e response. Prevenzione, allerta, risposta: e se l’allerta – ricorda Quammen – non è mancata, ciò che è venuto meno è stata la capacità di ascoltare i ricercatori. “Abbiamo fallito sulla prevenzione. E una scienziata che ci aveva avvertiti è stata demonizzata, accusata, trasformata in bersaglio. Senza prove, solo supposizioni” ha ricordato, riferendosi a Zhengli Shi del Wuhan Institute of Virology e al suo gruppo di ricerca, dopo aver documentato un virus potenzialmente pericoloso per gli esseri umani nei pipistrelli del Sud­est asiatico. “Ci sono sempre più prove che dimostrano che questo virus in qualche modo si è riversato in un serbatoio intermedio, forse un procione, per poi probabilmente essere trasportato nel mercato di Wuhan. Infine, si è diffuso nella popolazione umana e ha dato inizio alla pandemia”.

Quammen insiste sulla necessità di cambiare approccio prima che arrivi la prossima emergenza. Bisogna prevenire il contatto tra animali selvatici portatori di virus e animali domestici, come i 33 miliardi di polli e quasi un miliardo di maiali che vivono sul pianeta Terra. Secondo il giornalista, una nuova pandemia è tra i rischi che queste grandi operazioni di allevamento su scala industriale presentano.

“One Health non è un’utopia” conclude. “È una cassetta degli attrezzi. Dobbiamo usarla con coraggio e visione”. Anche, e soprattutto, quando il pericolo sembra lontano.

Per approfondire

Quammen D. Il cuore selvaggio della natura. Milano: Adelphi, 2024.

Quammen D. Spillover. L’evoluzione delle pandemie. Milano: Adelphi, 2014.

A cura di Andrea Calignano

Il Pensiero Scientifico Editore

ABITUDINI

Chiara Alessi
Design e salute:
dalle donne alle donne

Chiara Alessi, giornalista e saggista specializzata in cultura materiale e design, ha aperto il suo intervento al congresso di 4words25 con il racconto di un evento significativo. L’8 marzo 2013, presso il Centro svedese per l’architettura e il design di Stoccolma, si tenne un convegno sul tema “Design come critica di genere”. Al centro dell’aula campeggiava una sedia cantilever, uno strano oggetto che, anziché prevedere una seduta tradizionale, presentava un supporto per il corpo in posizione prona, dotato di pedane laterali e una vaschetta sottostante. La poltrona suscitava curiosità e perplessità.

Alessi è partita da questo aneddoto per sviluppare la sua riflessione sul design come critica di genere, un approccio progettuale che mira a smascherare i pregiudizi insiti negli oggetti di uso quotidiano. La relatrice ha sottolineato come molti strumenti che sembrano neutri siano in realtà progettati secondo standard che escludono sistematicamente il mondo femminile. “Tutti gli oggetti che ci circondano e che in qualche modo ci comunicano come dobbiamo usarli sono pensati solo per l’uomo, e non intorno all’essere umano, includendo anche la donna”.




Prendendo spunto dall’esperienza personale della visita ginecologica, ha poi evidenziato come, nonostante i cambiamenti del corpo della donna nel corso della vita, gli strumenti e le modalità di questa pratica medica rimangano invariati nel tempo. “Sono più di vent’anni che mi sottopongo a questo controllo. Naturalmente il mio corpo è cambiato, e con questo anche la consapevolezza del mio stesso fisico, ma la visita è sempre uguale. Gli oggetti che la riguardano sono sempre gli stessi”. Secondo i dati relativi alla città di Milano, una donna su quattro negli ultimi tre anni non si è sottoposta a visita ginecologica, interrogandosi sul ruolo che il disagio legato agli strumenti e all’ambiente medico possa avere in questa scelta.

La relatrice ha poi sviluppato una critica al concetto di evoluzione degli oggetti, spesso percepito come naturale e inevitabile. “Noi tendiamo a pensare che le cose che abbiamo intorno siano esito di una selezione per cui sopravvivono solo quelle migliori o più funzionali. In realtà è falso. L’evoluzione degli oggetti si muove facendo zigzag, salti, tornando indietro”, dimostrando che le soluzioni attuali non sono necessariamente le migliori possibili.

Particolare attenzione è stata, inoltre, dedicata all’idea di uomo medio come standard produttivo dell’era industriale. Alessi ha spiegato come questo parametro – di età, altezza e peso medi, bianco e abile – abbia determinato la progettazione di gran parte degli oggetti contemporanei, escludendo di fatto le specificità femminili. “La produzione industriale ha dovuto eleggere uno standard produttivo e naturalmente bisognava stabilirne una media, che ha prodotto molte più esclusioni di quanti individui corrispondessero a quell’idea”.

Ha portato ad esempio i tasti del pianoforte, progettati sulla misura della spanna maschile, complicando così l’accesso delle donne alla pratica musicale. Anche nel campo della sicurezza automobilistica ha citato dati significativi: “Le donne hanno il 17% di probabilità in più di morire in un incidente automobilistico, il 70% in più degli uomini di avere delle lesioni, però a nessuno era venuto in mente di provare a fare dei test con un manichino fatto come una donna”.

Altri esempi hanno riguardato la progettazione dei bagni pubblici, dove a parità di metratura si creano code più lunghe per le donne; o i dispositivi tecnologici come i cellulari, dimensionati sulle mani maschili. Alessi ha anche ricordato come nel 2014 la prima applicazione Apple dedicata alla salute non includesse il monitoraggio del ciclo mestruale, omettendo un aspetto fondamentale della salute femminile.

È stato anche utilizzato l’esempio della tastiera QWERTY per illustrare il peso delle abitudini consolidate. “È un’invenzione del 1876, non c’è nessuna ragione per cui noi ancora oggi dobbiamo usarla. Nel Novecento ci sono stati moltissimi metodi più veloci. Ma ormai ci siamo abituati”.

Alla fine del suo intervento, Alessi ha rivelato la natura dell’oggetto misterioso presente in aula. Si trattava di Land broker, un prototipo creato dalle ricercatrici del centro svedese che trasferiva su una sedia per visite prostatiche tutte le caratteristiche che le donne intervistate identificavano come particolarmente problematiche nella visita ginecologica: la perdita di controllo, l’impossibilità di vedere cosa accade, la nudità e l’ambiente freddo e asettico. La reazione di scandalo da parte del pubblico maschile di fronte a questo oggetto ha rappresentato la dimostrazione più efficace di tale ragionamento. “‘Ma questa è una violenza, è una tortura’. E la mia risposta è: sopportate ancora un po’”.

Il design come critica di genere si configura così come un processo di decostruzione che porta alla luce i pregiudizi incorporati negli oggetti, evidenziando come le soluzioni progettuali considerate naturali siano spesso il risultato di scelte che escludono sistematicamente l’esperienza femminile.




L’intervento di Chiara Alessi ha, dunque, sottolineato l’importanza di ripensare la progettazione in chiave inclusiva, considerando che gli oggetti non sono neutri, ma incorporano visioni del mondo che possono avere ripercussioni significative sulla salute e sul benessere delle persone, tutte: uomini e donne.

A cura di Clotilde Manno

Il Pensiero Scientifico Editore

Per approfondire

Criado Perez C. Invisibili. Milano: Einaudi, 2020.

Tripaldi L. Gender Tech. Roma: Laterza, 2023

Walter Quattrociocchi
In che mondo vivi:
la disinformazione online spiegata dai dati

L’intervento di Walter Quattrociocchi – presidente del corso di laurea in Data Science alla Sapienza di Roma – è stata un’inaspettata e vivace chiusura della giornata di lavori, che ha catalizzato l’attenzione dei partecipanti piuttosto che prenderli per stanchezza. Con tono ironico e provocatorio, e soprattutto con una messe di dati e modelli quantitativi provenienti da decenni di ricerche, Quattrociocchi ha smentito le narrazioni dominanti sulla diffusione “virale” della disinformazione online. “L’idea che l’informazione si diffonda come un virus è demenziale. Non è così”, ha esordito Quattrociocchi. “Perché un virus, se ti arriva, te lo becchi e non c’è nessuna opzione di scelta. L’informazione, invece, la scegli e la trasmetti in maniera contingentata”.

Determinante fondamentale nel processo per cui informazioni, idee o credenze più o meno veritiere vengono amplificate da una ripetitiva trasmissione e ritrasmissione è il concetto di confirmation bias: l’attitudine cognitiva che ci porta a cercare, ricordare e condividere solo le informazioni che confermano le nostre opinioni. Questo bias è accentuato dalla strutturazione “tribale” delle interazioni online, dove si formano le cosiddette echo chamber, comunità chiuse di utenti che condividono visioni simili e respingono sistematicamente contenuti contrastanti.

Un esempio lampante è tratto da uno studio pubblicato su PLoS One, che analizzava la risposta di quasi 10 milioni di utenti polarizzati a oltre 47.000 post di debunking. Risultato? Il 99,94% degli utenti “complottisti” ignorava completamente tali post. Inoltre, l’esposizione al debunking non riduceva l’adesione alla disinformazione: al contrario, aumentava la probabilità di consumo di contenuti cospirazionisti nei giorni successivi1.

Una parte significativa dell’intervento di Quattrociocchi ha riguardato la presunta responsabilità degli algoritmi social nella diffusione di contenuti “tossici”, ovvero irrispettosi, offensivi o addirittura violenti. Quattrociocchi ha chiarito che non è l’algoritmo a “portare la tossicità”, siamo noi utenti a insegnargli cosa ci attrae. I dati sembrano confermare questa dinamica: in uno studio pubblicato su Nature a dicembre del 2024, il ­team del professor Quattrociocchi ha analizzato 500 milioni di commenti pubblicati su 8 diverse piattaforme nel corso di 34 anni. La tossicità nei commenti è risultata invariabile nel tempo e tra le piattaforme: una caratteristica strutturale del comportamento umano in rete, non un effetto dell’algoritmo e della natura della piattaforma2. Quello che è emerso è che le conversazioni più lunghe tendono a essere più tossiche: “Quando i toni si inaspriscono, gli utenti non si ritirano: continuano a rispondere, commentare e portare avanti la discussione, mostrando una resistenza al conflitto che sembra universale”.

Un altro concetto rilevante emerso è stato che l’informazione falsa non circola diversamente da quella vera. Studi longitudinali dimostrano che la diffusione di contenuti scientifici e di notizie cospirazioniste segue dinamiche simili, ma con un’importante differenza: la cospirazione ha un ciclo di vita più lento ma più persistente. Questo perché viene metabolizzata in ambienti chiusi, dove l’omofilia – cioè la tendenza a legarsi a chi ci somiglia – alimenta la persistenza e la coerenza narrativa3.

Il professor Quattrociocchi ha poi toccato il tema dell’infodemia, termine coniato già nel 2003, e adottato successivamente anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), per descrivere la sovrabbondanza di informazioni durante un’epidemia. Ma Quattrociocchi va oltre, mostrando come il concetto di infodemia si applichi a ogni crisi, dalla pandemia al cambiamento climatico. Secondo un recente studio, in occasione della conferenza COP26 la polarizzazione online sul tema climatico è cresciuta in modo drammatico, spinta da una narrazione antagonista sempre più organizzata e politicizzata4.

Infine, uno degli elementi su cui Quattrociocchi ha molto ribattuto è stato la predittività del comportamento online: “Se un utente è anti-vax”, ha sottolineato, “la probabilità che sia anche anti-Ucraina e anti-climate change è del 91%. In altre parole, si tratta non di opinioni isolate, ma di vere e proprie identità narrative polarizzate”.

In conclusione, l’intervento di Walter Quattrociocchi ha avuto il merito di ridimensionare, con rigore scientifico e provocazione intelligente, molte delle semplificazioni giornalistiche e delle narrazioni ideologiche che dominano il discorso pubblico sulla disinformazione. Il messaggio è chiaro: la corretta comunicazione non basta. Occorre conoscere le dinamiche profonde delle reti sociali, dei bias cognitivi e della cultura digitale per capire in che mondo viviamo5. “Bisogna un po’ scendere dal piedistallo, essere consapevoli che il business model delle piattaforme ha portato tutti a parlare, creando una cacofonia di argomenti e narrazioni, e soprattutto evitare di prendersi troppo sul serio”.







Bibliografia

1. Zollo F, Bessi A, Del Vicario M, et al. Debunking in a world of tribes. PLoS One 2017; 12: e0181821.

2. Avalle M, Di Marco N, Etta G, et al. Persistent interaction patterns across social media platforms and over time. Nature 2024; 628: 582-9.

3. Del Vicario M, Bessi A, Zollo F, et al. The spreading of misinformation online. Proc Nat Acad Sci 2016; 113: 554-9.

4. Falkenberg M, Galeazzi A, Torricelli M, et al. Growing polarization around climate change on social media. Nat Clim Change 2022; 12: 1114-21.

5. Quattrociocchi W, Cinelli M. In che mondo vivi. Pillole di data science per comprendere la contemporaneità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2025.

A cura di Bianca Maria Sagone

Il Pensiero Scientifico Editore