Dalla letteratura

Vaporizzatori di nicotina per smettere di fumare: nuovi dati sulle popolazioni vulnerabili

Un recente studio randomizzato ha esaminato il ruolo dei prodotti a nicotina vaporizzata (VNP), i cosiddetti vaporizzatori, come strumento per la cessazione del fumo, in particolare per gli individui socialmente svantaggiati. L’analisi, pubblicata sugli Annals of Internal Medicine, fornisce dati sull’efficacia di questi prodotti in una fascia della popolazione che affronta specifiche sfide nel processo di disassuefazione1.

La cessazione del fumo rappresenta una sfida complessa, particolarmente accentuata nelle popolazioni socialmente svantaggiate, le quali possono incontrare ostacoli aggiuntivi legati a fattori socioeconomici e di accesso alle cure. La letteratura esistente sull’efficacia delle diverse metodologie di cessazione in questo specifico contesto era limitata, evidenziando la necessità di ulteriori ricerche per informare strategie di supporto mirate. Il presente studio mira a contribuire a questa lacuna di conoscenza.

Il trial, condotto in Australia tra il 2021 e il 2022, ha adottato un disegno randomizzato controllato in aperto. Hanno partecipato 1.045 adulti fumatori quotidiani con l’intenzione di smettere, identificati come socialmente svantaggiati in quanto riceventi pensioni o sussidi governativi.

I partecipanti sono stati randomizzati a ricevere una fornitura di otto settimane di terapie sostitutive della nicotina (NRT), quali gomme o pastiglie, o prodotti a nicotina vaporizzata (VNP), inclusi dispositivi a serbatoio e a pod con diverse opzioni di aroma. Entrambi i gruppi hanno beneficiato di un supporto aggiuntivo tramite messaggi di testo. L’endpoint primario era il tasso di astinenza continua dal fumo a sei mesi, oggettivamente verificato tramite test del monossido di carbonio nell’alito.

I dati raccolti indicano una differenza nell’efficacia tra i due approcci. Nel gruppo assegnato ai vaporizzatori, il 28,4% dei partecipanti ha raggiunto l’astinenza continua dal fumo per sei mesi. Questo dato si confronta con il 9,6% registrato nel gruppo che ha utilizzato le NRT tradizionali. È stato inoltre osservato che gli eventi avversi auto-riportati si sono verificati con minore frequenza nel gruppo VNP.

I risultati di questo studio presentano implicazioni rilevanti per la pratica clinica e le politiche di sanità pubblica. Le evidenze suggeriscono che i vaporizzatori di nicotina possono rappresentare un’opzione di trattamento più efficace per la cessazione del fumo in popolazioni socialmente svantaggiate, una fascia demografica particolarmente colpita dalle conseguenze del tabagismo.

L’integrazione dei VNP nei programmi di cessazione, in particolare quelli destinati a comunità vulnerabili, potrebbe contribuire al miglioramento dei tassi di successo e alla riduzione delle disparità sanitarie. Ulteriori ricerche saranno necessarie per approfondire le modalità ottimali di implementazione e per affrontare eventuali sfide associate all’adozione di tali prodotti.




Bibliografia

1. Courtney RJ, Howard BC, Barker D, et al. Vaporized nicotine products for smoking cessation among people experiencing social disadvantage: a randomized clinical trial. Ann Intern Med 2025; doi:10.7326/ANNALS-24-03531.

In collaborazione con inmedicina.it

Infiammazione e invecchiamento: dipende dalla società in cui viviamo

Una nuova ricerca pubblicata su Nature Aging1 e commentata dal New York Times2 rimette in discussione una delle ipotesi più consolidate in gerontologia: l’idea che l’inflammaging – ovvero l’aumento cronico di processi infiammatori associato all’età – sia un tratto universale del progressivo invecchiamento. Secondo i nuovi dati, potrebbe trattarsi invece di un effetto collaterale dello stile di vita industrializzato, il che indurrebbe a ripensare la categoria stessa di inflammaging.

Lo studio, coordinato da un team internazionale guidato da Alan Cohen (Columbia University, New York), ha analizzato i profili infiammatori di oltre 2.800 persone, tra i 18 e i 95 anni, appartenenti a quattro popolazioni molto diverse per contesto ambientale e socioeconomico: soggetti anziani della regione del Chianti in Italia, i partecipanti allo studio longitudinale sull’invecchiamento di Singapore, e due gruppi indigeni non industrializzati, gli Tsimane dell’Amazzonia boliviana e gli Orang Asli della Malesia peninsulare.

Nei due contesti industrializzati (Italia e Singapore), i ricercatori hanno riscontrato una chiara associazione tra età avanzata e aumento di specifici marcatori infiammatori, confermando il profilo classico dell’inflammaging. Ma la sorpresa è arrivata dalle popolazioni indigene: gli Tsimane e gli Orang Asli mostrano una risposta infiammatoria molto diversa, più legata a infezioni acute che non a patologie croniche, e soprattutto priva di una correlazione sistematica con l’età.

«La nostra comprensione dell’invecchiamento si basa quasi esclusivamente su studi condotti in paesi industrializzati», spiega Cohen. «Questo studio dimostra che esistono traiettorie biologiche dell’invecchiamento profondamente diverse». In altre parole, ciò che consideravamo “naturale” potrebbe essere invece il risultato di fattori ambientali: dieta, inquinamento, sedentarietà, stress, esposizione a sostanze tossiche.

Secondo Thomas McDade, antropologo biologico alla Northwestern University di Chicago, «nelle società non industrializzate, l’infiammazione è attivata in modo molto diverso, spesso da una maggiore esposizione precoce a fattori ambientali che modulano il sistema immunitario in senso protettivo». Il paradosso è che questi gruppi, pur presentando infiammazioni legate a infezioni, non sembrano sviluppare con la stessa frequenza patologie croniche tipiche delle società occidentali, come diabete o cardiopatie.

Gli autori dello studio sono cauti nel trarre conclusioni definitive. I dati sono osservazionali e non permettono confronti perfettamente omogenei tra popolazioni così diverse. Inoltre, la vita media più breve nelle comunità indigene potrebbe mascherare l’emergere di processi infiammatori a lungo termine. Tuttavia, il dato centrale resta: l’inflammaging non è una costante biologica, ma una variabile ambientale. «Una sorta di effetto collaterale del nostro modo di vivere», lo definisce Cohen.

Se confermati, questi risultati potrebbero ridimensionare l’entusiasmo per integratori e farmaci anti-infiammatori promossi nelle società affluenti per rallentare l’invecchiamento. Si darebbe piuttosto una ragione rilevante in più per intervenire su alimentazione, attività fisica e riduzione dell’inquinamento. «È possibile che esistano infiammazioni ‘buone’ e ‘cattive’ – suggerisce Cohen – e non è detto che ridurre a tutti i costi la risposta infiammatoria sia sempre la scelta migliore».
Lo studio di Nature Aging si propone quindi come una provocazione scientifica che potrebbe aprire la porta alla possibilità di un invecchiamento più sostenibile – e meno medicalizzato – fondato non tanto sul controllo dei sintomi, quanto sulla trasformazione dell’ambiente, fin troppo antropizzato, in cui invecchiamo. La verità ce la ricorda una volta di più Michael Marmot in una conferenza della WIRED Health, appena ripreso da Mun-Keat Looi sul BMJ: «Ce n’è abbastanza al mondo per farci disperare. Però, sappiamo cosa deve essere fatto: non ci resta che farlo»3.




Bibliografia

1. Franck M, Tanner KT, Tennyson RL et al. Nonuniversality of inflammaging across human populations. Nat Aging 2025; https://doi.org/10.1038/s43587-025-00888-0.

2. A Common Assumption About Aging May Be Wrong, Study Suggests. New York Times 2025; 30 giugno.

3. Looi MK. Michael Marmot: “There’s enough in the world to make one despair. But we know what must be done-we just have to do it”. BMJ 2025; 390: r990.

Luciano De Fiore

in collaborazione con careonline.it

Nuove evidenze sul trattamento della depressione post partum

La depressione post partum è una condizione che colpisce molte neomamme, manifestandosi entro il primo anno dal parto. Non è una semplice “tristezza passeggera”, ma un disturbo serio che può avere conseguenze significative sulla salute della madre, sullo sviluppo del bambino e sulla stabilità familiare. Sebbene esistano già trattamenti consolidati come la psicoterapia e, per i casi più severi, gli antidepressivi tradizionali, si è sempre alla ricerca di soluzioni più efficaci e rapide per affrontare questa complessa patologia.

In questo contesto, due nuovi farmaci, brexanolone e zuranolone, stanno emergendo come potenziali nuove opzioni terapeutiche. Questi farmaci agiscono in modo diverso dagli antidepressivi tradizionali, modulando un recettore specifico nel cervello chiamato GABAA. Una revisione sistematica Cochrane ha esaminato i dati disponibili per valutarne i benefici e i rischi1.

I ricercatori hanno setacciato un’enorme quantità di dati scientifici fino a gennaio 2024, cercando studi clinici che avessero confrontato brexanolone, zuranolone o farmaci simili con placebo (una sostanza inattiva) o con i trattamenti standard. L’obiettivo era capire se queste nuove molecole fossero in grado di migliorare i sintomi della depressione e se causassero effetti collaterali.

Sono stati inclusi sei studi, tutti condotti negli Stati Uniti e tutti finanziati dalle aziende farmaceutiche produttrici. In totale, sono state coinvolte 674 donne con depressione post partum. Tre studi hanno testato brexanolone, somministrato per via endovenosa, mentre due hanno esaminato zuranolone, assunto per via orale. Il sesto studio, invece, ha valutato ganaxolone, anch’esso per via endovenosa.

I risultati della revisione offrono un quadro interessante. Per brexanolone, le prove attuali suggeriscono che potrebbe esserci poca o nessuna differenza nella capacità di migliorare la depressione o di portare alla remissione dei sintomi rispetto al placebo, almeno a 30 giorni dall’inizio del trattamento. Anche per gli effetti collaterali, non sembrano esserci grandi differenze rispetto al placebo. Tuttavia, è emerso che il trattamento endovenoso, che richiede un’infusione continua, è stato meno accettato dalle pazienti, portando a un maggior numero di abbandoni degli studi.




Zuranolone, assunto per via orale, sembra invece più promettente. Le evidenze indicano che questo farmaco è probabilmente associato a un miglioramento sia nella risposta che nella remissione della depressione a 45 giorni dall’inizio del trattamento. In altre parole, più donne hanno mostrato un miglioramento significativo o una completa risoluzione dei sintomi. Tuttavia, spesso zuranolone aumenta anche il rischio di effetti collaterali, il più comune dei quali è la sonnolenza. L’accettabilità del trattamento orale, invece, non sembra differire molto dal placebo.

Un punto cruciale da sottolineare è che nessuno degli studi ha confrontato questi nuovi farmaci con le terapie già esistenti, come gli antidepressivi tradizionali o le sedute di psicoterapia. Tutti i confronti sono stati fatti solo con il placebo. Questo rende difficile stabilire esattamente dove si posizionino brexanolone e zuranolone rispetto ai trattamenti che i medici prescrivono abitualmente. Inoltre, gli studi hanno escluso donne con forme più gravi di depressione, con pensieri suicidi o con altre condizioni mediche, il che significa che i risultati potrebbero non essere applicabili a tutte le pazienti.




In sintesi, zuranolone orale si presenta come una promettente novità nel panorama terapeutico della depressione post partum. Tuttavia, la strada è ancora lunga. Sono urgentemente necessari ulteriori studi che confrontino direttamente questi farmaci con le terapie standard per capire quale sia l’opzione migliore per le diverse pazienti. Sarà fondamentale anche valutare gli effetti a lungo termine e la sicurezza di questi farmaci, soprattutto per le madri che allattano. La ricerca futura dovrà anche aiutare a identificare quali donne potrebbero beneficiare maggiormente di queste nuove terapie.

Bibliografia

1. Wilson CA, Robertson L, Ayre K, et al. Brexanolone, zuranolone and related neurosteroid GABAA receptor positive allosteric modulators for postnatal depression. Cochrane Database Syst Rev 2025; 6: CD014624.

In collaborazione con inmedicina.it

Un eccessivo peso corporeo accelera l’invecchiamento cerebrale?

Un nuovo e ampio studio internazionale pubblicato sulla rivista eBioMedicine rivela una correlazione significativa tra peso corporeo eccessivo e invecchiamento cerebrale accelerato, ma solo negli uomini1. La ricerca, che ha coinvolto oltre 46.000 partecipanti in 15 progetti, offre una prospettiva approfondita sulle implicazioni neurologiche dell’obesità e del sovrappeso, sottolineando l’importanza di considerare il peso non solo da un punto di vista estetico, ma anche in relazione alla salute cerebrale.

Lo studio, condotto da un team internazionale guidato da Filippos Anagnostakis (University of Pennsylvania, Columbia University, Università di Bologna), ha utilizzato risonanza magnetica e algoritmi di apprendimento automatico per analizzare individui in sovrappeso o obesi, privi di deficit cognitivi, al fine di comprendere se l’eccesso di peso possa contribuire silenziosamente all’invecchiamento cerebrale o a una perdita di volume simile a quella osservata nella malattia di Alzheimer.




I dati ottenuti hanno evidenziato una chiara correlazione tra obesità e invecchiamento cerebrale, un fenomeno più marcato tra gli uomini che tra le donne, e con effetti che diminuiscono con l’avanzare dell’età. Nello specifico, gli uomini in sovrappeso hanno mostrato un cervello che appariva “più vecchio” di circa otto mesi, mentre quelli con obesità presentavano un invecchiamento cerebrale di circa due anni superiore rispetto ai coetanei con peso normale.

Sorprendentemente, le donne con peso normale hanno mostrato più segni di invecchiamento cerebrale e di atrofia simile a quella dell’Alzheimer rispetto alle donne in sovrappeso e persino rispetto agli uomini con peso normale; le ragioni di questa disparità di genere restano da chiarire. L’impatto del peso corporeo sull’invecchiamento cerebrale, infine, è risultato più marcato nei soggetti più giovani, tendendo ad attenuarsi con l’avanzare dell’età.




L’obesità è riconosciuta come un’epidemia globale, con proiezioni che indicano che entro il 2050 oltre la metà della popolazione adulta mondiale sarà in sovrappeso o obesa. Questa condizione è associata a disordini metabolici, cardiovascolari e renali, e un aumento di peso in età adulta è già stato collegato a un rischio più elevato di sviluppare forme di demenza. Si ipotizza che un elevato indice di massa corporea (BMI) possa influire sull’integrità del cervello, causando atrofia della sostanza grigia e bianca e compromettendo la solidità dei circuiti neurali. Tuttavia, i meccanismi esatti alla base di questi fenomeni non sono ancora del tutto compresi.

Le analisi proteomiche condotte dai ricercatori hanno identificato alcune proteine nel sangue associate sia al peso corporeo che all’invecchiamento cerebrale. «L’indagine sulle risonanze magnetiche cerebrali e le analisi proteomiche suggeriscono l’esistenza di meccanismi biologici comuni collegati tanto all’aumento di peso che all’età cerebrale», conferma Anagnostakis. «Restano però ancora molte incognite da chiarire per mettere in luce queste connessioni e per capire i meccanismi specifici legati alle differenze di sesso».

Bibliografia

1. Anagnostakis F, Kokkorakis M, Walker KA, et al. Radiomic and proteomic signatures of body mass index on brain ageing and Alzheimer’s-like patterns of brain atrophy. eBioMedicine 2025; 116: 105763.

In collaborazione con inmedicina.it