La curva del Latte

Fabio De Iaco

Ho seguito, come tutti, quel che è accaduto a Latte nei giorni di luglio. Come tutti ma un po’ di più. Naturale l’angoscia per il bimbo disperso e naturale il sollievo, quando la speranza diventava sempre più irragionevole.

Ma in più quei posti li conosco bene, e conosco tante delle persone che non hanno smesso di cercare il bimbo. Con molti di loro abbiamo corso in sirena, per anni, sulle stesse strade, tra viuzze strette e curve a gomito.

Già, “La curva del Latte”: è il titolo di un romanzo di Nico Orengo. «[…] La notte tornò bellissima e normale, una notte di primo settembre con l’aria ancora dolce di gelsomino e oleandro, di profumo di vigna carica di Rossese […] Era una bellissima serata da totani, allo scoglio rondo, sotto Mamante. Il mare era olio e neppure un filo di brezza tirava da terra […]».

Quella di Latte è una curva sull’estremo tratto di via Aurelia, verso la Francia. Un supermercato con i prezzi scritti in francese e qualche casa lungo la strada verde di pini e ocra di rocce. Un tempo i francesi percorrevano la via di sotto, che ancora interrompe il precipizio verso mare. Di lì passavano le truppe napoleoniche: le immaginavamo marciare ordinate, quando tagliavamo quella striscia di terra battuta per scendere alla Mortola, fantasticando dell’imminente pescata.

Anche la ferrovia fa una bella curva a Latte: i treni sono costretti a rallentare prima di ritrovare l’abbrivio ed entrare nell’ultima lunga galleria, che inizia in Italia e sbuca in Francia. Ci sono stati tempi tragici in quella galleria: era facile attaccarsi all’esterno del treno, proprio sulla curva, nel tentativo di passare il confine. Ma era molto più difficile resistere aggrappati a qualche maniglia quando il treno sfrecciava violento tra le pareti della galleria. Il Pronto Soccorso di Bordighera, ancor prima che il 118 esistesse, raccoglieva quel che rimaneva.

Ho ricordi pesanti. Una notte tre ambulanze insieme, per tre ragazzi cinesi. Sottili come giunchi, muti come Buster Keaton. Le fratture urlavano per loro. Capimmo che non si conoscevano: solo dopo scoprimmo che erano una famiglia, due sorelle e un fratello. L’ultimo a lasciare l’ospedale fu lui, gli avevamo levato la milza. Una mattina, silenzioso come sempre, si era alzato dal letto della chirurgia: non ne sapemmo più nulla. 

Qualche anno dopo, quando il 118 finalmente funzionava e noi ci sentivamo coraggiosi pionieri, entrai a piedi, zaino in spalla, in quella stessa galleria, per un soccorso. Sei mai entrato a piedi in una galleria ferroviaria? Dopo cinque metri sparisci nel buio più nero che tu possa immaginare e camminare ti è impossibile, su sassi grandi come mele che rotolano sotto gli scarponi.

Arrivò la voce divertita del mio compagno, l’infermiere che camminava due metri avanti: “Tranquillo! La conosco come le mie tasche!”.

Il suo accento maghrebino spiegava molto. Raccontava delle tante gallerie percorse, delle cento volte in cui proprio quella aveva attraversato, anni prima. Prima di diventare l’orgoglioso e bravissimo pioniere del soccorso che era adesso, insieme a me, nella galleria di Latte.

Fabio De Iaco

Direttore di Struttura complessa
“Medicina d’emergenza urgenza 1”

Ospedale Maria Vittoria

Asl Città di Torino.

Past President SIMEU