“Cartella clinica”




In questo bellissimo e struggente racconto intitolato “Cartella clinica”, Serena Vitale, slavista di fama internazionale, ricostruisce la malattia e la morte dell’amata sorella Rossana, che aveva quattro anni più di lei, era bella e aveva un futuro da concertista. «Assomigliava ad Audrey Hepburn. Alta, lunghi capelli neri, il corpo perfetto. Quando passava per Brindisi, dove abitavamo, si giravano tutti». Rossana a 17 anni un giorno d’aprile «cominciò a guardarsi allo specchio con insistenza, preoccupata di avere gli occhi storti», come scrissero nell’anamnesi i medici della casa di cura per malattie mentali che l’avrebbe presa in carico. Quegli stessi occhi che da sempre cercava di cavare alle bambole che le venivano regalate. Nel 1958, Serena Vitale accompagna la sua famiglia natia da Brindisi a Roma, fino al grande manicomio di “Santa Maria della Pietà”, dove sarebbe stata internata con la diagnosi di sindrome schizofrenica e sarebbe stata trovata morta il 24 settembre 1961.

Non a caso questo libro è stato pubblicato nella collana “La memoria”, che deve la sua nascita a un’intuizione di Leonardo Sciascia con l’intento di ricostruire piccole storie o “fatti diversi di storia letteraria e civile”. E questa è un’opera civile, è una storia della sofferenza mentale in Italia in quegli anni in cui si praticava l’elettroshock e si eseguivano le lobotomie. La lobotomia rappresenta una delle pagine più buie della storia della medicina: corrisponde a quella particolare procedura neurochirurgica che consiste nel sezionare le connessioni nervose da e per la corteccia prefrontale, la parte più anteriore dei lobi frontali. Fino al 1951 negli Stati Uniti d’America furono effettuati circa 20 mila interventi ma la procedura fu gradualmente abbandonata con l’entrata nel mercato di antipsicotici, antidepressivi e altri farmaci. Oggi è una pratica totalmente abbandonata.

Negli anni Sessanta, gli ospedali psichiatrici in Italia erano istituzioni totali dove venivano internati i malati di mente, spesso in condizioni di degrado e senza adeguate cure. Erano luoghi di segregazione e marginalizzazione, caratterizzati da una psichiatria che si concentrava più sulla gestione della pericolosità sociale che sulla cura della malattia. Franco Basaglia fu il medico che mosse una critica radicale nei confronti dei manicomi; nel 1961 divenne direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia ed è lì che iniziò a rendersi conto delle condizioni disumane in cui versavano le persone recluse nei manicomi. Così iniziò a introdurre piccole modifiche, partendo dal considerare i pazienti come esseri umani, come persone dotate di una propria identità. Egli rifiutò gli strumenti della tecnica psichiatrica, in particolar modo tutte quelle terapie volte a provocare uno shock; introdusse anche gruppi di pazienti, per aiutarli a condividere insieme agli altri i propri problemi e renderli protagonisti della loro stessa vita, con l’obiettivo primario di favorire la riabilitazione della persona.

Dalla fine degli anni Sessanta il racconto pubblico dei manicomi ha iniziato a cambiare: grazie alle azioni del movimento anti-istituzionale, degli psichiatri riformatori e grazie alle voci delle persone internate, la cruda realtà degli ospedali psichiatrici venne denunciata ovunque. Le ragioni di questa ricostruzione ce le fornisce l’autrice, che aveva solo tredici anni quando sua sorella inizia a manifestare in modo più evidente i suoi problemi psichici: «Quando sogno mia sorella, creatura eletta, la vedo stare male su un letto di contenzione, con la bava alla bocca, e non è una visione bella. Ma questa storia andava scritta, perché credo si sappia poco di cosa succedeva in quei tempi. Ho fatto i conti con questa cosa che dentro mi rodeva. Il dolore non passa, prende altre forme. Ma aiuta».