Gianni Berengo Gardin, “morire di classe”

Claudio Colotti1

1Giornalista pubblicista e fotografo, Pollenza (Macerata).




Quasi 300 libri fotografici pubblicati, un archivio d’immagini elefantiaco organizzato con rarissima esattezza, e poi una lunga sequenza di foto entrate a far parte del nostro patrimonio visuale e capace di raccontare la storia sociale dell’Italia. Questo è il lascito materiale che Gianni Berengo Gardin, colonna portante della fotografia del XX secolo, ci consegna l’indomani dalla sua scomparsa. I suoi sono stati 94 anni incredibilmente prolifici e densi, sempre vissuti nel solco del classico.

In Francia sono rare le personalità cui si concede il privilegio di essere appellate con le sole iniziali, in genere sono figure di spicco che con le loro opere hanno creato un frame culturale imprescindibile per la società intera. Quel GBG era la riprova che il nostro Gianni Berengo Gardin potesse dialogare alla pari con HCB, il gran nervoso della fotografia, l’occhio del secolo, Henri Cartier-Bresson.

Per quest’ultimo ha sempre nutrito ammirazione incondizionata, ma per cercare le origini del suo modo d’intendere la fotografia occorre spostarsi negli Stati Uniti. Lo sguardo umano ed etico di Berengo Gardin assieme alla dirittura morale che caratterizza tutto il suo approccio allo scatto vanno ricercati nei fotografi della Farm Security Administration e quindi nella storia della fotografia documentaria.

Lui, che aveva mosso i primi passi da fotoamatore alla fine degli anni ’40 nel Circolo La Gondola di Venezia, nel volgere di pochissimo tempo maturerà la consapevolezza che non avrebbe voluto saperne dell’arte e di una fotografia formalista improntata all’estetica. Così per tutta la vita continuerà a sostenere con la sua serena determinazione di essere un buon artigiano. E pure quando Christie’s batterà il suo celebre scatto “Venezia, in vaporetto” (1960) alla cifra record di 23.000 euro chioserà: «Il mio lavoro non è artistico, è sociale e civile. Non voglio interpretare, voglio raccontare».

In tutta la sua vicenda professionale è possibile leggere sottotraccia la storia della fotografia italiana con i suoi limiti e i suoi momenti di grandezza. Gli inizi sono cauti, ha difficoltà a pubblicare con le testate, i primissimi incarichi arrivano nel 1955 grazie al settimanale Il Mondo di Mario Panunzio. I rapporti con l’editoria dell’informazione nostrana migliorano col passare degli anni, ma la fatica a ritagliarsi uno spazio suo lo spingerà a considerare il libro come approdo ideale per i suoi scatti.

Anche per questo il passaggio al professionismo giunge tardi. Dopo che otto editori italiani si rifiutano di pubblicare il suo fotolibro su Venezia, finalmente nel 1966 un editore svizzero s’innamora delle sue foto e gli dà carta bianca. In appena 25 giorni vede la luce “Venise des saisons” per la casa editrice La Guilde du Livre. È un successo, lì dentro trovano posto sia il meglio del fotoamatorismo dell’epoca che della fotografia umanista francese.

Trascorrono appena tre anni e arriva l’altro punto di svolta. Assieme alla collega Carla Cerati firma per Einaudi il lavoro col quale mette a punto la grammatica formale ed etica della sua fotografia documentarista: “Morire di classe”, un reportage sulla condizione manicomiale in Italia voluto proprio da Franco Basaglia. Nella storia della fotografia è cosa rara che un autore riesca a veder cambiare le storture che denuncia attraverso i propri scatti. È anche grazie alla pubblicazione di questo libro che nel nostro paese matureranno le condizioni per la riforma degli ospedali psichiatrici e la conseguente chiusura dei manicomi.

Dopo questo lavoro, GBG diventerà un fuoriclasse dell’autentico, la sua fotografia in bianco e nero non si sottrarrà più al corpo a corpo con la realtà, alla presa sul mondo esercitata sempre con atteggiamento critico e mai incline ai cliché. Con uno sguardo improntato alla chiarezza e privo di equivoci arricchirà la sua produzione di carattere sociale prima con un libro realizzato assieme a Cesare Zavattini: “Luzzara vent’anni dopo” (1976), e poi con due toccanti fotolibri dedicati ai rom, “La disperata allegria. Vivere da zingari” (1994) e “Zingari a Palermo” (1997).

Ironico, tenero, a tratti anche timido ma con le idee sempre chiare quando occorre decidere da che parte stare, non si è mai lasciato sedurre dal potere, neppure in età avanzata. “Mostri a Venezia” del 2014 è il suo lavoro contro le grandi navi da crociera che transitano nella laguna e che gli valse una censura sine die da parte dell’allora sindaco. Ai giornalisti che lo incalzavano rispose col suo risolino furbo da eterno bambino: «Sono solo un fotografo, non pensavo fossi così potente. In fondo al cuore ne sono lusingato».

Se la sua fotografia è stata sempre lontanissima da qualsivoglia idea d’intrattenimento e di estetizzazione, il suo atteggiamento verso il fotografico diventa nettamente critico non nei confronti della digitalizzazione in sé ma della diffusione indiscriminata dei programmi di fotoritocco. «Col computer la fotografia è finita, prima vedevi una fotografia e sapevi che era un documento. Una foto taroccata al computer è un’immagine». Da quel momento inizierà a timbrare le sue stampe autografe con la dicitura “vera fotografia”. Ma non commettiamo l’errore di bollare i suoi giudizi aspri come la reazione di chi non accetta l’evoluzione tecnologica, la sua sarà una battaglia quasi religiosa.

GBG capisce già prima del dilagare dell’intelligenza artificiale generativa che la posta in gioco non è solo la fotografia bensì la verità. Quella verità che lo aveva avvicinato alla fotografia come strumento privilegiato per indagare la realtà sociale e che lo aveva portato a documentare le fabbriche e le lotte operaie. Quella verità senza la quale l’essere umano perde la sua centralità prima all’interno del riquadro fotografico poi nello spazio pubblico. Prima di sociologi e filosofi, e senza alcuna nostalgia, Berengo aveva capito che con la scomparsa della vera fotografia avremmo perso non tanto una memoria storica, quanto la nostra capacità di presa sul presente.

In settanta anni di carriera GBG ci ha lasciato lavori indimenticabili ma soprattutto una postura etica che gli ha consentito di sancire che è esistita e che esiste ancora una “vera fotografia” ma quest’ultima va coltivata e cercata. Brandire il vessillo della verità in un’epoca individualista nella quale il concetto di vero viene percepito come un inutile peso nel cammino verso la libertà è di per sé un atto eroico.

Con la scomparsa di Berengo Gardin non se ne va solo un grandissimo fotografo, se ne va un eroe. E, paradossalmente, ci lascia in un mondo meno vero e meno libero.