Il lavaggio broncoalveolare nella diagnosi di fibrosi polmonare idiopatica

La fibrosi polmonare idiopatica (IPF, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “idiopathic pulmonary fibrosis”) è una pneumo­patia interstiziale cronica progressiva che istologicamente mostra il quadro della polmonite interstiziale usuale (UIP: “usual interstitial pneumonia”) e che, a motivo della sua sfavorevole prognosi e della mancanza di una terapia efficace, impone di essere differenziata da altre condizioni di pneumopatia interstiziale. È noto che l’interpretazione istologica delle pneumatie interstiziali è resa spesso difficile, sia a motivo delle considerevoli differenze tra osservatori, sia a causa della variabilità dei quadri istologici interlobari. Per questi motivi alcuni autori ritengono a volte non attendibile il solo esame istologico quale unico procedimento diagnostico in queste situazioni; tali difficoltà sono apparse evidenti anche nell’interpretazione dei reperti della tomografia computerizzata ad alta risoluzione (HRCT: “high-resolution computed tomography”) e dalle non rare discrepanze tra reperti radiologici e reperti istologici ( Flaherty KR, Thwaite EL, Kazerooni EA, et al. Radiological versus histological diagnosis in UIP and NSIP: survival implications. Thorax 2003; 58: 143).






Il lavaggio broncoalveolare (BAL: “bronchoalveolar lavage”) è una procedura diagnostica ben tollerata dai pazienti affetti da pneumopatie interstiziali, procedura che è ritenuta particolarmente utile per la diagnosi differenziale di alveolite allergica estrinseca (EAA; “extrinsic allergic alveolitis”), sarcoidosi, polmonite da Pneumocystis carinii e neoplasie polmonari. Tuttavia, nelle recenti linee guida sulla classificazione delle pneumopatie interstiziali idiopatiche, pubblicate dall’American Thoracic Society e dall’Europen Respiratory Society, il BAL non è ritenuto più essenziale nella diagnosi di queste pneumopatie, essendo considerato affidabile il reperto radiologico mediante HRCT. Ciò, anche se queste linee guida riconoscono che un tipico quadro da BAL può confermare la diagnosi e contribuire alla valutazione complessiva clinico-radiologico-patologica di casi difficili ( American Thoracic Society, European Respiratory Society. International Multidisciplinary Consensus Classification of the Idiopathic Interstitial Pneumomias. Am J Respir Crit Care Med 2002; 165; 277).
Recentemente, per valutare il contributo del BAL alla diagnosi di IPF in pazienti con quadro clinico-radiologico sospetto, sono stati studiati 74 pazienti che presentavano reperti di HRCT, prove funzionali respiratorie e quadro clinico di IPF (Ohshimo S, Bonella F, Cui A, et al. Significance of bronchoalveolar lavage for the diagnosis of idiopathic pulmonary fibrosis. Am J Respir Crit Care Med 2009; 179: 1043).
Gli autori hanno studiato 74 pazienti con quadro radiologico, quadro clinico e prove funzionali respiratorie indicanti la presenza di IPF e hanno osservato che 6 pazienti mostravano al BAL una linfocitosi superiore al 30%; un ulteriore controllo ha indicato in tre pazienti la diagnosi di polmonite interstiziale non specifica (NSIP: “non specific interstitial pneumonia”) e in altri tre quella di EAA. Gli autori sottolineano che in questi ultimi  soggetti la diagnosi è apparsa evidente dopo il risultato del BAL e ritengono quindi che il reperto di linfocitosi al BAL ha consentito di modificare la diagnosi, che è stata poi confermata dalla biopsia polmonare chirurgica.
Gli autori ritengono che, sebbene la valutazione clinico-patologico-radiologica rappresenti la prova ideale (il cosiddetto “gold standard”) per la diagnosi di IPF, a volte può capitare, nella pratica quotidiana, che sorgano difficoltà nell’esecuzione della biopsia polmonare chirurgica, soprattutto nei pazienti anziani, in quelli con funzione polmonare gravemente compromessa o in corso di riacutizzazioni o nei soggetti con contemporanee altre condizioni patologiche. A questo proposito viene notato che, nella pratica, meno del 30% dei pazienti con IPF hanno biopsie polmonari chirurgiche, senza contare la variabilità delle interpretazioni delle biopsie e anche la variabilità interlobare dei quadri istologici ( Peikert T, Daniels CE, Beebe IJ, et al. Assessment of current practice in the diagnosis and therapy of idiopathic pulmonary fibrosis. Respir Med 2008; 102: 1342).
I risultati indicano che l’esame del BAL possa contribuire alla diagnosi di IPF e che l’associazione di varie prove diagnostiche accresca l’accuratezza della diagnosi. Si ricorda che precedenti studi hanno dimostrato che l’assenza di linfocitosi nel BAL è importante nella diagnosi di IPF e che una linfocitosi superiore al 15% è indicativa di una differente diagnosi, come NSIP, polmonite organizzante criptogenetica, EAA o sarcoidosi; e che che nella diagnosi di IPF ha importanza una granulocitosi o una neutrofilia nel BAL.

Influenza A (H1N1): recenti studi sui pazienti in condizioni critiche
Nel corso dell’attuale epidemia da virus dell’influenza A (H1N1) si sono verificati alcuni casi gravi che hanno comportato il ricovero in reparti ospedalieri di terapia intensiva. È stata pertanto avvertita la necessità di approfondire le conoscenze sugli aspetti epidemiologici, clinici e terapeutici di queste forme dell’infezione.
Kumar et al hanno studiato 168 pazienti con infezione da virus dell’influenza A (H1N1) accolti per le loro gravi condizioni in 38 unità di terapia intensiva in Canada tra il 16 aprile e il 12 agosto 2009 (Kumar A, Zarychanski R, Pinto R et al. Critically ill patients with 2009 influenza A (H1N1) infection in Canada. JAMA  2009; 302: 1872). In Canada l’epidemia da A (HIN1) della primavera 2009 ha colpito prevalentemente donne giovani e aborigeni che non presentavano importanti condizioni morbose precedenti. Per contro, i pazienti accolti in ospedale in gravi condizioni, con mortalità del 14,3% al 28° giorno di ricovero, avevamo una storia clinica di malattie polmonari, abuso di fumo di tabacco, ipertensione, obesità o diabete; le condizioni critiche si sono in genere manifestate rapidamente dopo il ricovero e sono state associate a grave insufficienza di ossigenazione, richiedendo prolungata ventilazione meccanica e trattamento di rianimazione. Gli autori hanno osservato che durante questa pandemia sono stati rilevati quadri clinici inusuali rispetto alle precedenti e ritengono che la gravità e la mortalità della pandemia attuale si siano concentrate in soggetti tra i 10 e i 60 anni in precedenti condizioni relativamente buone; questo aspetto ricorda la pandemia del 1918 causata da A (H1N1) (la cosiddetta “spagnola”). Gli autori confermano che pochi pazienti oltre i 60 anni sono stati accolti in unità di terapia intensiva, dimostrando che in questa età è presente una reattività immunitaria verso il virus più elevata che nelle età più giovani. È stata osservata una netta prevalenza del sesso femminile, definita “striking”, della quale non è stato possibile fornire spiegazione, anche attribuendone una parte rilevante allo stato di gravidanza come fattore di rischio.
Come accennato in precedenza, le condizioni patologiche associate più frequentemente nei pazienti più gravi sono state le malattie polmonari, l’obesità, l’ipertensione, il fumo e il diabete, che sono state rilevate dal 30 al 40% dei casi. Gli autori ricordano che in Canada tutte queste condizioni sono aumentate di frequenza nella popolazione aborigena, largamente rappresentata nella loro casistica e rilevano che ciò può rappresentare di per se stesso un fattore di rischio sulla base di una predisposizione genetica. Per quanto concerne l’obesità, viene ricordato che questa è un fattore di aumentata morbilità, ma non chiaramente di mortalità ( Sakr Y, Madl C, Filipescu D, et al. Obesity is associated with increased morbidity but not mortality in critically ill patients. Intensive Care Med 2008; 34: 1999). Analogamente a quanto è stato segnalato nell’influenza cosidetta stagionale, gli autori riferiscono che nella loro casistica la presenza di diabete e di alcolismo hanno costituito fattori di rischio di sindrome da sofferenza acuta respiratoria.






Infine, la relativa assenza nei giovani adulti di gravi associazioni patologiche indicherebbe che questa popolazione è la più colpita durante la corrente pandemia.
È stato osservato che i pazienti in condizioni più gravi hanno presentato la sintomatologia 4 giorni prima del ricovero, ma sono rapidamente peggiorati, richiedendo il ricovero in unità di terapia intensiva entro 1-2 giorni.
È stato rilevato che, oltre i consueti sintomi influenzali, i pazienti più gravi hanno manifestato sintomi gastrointestinali, dispnea, espettorato purulento e, a volte, presenza di liquido schiumoso con la tosse o nell’aspirato tracheale. Alla radiografia del torace sono stati osservati infiltrati bilaterali interstiziali o alveolari in tre quarti dei casi.
In circa un terzo dei pazienti fin dal primo giorno di ricovero si è reso necessario un trattamento vasopressorio, associato a sedazione, al fine di favorire la ventilazione; in quasi tutti i pazienti sono stati usati antibiotici a largo spettro a motivo dell’iniziale sospetto di polmonite acquisita in comunità; nel corso della degenza è stata spesso documentata una polmonite batterica.
In un terzo dei casi, per le gravi condizioni dei pazienti, caratterizzate da grave ipossiemia e insufficienza respiratoria, si sono rese necessarie procedure di ventilazione e di rianimazione.
A Winnipeg, che è stata il centro dell’epidemia, il grande numero di persone che hanno avuto bisogno di ricovero in unità di terapia intensiva ha determinato un affollamento dei reparti; ciò induce, secondo gli autori, a prendere provvedimenti idonei ad affrontare il prevedibile aumento di richieste di ricovero che potrà verificarsi in occasione dell’influenza stagionale che verrà ad aggiungersi alla presente pandemia da A (H1N1).

Dominguez-Cherit G et al hanno osservato 58 casi gravi su 899 (5%) pazienti (5%) con probabile o sospetta o confermata influenza A (H1N1) in Messico (Dominguez-Cherit G, Lapinsky SE, Macias AE, et al. Critically ill patients with 2009 influenza A (H1N1) in Mexico. JAMA 2009; 302: 1880). Anche questi autori confermano che i pazienti con influenza A (H1N1) in condizioni gravi sono prevalentemente giovani, che si sono presentati in ospedale con febbre e sintomi respiratori. In genere questi soggetti hanno avuto un lungo periodo di malattia prima di richiedere il ricovero, cui ha fatto seguito un breve periodo di declino acuto e grave della funzione respiratoria con conseguente sindrome da sofferenza acuta respiratoria (ARDS: “acute respiratory distress syndrome”) che ha richiesto terapia ventilatoria; la mortalità entro 60 giorni è stata del 41%.
Secondo gli autori, questi dati inducono a ritenere che la mortalità del 41% dell’influenza A (H1N1) del 2009, associata a gravi condizioni cliniche, non sia differente da quella per sindrome da sofferenza acuta respiratoria delle altre epidemie influenzali, ma sia più alta di quella da grave sindrome respiratoria acuta (SARS: “severe acute respiratory syndrome”); inoltre i decessi osservati nel Messico durante l’attuale influenza sembrano più direttamente correlati a insufficienza respiratoria piuttosto che a insufficienza multiorgano, come del resto segnalato in recenti studi ( Oliveira EC, Lee B, Colice GL. Influenza in the Intensive Care Unit. J Intensive Care Med 2003; 18; 81. Phuor J, Badia JR, Adhikari NK et al. Has mortality from acute respiratory distress syndrome decreased over time? A systematic revue. Am J Respir Crit Care 2009; 179: 220). Tuttavia la più giovane età dei pazienti e le precedenti condizioni cliniche relativamente buone sono differenti da quelle dei pazienti nell’influenza stagionale e nella SARS.
Gli autori sottolineano che, sebbene gli esami sierologici indichino che l’influenza A (H1N1) è causata da un nuovo ceppo di virus influenzale, con conseguente scarsa protezione da parte della vaccinazione contro l’influenza stagionale, tuttavia i soggetti di oltre 60 anni si trovano probabilmente in condizioni di parziale immunità verso il nuovo virus, senza contare che in genere questi soggetti, attraverso una lunga storia di vaccinazioni annuali, possono essere in condizioni di immunità crociata ( Center for Disease Control and Prevention (CDC). Serum cross-reactive antibody response to a novel influenza A (H1N1) virus after vaccination with seasonal influenza vaccine. MMWR Morb Mortal Wkly Rep 2009; 58: 521).
Altre osservazioni riguardano: 1) a differenza dell’influenza stagionale, nella quale la diffusione del virus è massima in prossimità dell’inizio della malattia per poi diminuire rapidamente, nei pazienti con A (H1N1) e SARS la diffusione massima del virus si verifica in genere all’incirca dopo 7 giorni, coincidendo con il ricovero; 2) l’apparente assenza di trasmissione intraospedaliera tra i pazienti in condizioni critiche potrebbe essere spiegata con il fatto che questi soggetti si presentano in ospedale in media 6 giorni dopo l’inizio della sintomatologia; 3) le caratteristiche cliniche dei pazienti con A (H1N1) e in condizioni critiche possono spiegare l’accentuata mortalità dovuta a disfunzione cardiaca, respiratoria e renale; 4) recenti segnalazioni hanno indicato che l’aggravamento di questi pazienti può essere dovuto ad aumento della creatininemia e rabdomiolisi, 5) analogamente a quanto riferito da Kumar et al ( loc cit), l’obesità, che è risultata molto frequente in questi pazienti, non sembra avere influito sulla mortalità.






Nel concludere, gli autori ritengono che l’approfondimento delle conoscenze sulle caratteristiche cliniche dei pazienti con influenza A (H1N1) che si trovano in condizioni critiche e lo studio delle differenze con altre recenti infezioni respiratorie consentano una precoce diagnosi e un tempestivo trattamento al fine di ridurre la progressione di questa infezione.

In uno studio clinico condotto in California su 1088 pazienti con influenza A (H1N1) sono stati valutati i fattori associati a necessità di ricovero e mortalità (Louie JK, Acosta M, Winter K, et al. Factors associated with death or hospitalization due to pandemic 2009 influenza A (H1N1) infection in California. JAMA 2009; 302: 1896).
Gli autori hanno rilevato che un prevalente numero di pazienti ricoverati in ospedale per influenza A (H1N1) sono più giovani di quelli che sono affetti da influenza stagionale. Inoltre, mentre i bambini hanno presentato la più alta percentuale di ricovero, i soggetti di età superiore ai 50 anni hanno mostrato la più alta mortalità. I pazienti con quadro clinico di malattia respiratoria acuta hanno mostrato nei due terzi dei casi un quadro radiologico di polmonite. A differenza dell’influenza stagionale, gli adulti con A (H1N1) hanno frequentemente presentato disturbi gastrointestinali con nausea e vomito. Il ricovero in unità di terapia intensiva si è reso necessario nel 30% dei casi, prevalentemente adulti e bambini. La mortalità è stata dell’11%, prevalentemente dovuta a polmonite virale o ARDS. Non è risultata frequente dai controlli microbiologico un’infezione batterica sovrammessa.
Viene sottolineato che la percentuale di ospedalizzazione e/o di mortalità è stata dall’1,5 al 4,4% con l’eccezione dei bambini che hanno presentato una mortalità dell’11,9%; ciò deve indurre a dare la precedenza alla vaccinazione dei soggetti in contatto con i bambini. Anche Louie et al (loc cit) concordano nel ritenere che una elevata percentuale di adulti di oltre 60 anni ha un’immunità acquisita nel corso delle precedenti epidemie influenzali, ma rilevano che, nonostante una minore percentuale di ricoveri, i soggetti oltre i 50 anni hanno avuto la più alta mortalità, nonostante la probabile “protezione” conferita da precedenti infezioni o vaccinazioni.
Per quanto riguarda il ruolo dell’obesità quale fattore predisponente o aggravante, gli autori riferiscono che negli adulti nei quali è stato misurato l’indice di massa corporea (BMI: “body mass index”), oltre il 50% era obeso e il 25% aveva obesità patologica; inoltre, circa un terzo degli obesi non presentava altri fattori di rischio, sebbene il 27% fosse iperteso. Gli autori ritengono che un rapporto tra obesità e influenza, anche se non provato, sia possibile, poiché l’obesità è associata a molte condizioni che sono spesso correlate all’infezione, come diabete, malattie cardiovascolari e polmonari; fra queste ultime, in particolare, apnea ostruttiva del sonno e sindrome da ipoventilazione associate all’obesità; del resto gli obesi accolti nelle unità di terapia intensiva richiedono ventilazione meccanica e degenza più prolungate a confronto con i non obesi. In definitiva, nei pazienti con A (H1N1) in condizioni critiche, la misura del BMI può essere utile nel trattamento e nella prognosi.
Una particolare attenzione va riservata, nell’assistenza ai pazienti con influenza A (H1N1), agli esami sierologici. In proposito viene riferito che le prove rapide per l’identificazione dell’antigene danno risultati falsamente negativi nel 34% dei casi (Centers for Disease Control and Prevention. Evaluation of rapid influenza diagnostic tests for detection of novel influenza A (H1N1) virus – United States 2009. MMWR Morb Mortal Wkly Rep 2009; 58: 826).
Una maggiore sensibilità è stata notata con queste prove rapide nei bambini, probabilmente perché a queste età si verifica un maggior carico virale di lunga durata (Harper SA, Bradley JS, Englund JA, et al; Expert Panel of the Infectious Disease Society of America. Seasonal influenza in adult and children: diagnosis, treatment, chemoprophylaxis and ­institutional outbreak management: clinical practice guidelines of the Infectious Disease Society of America. Clin Infect Dis 2009; 48: 1003). Gli autori rimarcano che i medici debbono essere molto cauti nell’escludere una diagnosi di influenza A (H1N1) soltanto in base a prove sierologiche non molecolari.
Riferiscono inoltre che circa un quinto dei pazienti con influenza A (H1N1) non riceve mai un trattamento antivirale e che circa la metà lo riceve oltre 48 ore dopo l’inizio dei sintomi e che, anche se iniziata tardivamente, la terapia antivirale con un inibitore della neuroaminidasi può ridurre la mortalità.
È quindi necessario mantenere un elevato livello di sospetto nei riguardi dela pandemia influenzale del 2009 nei pazienti di oltre 50 anni con quadro clinico simil-influenzale o che presentano fattori di rischio di complicanze di questa infezione, indipendentemente dai risultati degli esami sierologici.

Patogenesi dell’encefalopatia epatica
Nell’interpretazione della patogenesi dell’encefalopatia epatica (EE) è tuttora oggetto di discussione il ruolo di un alterato metabolismo energetico cerebrale e di un’alterazione del flusso ematico cerebrale.
Recentemente lo studio del metabolismo cerebrale e del flusso ematico cerebrale è stato effettuato avvalendosi della tomografia a emissione di positroni (PET: “positron emission tomography”), esaminando le possibili differenze regionali tra questi parametri in tre gruppi di soggetti: pazienti con cirrosi epatica e con un episodio acuto di EE, pazienti con cirrosi epatica, ma senza EE e soggetti sani di controllo (Iversen P, Sørensen M, Bak LK, et al. Low cerebral oxygen consumption and blood flow in patients with cirrhosis and an acute episode of hepatic encephalopathy. Gastroenterology 2009; 136: 863).
È stato osservato che il metabolismo cerebrale dell’ossigeno e il flusso ematico cerebrale sono significativamente più ridotti nei cirrotici con EE rispetto ai cirrotici senza EE ed ai soggetti sani; inoltre non sono state dimostrate significative differenze tra cirrotici senza EE e soggetti sani.






Nella distribuzione regionale di questi parametri sono state osservate soltanto modeste differenze. Tuttavia nei pazienti con cirrosi ed EE la riduzione del metabolismo cerebrale dell’ossigeno è risultata più accentuata nella cortex occipitale, nello striato e nel talamo, mentre la riduzione del flusso ematico cerebrale è risultata più accentuata nella cortex parietale e in quella occipitale e nel talamo.
Non sono state rilevate correlazioni tra i livelli di questi parametri e la sintomatologia presentata dai pazienti, mentre è stata osservata correlazione tra la riduzione del metabolismo cerebrale dell’ossigeno e del flusso ematico cerebrale e l’ammoniemia; questa correlazione pone, secondo gli autori, il problema se il ridotto consumo di ossigeno nei pazienti con EE sia da imputare alla riduzione del flusso cerebrale indotta dall’iperammoniemia, oppure sia conseguenza della compromissione del metabolismo energetico cerebrale da questa provocata. Gli autori hanno osservato che la richiesta cerebrale totale di ossigeno è apparsa ridotta nei cirrotici con EE rispetto a quelli senza EE e ai soggetti sani di controllo, in rapporto alle modificazioni del flusso ematico cerebrale, tanto da far ritenere che la riduzione del flusso sia il risultato di tale minore richiesta.
Gli autori ritengono che la riduzione del metabolismo cerebrale dell’ossigeno, rilevata nei pazienti con EE, sia dovuta alla nota inibizione esplicata dall’iperammoniemia sulla alfa-chetoglutarato-deidrogenasi cerebrale, con conseguente riduzione del metabolismo ossidativo. In via alternativa, pensano che l’aumento della concentrazione dell’acido gamma-aminobutirrico (GABA) porti all’inibizione dell’attività neuronale e che tale inibizione traduca un effetto tossico diretto dell’ammonio sull’attività metabolica.
Gli autori concludono ritenendo che nella patogenesi dell’EE l’evento primario sia rappresentato da una disfunzione globale del metabolismo energetico cerebrale, ma che ancora resti da stabilire in quale modo l’ammonio interagisca con i processi metabolici cerebrali.

Recenti prospettive di terapia farmacologica dell’osteoartrosi
L’osteoartrosi (OA), inizialmente considerata una malattia della cartilagine, è attualmente descritta come caratterizzata da alterazioni strutturali e funzionali dell’intero organo articolare, la cui incidenza è andata progressivamente aumentando negli ultimi anni con l’aumento dell’obesità e della popolazione anziana. Gli studi più recenti hanno infatti consentito di dimostrare l’evoluzione patologica e clinica di tutta una varietà di alterazioni che determinano il danneggiamento anatomico e funzionale delle articolazioni sinoviali con degenerazione meniscale, danno dell’osso subcondrale, ipertrofia dell’osso e della cartilagine e reazione infiammatoria della sinovia; queste alterazioni portano alla perdita dell’equilibrio dinamico tra distruzione e riparazione dei tessuti articolari ( Eyre DR. Collagen and cartilage matrix homeostasis. Clin Orthop Relat Res 2004; 427 (suppl): S118).
Nonostante i progressi compiuti nelle conoscenze sulla patogenesi dell’OA, il trattamento mira essenzialmente al controllo del dolore, al miglioramento della funzione articolare e alla riduzione della disabilità, con particolare riguardo alla collaborazione e all’educazione del paziente. Negli ultimi anni, l’interesse dei ricercatori è stato rivolto alla possibilità di modificare la progressione del danno anatomo-funzionale che, come noto, è presente anche nei soggetti asintomatici.
Pertanto sono stati studiati e sono tuttora in corso di studio, alcuni farmaci che sono stati denominati “modificatori del processo morboso dell’OA” (DMOAD: “disease modifying osteoarthritis drugs”), seguendo il concetto applicato nella terapia dell’artrite reumatoide con l’introduzione dei farmaci modificatori del processo morboso (DMARD: “disease modifying anti-rheumatic drugs”) [vedi questa Rivista, vol. 88, pag. 107, marzo 1997].

In una recente rassegna critica su questi problemi sono state discusse le caratteristiche di tali modificazioni del processo morboso, con particolare riguardo alla distinzione tra prevenzione, rallentamento, arresto e regressione del processo morboso e alla significatività clinica di questi concetti (Hunter DJ, Hellio Le Graverand-Gastineau MP. How close are we to having structure-modifying drugs available? Med Clin N Am 2009; 93: 223).
Gli autori ricordano che l’OA è stata considerata una malattia della cartilagine; pertanto i primi tentativi terapeutici sono stati rivolti a proteggere la cartilagine nel corso della malattia con farmaci denominati per l’appunto “condroprotettori” (Verbruggen G, Verbruggen G. Chondroprotective drugs in degenerative joint diseases. Rheumatology 2006; 27: 1513).






L’osservazione che la protezione della cartilagine consente di ottenere un miglioramento clinico ha indotto a creare per questi farmaci il termine più appropriato di “disease-modifying osteoarthritis drugs” (DMOAD).
La ricerca di farmaci con queste proprietà è stata diretta a identificare sostanze in grado di consentire un ritardo o un’attenuazione delle indicazioni chirurgiche come la sostituzione dell’articolazione, oppure in grado di migliorare la funzione articolare e la qualità di vita. L’interesse dei ricercatori è stato rivolto principalmente ai seguenti farmaci: glucosamina solfato, condroitinsolfato, ialuronato sodico, doxiciclina, inibitori della metalloproteinasi della matrice (MMP), bifosfonati, calcitonina, diacereina e preparati di semi di soia e avocado insaponificabili ( Abramson SB, Attur M, Yazici Y: Prospect for disease modification in osteoarthritis. Nat Clin Pract Rheumatol 2006; 2: 304).
Hunter e coll. si soffermano sulle caratteristiche di questi farmaci, prospettando anche le difficoltà che sono sorte nel corso delle più recenti ricerche sulla loro utilità clinica.

a) Inibitori delle MMP. Alcuni di questi composti hanno mostrato un’attività specifica verso la MMP13, che è iper-espressa nella cartilagine danneggiata in corso di OA, ma con scarsa attività verso la MMP-1, che è implicata nella comparsa di danno della muscolatura scheletrica.
b) Doxiciclina. È stato osservato che la doxiciclina consente di ridurre la progressione del restringimento dello spazio articolare nell’OA, sebbene non sia in grado di prevenire questo fenomeno.
c) Diacereina. Si tratta di un derivato antrachinonico che inibisce l’interleuchina-18 (IL-18) implicata nell’infiammazione articolare e che inoltre stimola la produzione di fattori di accrescimento della cartilagine, come il TGF-β. Mentre alcuni studi hanno indicato la possibilità di ridurre con la diacereina (50 mg pro die) la progressione del danno articolare, dimostrata dall’esame radiografico, altre ricerche non hanno dimostrato un effetto modificatore del processo patologico articolare.
d) Bifosfonati. Questi farmaci sono stati proposti a motivo della loro attività verso l’aumento del rimodellamento osseo che si verifica nell’OA. I risultati clinici sono stati peraltro molto incerti, nonostante che quelli sperimentali e pre-clinici abbiamo indicato un effetto anti-riassorbimento osseo e riduzione delle lesioni del midollo osseo nell’osso subcondrale.
e) Calcitonina. Recenti ricerche pre-cliniche avrebbero dimostrato un effetto positivo sul rimodellamento osseo.
f) Glucosamina e acido ialuronico. I risultati degli studi sull’effetto di questi composti nell’OA sono controversi, tanto da non essere ancora approvati come DMOAD nell’OA.
g) Avocado e semi di soia non saponificabili. Di questi vegetali è stata segnalata la capacità di reprimere le attività cataboliche dei condrociti e di promuovere l’accumulo di proteoglicani da parte di condrociti in coltura, provenienti da tessuto con OA.

Dopo questo rapido excursus sulle nuove prospettive di interventi terapeutici nell’OA e sui farmaci modificatori del processo patologico, gli autori discutono dei bersagli che si mostrano promettenti nella ricerca di nuovi trattamenti e premettono che, tenendo presente che l’OA è una malattia dell’intero organo articolare, l’interesse è stato rivolto a diversi bersagli di diversi tessuti (Wieland HA, Michaelis M, Kirschbaum BJ et al. Osteoarthritis: an untreatable disease? Nat Rev Drug Discov 2005; 4: 331).

Viene ricordato, in proposito, che nell’OA è frequentemente presente una sinovite, che è responsabile della sintomatologia dolorosa ed è in rapporto con altre componenti clinico-patologiche della malattia. Come noto, la sinovia è densamente innervata da fibre nervose sensitive di piccolo diametro e che interleuchina-1 beta (IL-1b) e fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-α) determinano eccitamento e sensibilizzazione dei nociceptori, contribuendo all’iperalgesia infiammatoria attraverso il fattore di accrescimento nervoso (“nerve growth factor”: NGF); inoltre le citochine promuovono il rilascio di prostaglandina E2 (PGE2), sintetasi inducibile dell’ossido nitrico (iNOS) e istamina da condrociti, cellule meniscali e mastcellule, che indirettamente sensibilizzano i nocicettori. Tali rilievi suggeriscono di considerare questi eventi fisiopatologici come possibili bersagli dei DMOAD.

Ma vi sono altri bersagli ed altre possibilità. Uno di questi è la bradichinina, che viene prodotta dalla sinovia infiammata, come del resto da qualsiasi altro tessuto infiammato, e che può eccitare e sensibilizzare le fibre nervose sensitive.
Sono citati alcuni studi in fase II nei quali l’iniezione intrarticolare di un antagonista specifico del recettore per la brachinina B2 ha ridotto il dolore più efficacemente del placebo (Flechtenmacher J, Talke M, Veith D, et al. Bradichinin receptor inhibition: a therapeutic option in osteoarhritis? Osteoarthritis Cartilage 2004; 12 (Suppl): 1002).
Un altro interessante bersaglio è rappresentato dall’NGF, che esplica il suo effetto attraverso due recettori: un recettore ad alta affinità e uno a bassa affinità per la tirosin-chinasi (trkA), espressi entrambi nella cartilagine sinoviale, meniscale e articolare; è stato inoltre sperimentato un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro l’NGF (RN624: tanezumab); gli autori citano anche le ricerche su inibitori del TNF e altri trattamenti biologici che sono adottati con successo nell’artrite reumatoide. Nonostante alcuni promettenti risultati sperimentali su animali, sono stati osservati risultati incerti nell’uomo; secondo gli autori, ciò può spiegarsi col fatto che la sinovite sembra avere un ruolo nella sintomatologia nell’OA, ma in questa malattia essa rappresenta una risposta alla degradazione della cartilagine piuttosto che un fattore di rischio che vi predispone.
Vengono altresì richiamate le ricerche sull’effetto della vitamina D nell’OA effettuate in base a quanto è noto sul suo ruolo potenzialmente modificante le strutture ostearticolari e quelle sul ruolo delle proteine osteo-morfogenetiche e sul potenziale bersaglio terapeutico rappresentato della intensa vascolarizzazione delle aree di rimodellamento presenti nell’OA (Bonnet CS, Walsh DA. Osteoathritis, angiogenesis and inflammation. Rheumatology 2005; 44: 7), come anche dall’aumentata pressione vascolare presente nell’osso subarticolare, specialmente nel femore e nella tibia, dall’ingorgo venoso e dalla stimolazione chimica e meccanica delle terminazioni nervose sensitive delle pareti vascolari che possono contribuire alle alterazioni microvascolari o ischemiche e al dolore notturno nell’OA dell’anca e del ginocchio in fase avanzata (Mayerhoefer ME, Kramer J, Breitenseher MJ, et al. Short-term outcome of painful bone marrow oedema of the knee following oral treatment with iloprost or tramadol: results of an exploratory phase II study of 41 patients. Rheumatology 2007; 46: 1460). Gli autori sottolineano che questi studi appaiono promettenti, ma richiedono ulteriori controlli.







Un altro aspetto delle ricerche su nuove prospettive terapeutiche nell’OA riguarda lo studio degli agenti che esplicano attività sulla cartilagine ialina articolare. È noto infatti che un importante ruolo nella disintegrazione di questo tessuto è esplicato dalla citochina proinfiammatoria IL-1β, prodotta e rilasciata da condrociti e sinoviociti come pro-forma convertita in IL-1β attiva dall’ezima convertitore dell’interleuchina (ICE) (Wieland et al. loc cit) e che un ICE-inibitore ha mostrato di ridurre il danno articolare in ricerche su topi.
Gli autori concludono l’elenco dei possibili bersagli di terapia dell’OA riferendo gli studi in corso su un proteoglicano componente della matrice della cartilagine extracellulare (aggrecan) e sulla catepsina K, che è sovraregolata nel tessuto sinoviale infiammato.

La rassegna conclude richiamando l’attenzione sulla complessità della patogenesi dell’OA e in particolare sull’importanza etiopatogenetica dei fattori meccanici e ritenendo che trascurare il loro ruolo significherebbe negare ogni possibilità di un effettivo trattamento, anche se si riconosce che i tentativi di eliminare o ridurre un alterato allineamento articolare equivale, (parole degli AA) a “smuovere una montagna”. Tuttavia essi ritengono che ogni tentativo debba essere fatto, in accordo con quanto affermato da Brandt et al: “se gli sforzi che si fanno per sviluppare un trattamento biologico o con DMOAD dell’OA per stimolare la cartilagine con fattori di crescita o inibendo gli enzimi che degradano la matrice, non correggono anche le alterazioni e i disturbi meccanici che sono la causa principale del danno provocato dalla malattia articolare, allora questi trattamenti poco probabilmente provocheranno un “beneficio” ( Brandt KD, Radin EL, Dieppe PA, et al. Yet more evidence that osteoarthritis is not a cartilage disease. Ann Rheum Dis 2006; 65: 126).