Amare è facile, compatire è difficile
Nicolò Tommaseo




Le imprevedibili risorse del cuore
Una “sconfinata” giovinezza non può essere una realtà biologica, ma può costituirsi come creatura biografica immaginaria: un passato a paradossale conforto di irredimibile perdita del presente. È questa memoria episodica retrograda – non ancora aggredita da un Alzheimer ingravescente – ad alleviare, misericordioso balsamo della nostalgia, il percorso esistenziale che attende la coppia protagonista del recente film di Pupi Avati: i tempi e i luoghi di una condivisa malattia senza ritorno.



(Unasconfinata giovinezza, 998 min, 01 Distribution, 2010. Con Fabrizio Bentiviglio, Francesca Neri, Brian Fenzi, Serena Grandi, Lino Cpolicchio, Gianni Cavina).
Lino (Bentivoglio) e sua moglie Chicca (Neri), conducono un vita coniugale serena, senza gravi difficoltà, entrambi soddisfatti delle proprie professioni: lui giornalista sportivo di successo, lei docente in una prestigiosa Università. Anche l’assenza d’un figlio che ha accompagnato i venticinque anni di matrimonio non ha compromesso la loro unione. Ma, un giorno, Lino comincia ad accusare problemi di memoria che, man mano, si accentuano, compromettendo in modo sempre più severo la sua attività professionale e i suoi rapporti familiari e sociali. Fino alla diagnosi-sentenza: patologia degenerativa delle cellule cerebrali. Inizia così una toccante storia d’amore tra un uomo che si allontana sempre più dal presente – la mente trascinata in altri luoghi e altri giorni – e la sua compagna che, rifiutando fuga ed esclusione, decide di stargli accanto in un drammatico percorso a ritroso. Lino torna bambino e Chicca si ritrova tra le braccia il figlio che non ha potuto avere.
C’è molto autobiografia – il sentimento e la vita – del regista bolognese in questo intreccio di memorie e d’amore, poli d’una condizione che richiama a riflettere sul nostro tempo; sui riferimenti al corpo ed all’arte, i due estremi fra cui oscilla ogni esistenza: il reale ed il sogno.
Ambientato fra Roma e l’Emilia, il film è, per Avati, «un film sulla speranza: l’Alzheimer è più una malattia dei parenti che dei malati. Il tempo della storia – egli ha detto – assomiglia molto alla mia età, ove il ricordo diventa sempre più importante». E, dunque, il cane, l’incidente stradale in cui trovarono la morte i suoi genitori, le tabelline mandate a memoria, l’iniziazione sessuale, tutto il vissuto del regista si intreccia a una patologia che egli ha conosciuto attraverso suo suocero, malato di Alzheimer: «Un commercialista di Verona che incuteva timore e autorevolezza e che, con la malattia, divenne un ragazzino di 12 anni che diceva cretinate.» Ha scritto Eugenio Borgna: «Qui, nella dialettica tra memoria e speranza, tra smarrimento e recupero, qui è il mistero delle realtà umane che solo si dischiudono all’intuizione, come negazione delle categorie intellettuali della conoscenza.»
Come in opere analoghe – “Lontano da lei” di Sarah Polley e “La famiglia Savage” di Tamara Jenkis, variazioni sul tema dell’Alzheimer, ambedue del 2008 ed ambedue commentate in questa rivista [99; 2: 118-99; 99; 3: 176] – gli Autori e gli interpreti non offrono soltanto una testimonianza toccante su malattia e vulnerabilità; propongono, anche, alla sensibilità dello spettatore voci e gesti d’un linguaggio e di un agire capace di rendere meno incolmabile la distanza che ci separa dalla sofferenza dell’altro. «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» ammoniva Blaise Pascal, a sfida dell’aristocratico distacco cerebrocentrico del Fracastoro; ma se, finalmente – asciugando una lagrima, sostituendo l’afflizione dell’impotenza e gli sconfitti silenzi con la conoscenza di una speranza sommessa ma non illusa – cuore e cervello riuscissero una buona volta a “darsi del tu” (così come la poetica di Avati ci lascia confidare), allora, verosimilmente, ciascuno di noi potrebbe essere meno infelice.

Cecilia Bruno