Dalla letteratura




Sui rapporti tra bronchiettasie diffuse e fibrosi cistica
Le bronchiettasie diffuse (BD), definite come irreversibile dilatazione dei bronchi prossimali subsegmentali, si manifestano con tosse cronica, espettorato purulento, infezioni ricorrenti delle vie respiratorie inferiori e vario grado di ostruzione respiratoria. In circa la metà dei casi i fattori etiologici identificati sono infezioni nell’infanzia, difetti immunitari, aspergillosi broncopolmonare allergica, aspirazione di sostanze irritanti, discinesia ciliare primitiva, artrite reumatoide e altre connettiviti, colite ulcerosa e deficit di alfa-1-antitripsina. ( Pasteur MC, Helliwell SM, Houghton SJ, et al. An investigation into causative factors in patients with bronchiectasis. Am J Resp Crit Care Med 2000; 162: 1277).

Un’altra causa di BD, recentemente identificata, è la fibrosi cistica (FC), determinata dalla presenza di mutazioni di un gene che codifica per il regolatore della conduttanza transmembrana della FC (CFTR, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “cystic fibrosis transmembrane conductance regulator”). (King PT, Freezer NJ, Holmes PW, et al. Role of CFTR mutations in adult bronchiectasis. Thorax 2004; 59: 357). In questi casi le BD possono associarsi ad alcuni caratteristici aspetti della FC, come insufficienza pancreatica e infertilità maschile, ma a volte le BD rappresentano l’unico sintomo della FC, che può essere rivelata mediante l’anomalia della prova del sudore (cloruro ≥60 mmol/L nella secrezione sudorale), l’abnorme differenza di potenziale transepiteliale nasale e l’identificazione delle mutazioni di CFTR.

L’associazione tra disfunzione di CFTR e BD è stata studiata da Bienvenu et al, che hanno classificato un gruppo di 122 pazienti con BD e con una prova sudorale normale secondo il loro genotipo CFTR, valutando la differenza di potenziale transepiteliale nasale (Bienvenu T, Sermet-Gaudelus I, Burgel PR, et al. Cystic fibrosis transmembrane conductance regulator channel dysfunction in non-cystic fibrosis bronchiectasis. Am J Respir Crit Care Med 2010; 181: 1078). È stato osservato che da soggetti sani a pazienti con BD e a pazienti con classica FC esiste un continuum di disfunzione del CFTR nell’epitelio delle vie aeree valutabile con la misura della differenza di potenziale transepiteliale nasale; tale anomalia è nettamente associata con difetti nel gene CFTR. Inoltre, nei soggetti con BD, il fenotipo elettrofisiologico nasale è stato identificato secondo la presenza di mutazioni di CFTR classificata secondo tre gruppi: zero, una o due mutazioni.
Nel gruppo di pazienti con BD, portatori di una mutazione CFTR (DB-1), la valutazione del trasporto di sodio e di cloro ha mostrato significative differenze a confronto con i soggetti di controllo e con quelli portatori di zero o due mutazioni CFTR. Gli autori, a questo proposito, ricordano che anche in alcuni pazienti con una tipica FC può essere identificata soltanto una mutazione CFTR; pertanto essi non possono escludere che nel gruppo DB-1 siano inclusi portatori di un’altra mutazione tuttora non identificata. A questo riguardo gli autori ipotizzano che l’anomalo fenotipo elettrofisiologico nasale dei pazienti DB-1 dimostri che un’unica mutazione CFTR abbia conseguenze patogenetiche e che inoltre altri fattori ambientali e genetici possano probabilmente contribuire allo sviluppo della FC.
Nel concludere, gli autori si pongono il problema della diagnosi di FC nei pazienti con BD ricordando che l’European Consensus Group consiglia di avvalersi della prova sudorale nei soggetti con sintomatologia suggestiva di FC (De Boeck K, Wilschanski M, Castellani C, et al. Cystic fibrosis: terminology and diagnostic algorithms. Thorax 2006; 61: 627). Gli autori ritengono che nei pazienti con prova sudorale tra 30 e 60 mmol/L debbano essere eseguiti altri esami, come la misura della differenza di potenziale transapiteliale nasale e la genotipizzazione.
Recenti studi sull’insufficienza cardiaca con frazione di eiezione ventricolare sinistra conservata
Una percentuale – variabile dal 30 al 50% – dei pazienti con insufficienza cardiaca (IC) presenta una frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “left ventricular ejection fraction”) nei limiti normali o pressoché normali, in altri termini “conservata”; in questi casi si parla di “insufficienza cardiaca” con frazione di eiezione conservata (HFPEF: “heart failure with preserved ejection fraction”). I pazienti con HFPEF sono in genere più anziani, prevalentemente di sesso femminile ed ipertesi e meno frequentemente hanno cardiopatie ischemiche rispetto ai pazienti con insufficienza cardiaca e ridotta frazione di eiezione (HFREF: “heart failure with reduced ejection fraction”). Non è stato ancora definitivamente stabilito se la mortalità tra questi due forme di IC sia differente, poiché alcuni studi hanno indicato una mortalità annuale del 15% in entrambi i gruppi, mentre altri hanno indicato una mortalità significativamente inferiore nei pazienti con HFPEF ( Lee DS, Gona P, Vasan RS, et al. Relation of disease pathogenesis and risk factors to heart failure with preserved or reduced ejection fraction: insights from the Framingham Heart Study of the National Heart, Lung and Blood Institute. Circulation 2009; 119: 3070). In particolare, mentre è bene caratterizzata la modalità di obitus nei pazienti con HFREF, meno conosciuta è quella dei pazienti con HFPEF.
In un recente studio clinico è stata esaminata la modalità di obitus nei pazienti con HFPEF (Zile MR, Gaasch WH, Anand IS, et al, for the I-Preserve Investigators. Mode of death in patients with heart failure and a preserved ejection fraction.
Results from the Irbesartan in Heart Failure With Preserved Ejection Fraction Study (I-Preserve) Trial. Circulation 2010; 121: 1393). Lo scopo di questo studio è stato quello di esaminare le modalità di obitus dei pazienti con HFPEF trattati con irbesartan, determinare la frequenza dell’obitus, stabilire se l’irbesartan modifica tale modalità e infine se questa differisce dalla modalità di obitus dei pazienti con HFREF. Su 4128 pazienti arruolati in questo studio, 881 sono deceduti, 436 nel gruppo placebo e 445 in quello irbesartan. È stato osservato che: 1) il 60% dei decessi nei pazienti con HFPEF è stato di natura cardiovascolare, con l’insufficienza cardiaca e la morte improvvisa come cause più frequenti; 2) il trattamento con irbesartan non influisce, nel complesso, sulla mortalità; 3) le modalità di obitus differiscono tra i pazienti con HFPEF e quelli con HFREF poiché i primi hanno un maggior numero di eventi non cardiovascolari. Secondo gli autori, le modalità di obitus dei pazienti con HFPEF gettano una luce sulla fisiopatologia dell’insufficenza cardiaca in questi soggetti. Infatti, nonostante l’età più avanzata e la presenza di altre condizioni patologiche, la mortalità è stata cardiovascolare nel 60% dei casi, con le cause più frequenti, come detto, rappresentate da insufficienza cardiaca e morte improvvisa. Gli autori ritengono che i fattori che influiscono su questo comportamento vadano ricercati nell’estensione delle anomalie morfologiche e funzionali, quali l’estensione della funzione sistolica in rapporto con la funzione diastolica e il rimodellamento concentrico in rapporto a quello eccentrico ( Westermann D, Kasner M, Steendijk P, et al. Role of left ventricular stiffness in heart failure with normal ejection fraction. Circulation 2008; 117: 2051). Per quanto si riferisce alla morte improvvisa, gli autori ritengono che la causa più frequente sia rappresentata da aritmie, sebbene i fattori di ordine clinico, strutturale e funzionale possano essere simili nelle due forme cliniche di insufficienza cardiaca. Fra le possibili differenze fisiopatologiche che possono spiegare la diversa frequenza e la differente gravità delle manifestazioni cardiovascolari, gli autori citano l’ischemia subendocardica correlata all’aumentata pressione diastolica ventricolare sinistra in un ventricolo sinistro con rimodellamento concentrico, che è più frequente nell’HFPEF; per contro, l’ischemia miocardica causata da malattia di una coronaria epicardica è più frequente nell’HFREF. Un altro aspetto comune alle due forme è l’aumentata fibrosi miocardica che può anche essa causare aritmie; ma gli autori ricordano che esistono differenze nell’estensione e nella struttura della fibrosi miocardica; infatti nell’HFREF è presente una fibrosi localizzata regionale che può condurre ad aritmia più frequentemente del diffuso incremento della matrice fibrillare extracellulare del collageno che è presente nell’HFPEF.
Per quanto riguarda la mortalità legata ad altre patologie, è stato notato che è più frequente nell’HFPEF e che dipende essenzialmente dall’età, dal numero e dalla natura di queste condizioni; di particolare rilevanza è, nell’HFPEF, la frequenza dell’ipertensione.
Concludendo, gli autori rimarcano che nei pazienti con HFPEF l’obitus è dovuto principalmente a insufficienza cardiaca o a morte improvvisa, spesso causata da aritmia. Inoltre in questi pazienti le patologie non cardiovascolari sono più frequenti cause di obitus rispetto ai pazienti con HFREF. È stato notato, infine, che il trattamento con irbesartan non ha influito sulla mortalità e ciò, secondo gli autori, può avere un significato nella comprensione dei meccanismi fisiopatologici sottendono l’HFPEF.



Sull’effetto della metformina nella mortalità diabetica
Nonostante il progresso nella prevenzione delle complicanze del diabete mellito di tipo 2 (DM2), la mortalità diabetica è tuttora notevole.
Sono noti i risultati degli studi che hanno indicato l’inefficacia dello stretto controllo glicemico nei diabetici ad elevato alto rischio di complicanze cardiovacolari (Turnbull FM, Abraira C, Anderson RJ, et al. Control Group. Intensive glucose control and macrovascular outcomes in type 2 diabetes. Diabetologia 2009, 52, 2288).
È altresì noto che la metformina è divenuto il farmaco di prima scelta nei diabetici di nuova diagnosi, specialmente se in sovrappeso, e che ciò ha portato a una riduzione della mortalità per diabete; è stato inoltre osservato che la terapia con metformina ha consentito di prevenire la complicazioni diabetiche cardiovascolari. Tuttavia, l’introduzione della metformina è stata ritardata per la preoccupazione della acidosi lattica in soggetti in condizioni croniche, come le cardiopatie e l’insufficienza renale, che possono predisporre a questa alterazione metabolica.
Recentemente sono stati valutati i potenziali rischi e beneficî associati alla metformina quale mezzo di prevenzione secondaria cardiovascolare in soggetti con DM2. A questo fine sono stati studiati 19691 pazienti con DM2 nel corso di una prevenzione secondaria nel Reduction of Atherothrombosis for Continued  Health (REACH) Registry (Roussel R, Travert F, Pasquet B, et al. for the Reduction of Atherothrombosis for Continued Health (Reach) Registry Investigators. Metformin use and mortality among patients with diabetes and atherothrombosis. Arch Intern Med 2010; 170: 1892), allo scopo di stabilire se l’uso di metformina è associato a una differenza nella mortalità in diabetici con coronariopatie, malattie cerebrovascolari o arteriopatie periferiche.
È stato rilevato che l’uso di metformina come mezzo di prevenzione secondaria di associa a una riduzione del 24% di tutte le cause di mortalità dopo 2 anni di osservazione. Tale riduzione non è stata osservata con nessun farmaco ipoglicemizzante e inoltre è rimasta immutata, dopo controllo di potenziali fattori confondenti in alcuni sottogruppi clinici.
Gli autori osservano che la diminuzione della mortalità diabetica associata alla metformina è dovuta principalmente all’effetto di questa sull’insulino-resistenza epatica e ricordano che l’insulino-resistenza è ritenuta un fattore indipendente di rischio cardiovascolare. Inoltre la metformina produce un modesto miglioramento del livello lipoproteico e una lieve riduzione del peso corporeo, riconosciuti fattori di rischio cardiovascolare. Questi risultati appaiono analoghi a quelli riferiti in precedenti ricerche sugli effetti della monoterapia con metformina nel DM a confronto con altri antidiabetici e viene sottolineato che la metformina è stata prescritta anche a diabetici con moderata insufficienza renale, in contraddizione con recenti linee guida. Si ricorda in proposito che l’acidosi lattica è il più grave effetto collaterale della metformina e che, pertanto, il farmaco va usato con cautela in condizioni di insufficienza cardiaca congestizia, ipoperfusione, insufficienza renale, pneumopatie croniche e nell’età avanzata. Gli autori ritengono che la ridotta mortalità diabetica osservata nella loro casistica sia dovuta all’effetto della metformina, anche se si deve procedere con cautela nel trarre deduzioni definitive, perché, riconoscono, nel loro studio non hanno valutato i livelli di emoglobina glicosilata e non hanno specificamente riportato i casi di acidosi lattica, pur avendo confermato l’utilità della metformina anche in diabetici con insufficienza cardiaca congestizia e con moderata insufficienza renale.



La microalbuminuria nella
prognosi della
broncopneumopatia cronica ostruttiva
È noto che la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) è caratterizzata da una reazione infiammatoria polmonare con importanti manifestazioni extrapolmonari. Nonostante che nella BPCO sia stata identificata l’implicazione di molte citochine e mediatori dell’infiammazione, i rapporti tra questa patologia e le sue espressioni sistemiche sono tuttora oggetto di studio (Rabe KF, Hurd S, Anzueto A, et al. Global strategy for the diagnosis, management and prevention of chronic obstructive pulmonary disease. NHLBI/WHO Global Initiative for chronic obstructive pulmonary disease (GOLD) Workshop summary. Am J Respir Crit Care Med 2007; 176: 532. Update 2009). È altresì noto che le malattie cardiovascolari sono la più importante causa di mortalità nella BPCO e che la possibilità di identificare precocemente anomalie cardiovascolari subcliniche in pazienti con BPCO dipende dalle tecniche diagnostiche adoperate. Studi recenti hanno indicato che la microalbuminuria (MAB) è un marcatore sensibile di rischio cardiovascolare (Weir MR. Microalbuminuria and cardiovascular discase. Clin J Am Soc Nephrol 2007; 2: 581). Infatti è stato osservato che la presenza di MAB è costantemente associata a rigidità arteriosa valutata dalla velocità dell’onda pulsatoria del polso e dall’aggravamento del decorso delle cardiopatie nei pazienti diabetici e ipertesi e anche nella popolazione generale. Si ritiene che la MAB rifletta una condizione di disfunzione endoteliale generalizzata e rappresenti pertanto un emergente bersaglio terapeutico.
Recentemente è stato ipotizzato che la MAB sia aumentata nei pazienti con BPCO indipendentemente da altri fattori di rischio e per confermare questa ipotesi è stata determinata la prevalenza della MAB in un gruppo di pazienti con BPCO ed è stata studiata la correlazione tra livello di MAB e indicatori degli aspetti fisiopatologici e della gravità clinica della BPCO; un gruppo di soggetti fumatori senza BPCO ha servito di controllo (Casanova C, de Torres JP, Navarro J, et al. Microalbuminuria and hypoxemia in patients with chronic obstructive pulmonary disease. Am J Respir  Crit Care Med 2010; 182: 1004). Sono stati studiati 129 pazienti con BPCO stabile e 51 fumatori con spirometria normale, valutando albuminuria, rapporto albuminuria-creatininemia, pressione arteriosa, scambi gassosi, indice di massa corporea, dispnea, resistenza allo sforzo fisico e presenza di condizioni patologiche associate.
È stata osservata una più elevata prevalenza di MAB nei pazienti con BPCO stabile a confronto con soggetti fumatori di controllo (24% contro 6%). I livelli di MAB sono risultati inversamente correlati con la PaO2 e positivamente correlati con la PaCO2 e la differenza alveolare-arteriolare PO2 (A-PO2), ma non con altri parametri di funzione polmonare; inoltre il livello di MAB è apparso stabile per un anno. Questa percentuale di MAB è simile a quella osservata (25%) in diabetici (Cogo A, Caccia A, Legorini C, et al. Proteinuria in COPD patients with and without respiratory failure. Chest 2003; 123: 652). È stato inoltre rilevato che non sono state dimostrate differenze nella storia di ipertensione e diabete tra i pazienti con BPCO con o senza MAB; tuttavia i pazienti con MAB hanno presentato un livello leggermente maggiore di pressione arteriosa sistolica al quale gli autori non sanno attribuire un chiaro significato clinico. La prevalenza di diabete è stata più alta nel gruppo con BPCO, ma non in maniera significativa e la differenza nei livelli di MAB tra soggetti con BPCO e soggetti di controllo è rimasta significativa anche quando sono stati esclusi i diabetici. Per contro, l’osservazione di un’associazione significativa e indipendente tra PaO 2 e MAB è in linea con la presenza di MAB nei pazienti con BPCO e riacutizzazioni. D’altra parte, gli autori hanno osservato una correlazione tra MAB e ipossiemia che è più netta che con altri fattori di rischio cardiovascolare.
Gli autori hanno notato che gran parte dei pazienti con MAB avevano ipossiemia e che i più elevati valori di MAB (>50mg/g) sono stati osservati in pazienti con livelli di PO2 minori di 70 mm Hg. Ciò nonostante, alcuni pazienti con ipossiemia non presentavano MAB.
Questo significa, secondo gli Autori, che altri fattori, come una predisposizione genetica allo stress ossidativo, possano avere un ruolo importante. Gli autori ricordano in proposito che la comparsa di anoressia in pazienti con BPCO e in soggetti normali esposti ad alta altitudine dimostra l’importanza dell’ipossia sui meccanismi regolatori del metabolismo. Inoltre le cellule endoteliali possono essere influenzate direttamente dai prodotti del fumo di sigaretta e potrebbero essere associate con reattività a stimoli ipossici, alterando l’equilibrio tra ventilazione e perfusione (V A/Q).
La misura della MAB assume pertanto, come indicato da numerosi studi, il valore di mezzo idoneo all’identificazione di una disfunzione endoteliale generalizzata e a riconoscere i pazienti con BPCO ad accresciuto rischio cardiovascolare ed a prognosi più grave.



Sull’uso del paracetamolo
in condizioni cardiovascolari
Le attuali linee guida consigliano il paracetamolo come analgesico di scelta di prima linea nel trattamento del dolore cronico, nonostante la sua più debole potenza, specialmente nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare o in condizioni cardiovascolari stabili (Antman EM, Bennett JS, Daugherty A, et al. Use of nonsteroidal antiinflammatory drugs: an update for clinicians: a scientific statement from the American Heart Association. Circulation 2007; 115: 1634).
Infatti il paracetamolo era finora considerato innocuo a dosi terapeutiche. È noto, tuttavia, che alcuni studi hanno collegato il paracetamolo a una più alta incidenza di ipertensione (Forman JP, Rimm EB, Curhan OC, Frequency of analgesic use and risk of hypertension among men. Arch Internal Med 2007; 167: 394).
In una recente ricerca è stato valutato il potenziale impatto del paracetamolo sulla pressione arteriosa ambulatoriale (PAA) e sulla funzione vascolare in pazienti con arteriopatia coronarica stabilizzata nei quali i tradizionali farmaci antifiammatori non steroidei (FANS) e gli inibitori COX-2 sono controindicati e il paracetamolo è attualmente considerato farmaco di scelta (Sudano I, Flammer AJ, Périat D, et al. Acetaminophen increases blood pressure in patients with coronary disease: Circulation 2010; 122: 1789).
Sono stati studiati 33 pazienti con arteriopatia coronarica, documentata da angiografia coronarica, tecnica per immagine nucleare o prova di stress positiva, che si trovavano da almeno 1 mese in terapia cardiovascolare stabile (da 18 a 80 anni di età).
È stato osservato un significativo aumento di PAA in pazienti con arteriopatia coronarica trattati con paracetamolo alla dose di 1 g tre volte al giorno, con nessun effetto significativo sulla funzione endoteliale, sulle cellule progenitrici endoteliali e sulla funzione delle piastrine. Tali risultati mettono in discussione l’innocuità del paracetamolo in questi pazienti e indicano inoltre che l’aumento della pressione notato con il paracetamolo è dello stesso ordine di quello osservato con diclofenac e ibuprofen.
Gli autori riconoscono che gli studi controllati sul paracetamolo sono scarsi, con risultati a volte contrastanti (Pavlicevic I, Kazmanic M, Rumboldt M. Interaction between antihypertensives and NSAIDS in primary care: a controlled trial. Can Pharmacol 2008; 15: e 372). Tuttavia, data la diffusione dell’uso del paracetamolo come farmaco di prima scelta nei pazienti nei quali sono controindicati i FANS, la risposta pressoria osservata in questo studio rappresenta un importante problema clinico.
Viene ricordato che probabilmente i FANS inducono un aumento pressorio bloccando la sintesi delle prostaglandine che regolano il tono vascolare e l’escrezione di sodio. Il paracetamolo è considerato un debole inibitore della sintesi delle prostaglandine. È stato inoltre osservato che all’aumento dei valori pressori indotto dal paracetamolo ha corrisposto una diminuizione della frequenza cardiaca. Gli autori ritengono che queste modificazioni, anche se lievi, dipendano da un prevalente meccanismo centrale del paracetamolo che interessa COX-1, che è specificamente inibita da questo farmaco ed è presente principalmente nel cervello e nel midollo spinale.
L’effetto antipertensivo del paracetamolo potrebbe essere mediato da una attività COX-3 centrale o dall’inibizione di COX-2 oppure da una indiretta attivazione dei recettori cannabinoidi CB(1) (Bertolini A, Ferrari A, Ottani A, et al. Paracetamol: new vistas of an old drug. CNS Drug Rew 2006; 12: 250).
L’uso del paracetamolo non ha determinato un peggioramento della funzione endoteliale, probabilmente perché la durata di 2 settimane del trattamento è stata troppo breve e anche per il contemporaneo trattamento con ACE-inibitori e statine.
In un commento di questi risultati, White e Campbell osservano che un più prolungato periodo di trattamento con paracetamolo potrebbe provocare un più sostanziale aumento della pressione (White WB, Campbell P. Blood pressure destabilization on nonsteroidal antiinflammatory agents. Acetaminophen exposed? Circulation 2010; 122: 1779). Questi autori ritengono di interpretare i dubbi dei clinici sul problema del paracetamolo – che ha effetto definito “minore” sul dolore e che è “del tutto” inefficace su i processi infiammatori come artrite reumatoide e osteartrosi avanzata – tenendo presenti i possibili effetti del farmaco – a dosi superiori a 3 g/d – sulla funzione epatica. Lo studio conclude che, al momento attuale, in attesa di trial clinici controllati e più estesi, si debba procedere con molta cautela nell’uso del paracetamolo in pazienti con malattie cardiovascolari.