Dalla letteratura

Paracetamolo
e rischio di asma bronchiale
Studi epidemiologici recenti hanno mostrato che l’uso del paracetamolo può accrescere il rischio di asma bronchiale (AB), contribuendo all’accresciuta prevalenza di questa malattia (Farquhar H, Stewart A, Mitchell E, et al. The role of paracetamol in the pathogenesis of asthma. Clin Exp Allergy 2010; 40: 32). È stato inoltre osservato che anche l’esposizione al paracetamolo durante la vita uterina si associa ad aumentato rischio di AB. Si ritiene che questo effetto del paracetamolo sia collegato all’infiammazione delle vie aeree causata da ossidanti e da accentuata risposta alle cellule Th2 (Farquhar et al loc cit).
Queste osservazioni hanno trovato conferma in uno studio in fase 3 dell’International Study of Asthma and Allergies in Chidhood (ISAAC) che ha segnalato che l’uso del paracetamolo nel primo anno di vita si associa a rischio di sintomi di AB nel 6° e 7° anno di vita. L’associazione tra paracetamolo e AB è stata esaminata anche in soggetti di 13-14 anni (Beasley RW, Clayton TO, Crane J, et al. Acetaminophen use and risk of asthma rhinoconjunctivitis and eczema in adolescents. Am J Respir Crit Care Med 2011; 183: 171).
L’entità di questa associazione è stata significativa, con un aumento del rischio di 2,5 volte nei soggetti che hanno fatto frequente uso di paracetamolo (almeno una volta al mese). Gli autori sottolineano che risultati simili sono stati ottenuti registrando episodi asmatici gravi (mediante questionario scritto) e con l’osservazione di episodi di respiro affannoso o “wheeze”, che non è ancora asma, valutati mediante video-questionario.
Quanto rilevato nei soggetti esaminati ha un rilevante significato di pubblico interesse, essendo stati effettuati gli studi su popolazioni di diverse regioni del mondo.
Oltre ad aver indicato aumento del rischio asmatico, gli studi di Beasley et al (loc cit) hanno dimostrato un’associazione tra uso di paracetamolo e sintomi di congiuntivite ed eczema, indipendentemente dalla presenza di AB. Gli autori ritengono pertanto che il paracetamolo possa avere effetti infiammatori sistemici, probabilmente attraverso stress ossidativo derivante dalla deplezione di enzimi dipendenti dal glutatione, eventualmente con accentuata risposta immuno-allergica Th2 (Farquhar, et al, loc cit). Questi meccanismi possono determinare un peggioramento dei momenti infiammatori, peggiorando l’AB, la rinocongiuntivite e l’eczema. Del resto, come gli autori ricordano, è noto che il paracetamolo può sopprimere le risposte immunitarie e prolungare la sintomatologia delle infezioni da rhinovirus, che sono spesso responsabili di aggravamento dei quadri asmatici nell’infanzia e nell’età adulta. In proposito viene citata l’osservazione sull’uso profilattico del paracetamolo per modellare la risposta immunitaria alla vaccinazione ( Prymula R, Siegrist CA, Chlibek R, et al. Effect of prophylactic paracetamol administration at time of vaccination on febrile reactions and antibody reponses in children: two open-label, randomised controlled trials. Lancet 2009; 374: 1339).
Nel concludere, gli autori ritengono che, anche se l’uso del paracetamolo nell’infanzia può rappresentare un importante fattore di rischio di sviluppare o mantenere una AB, tuttavia, al momento attuale, non è possibile accertare se la positiva associazione evidenziata sia causale e che pertanto siano necessari ulteriori studi clinici su questo problema.
Sui rapporti tra vitamina D
e rischio cardiovascolare
Recenti studi hanno indicato che il calcitriolo o vitamin D (25-idrossivitamina D3) assume un ruolo rilevante nella patogenesi di molte condizioni patologiche croniche; è noto, infatti, che recettori per la vitamina D si trovano in cellule endoteliali, cellule muscolari lisce vascolari, cardiomiociti e cellule del sistema immunitario (Mascitelli L, Goldstein MR, Pezzeta F. Carenza di vitamina D e malattie cardiovascolari. Recenti Prog Med 2010; 101: 202). È stato inoltre osservato che la vitamina D, in ragione della sua diffusione nell’organismo, esplica effetti fisiologici nella regolazione della proliferazione e nella differenziazione cellulari, nel controllo del sistema immunitario, nella regolazione della funzione delle cellule beta pancreatiche e nella contrattilità e nell’ipertrofia cardiaca (Bouillon, R, Carmeliet G, Verlinden L, et al. Vitamin D and human health: lessons from vitamin receptor null mice. Endocr Rev 2008; 29: 726).
Un particolare interesse hanno suscitato questi studi nei riguardi del sistema cardiovascolare, essendo stato dimostrato che la vitamina D esplica positivi effetti nei pazienti in emodialisi e con ipertrofia miocardica, riducendone la mortalità. D’altra parte, è noto che un deficit di vitamina D è ritenuto importante nella spiegazione della morbilità e nella mortalità collegate alla ridotta esposizione ai raggi solari di alcune popolazioni in alcune aree geografiche e in alcune stagioni. Si ritiene che questi effetti siano dovuti all’azione della vitamina D sulla funzione endoteliale e alla soppressione dell’infiammazione con conseguente disfunzione endoteliale promossa da un suo deficit.
Recentemente è stato osservato che un marcatore e mediatore di disfunzione endoteliale è rappresentato dalla dimetil-arginina asimmetrica (DAA). Essi è un antagonista competitivo della sintetasi dell’ossido nitrico che inibisce, a livello endoteliale, la bioconversione, da questa mediata, dell’arginina, con liberazione di ossido nitrico (NO) e conseguente regolazione della funzione endoteliale (Boger RH. The emerging role for asymmetric dimethylarginine as a novel cardiovascular risk factor. Cardiovasc Res 2003; 59: 824).
Contemporaneamente agli studi sulla DAA, quale fattore indipendente di rischio cardiovascolare, si sono sviluppati studi sul ruolo della proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hsCRP) (Sabatine MS, Morrow DA, Jablonski KA, et al. Prognostic significance of the Centers for Disease Control/American Heart Association high-sensitivity C-reactive protein cut points for cardiovascular and other outcomes in patients with stable coronary artery disease. Circulation 2007; 115: 1528) ed è stato ipotizzato che esista una potenziale interazione tra hsCRP e DAA nell’attivazione del processo infiammatorio, giustificando gli studi sul ruolo della vitamina D nella fisiopatologia cardiovascolare, nella funzione endoteliale e nell’infiammazione.
Ngo et al hanno studiato i rapporti tra la concentrazione di 25- idrossivitamina D3, che è una misura della vitamina D, e la concentrazione di DAA in un gruppo di anziani, in condizioni definite “normali” e, inoltre, i rapporti con le concentrazioni di hsCRP attiva (Ngo DT, Sverdlov AL, McNeil JJ, et al. Does vitamin D modulate asymmetric dimethylarginine and C-reactive protein concentrations? Am J Med 2010; 123: 335). Lo studio è stato condotto su 253 soggetti di età tra 51 e 71 anni (media 63,4) nei quali sono state determinate le concentrazioni plasmatiche di 25-idrossivitamina D, DAA e hsCRP.
È stato osservato che basse concentrazioni di 25-idrossivitamina D si associano ad aumento dei livelli plasmatici sia di DAA che di hsCRP. Gli autori ritengono che questi risultati si spieghino con i meccanismi che sottendono a questi aumenti e ricordano, in proposito, il rapporto inverso tra livello plasmatico di vitamina D e incidenza di obesità, ipertensione e diabete, e l’aumentato rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti con bassi livelli di questa vitamina. Sono ricordati, al riguardo, gli studi sperimentali che hanno indotto a ritenere che la vitamina D può accrescere l’espressione e l’attività della NO sintetasi (tipo III) endoteliale che promuove la produzione e la biodisponibilità di NO. Inoltre è noto che il trattamento delle cellule endoteliali con calcitriolo contrasta in maniera significativa la sottoregolazione delle sintetasi di NO indotta dai prodotti terminali della glicosilazione avanzata.
Per quanto concerne l’aumento della DAA, gli autori ricordano l’aumento del rischio di coronaropatie osservato anche in coincidenza con modesti aumenti di questo marcatore e la correlazione tra livello di DAA e fluttuazioni stagionali del livello di vitamina D.
I constatati rapporti tra bassi livelli di vitamina D ed elevati livelli di hsCRP confermano l’effetto protettivo della vitamina sull’infiammazione che, come noto, ha un importante ruolo nella patogenesi della rottura della placca ateromatosa.
È stato rilevato inoltre che l’associazione tra livello di vitamina D e hsCRP appare indipendente dall’aumento di DAA, inducendo a ritenere che differenti meccanismi sono operanti in questi eventi.
Nel concludere, gli autori ritengono che i rapporti tra bassi livelli di vitamina D e attivazione endoteliale e infiammatoria spieghino la correlazione con il rischio coronarico, inducendo a ritenere che supplementi di vitamina D possano normalizzare i livelli di DAA e di hsCRP, riducendo il rischio cardiovascolare.



Fidaxomicina
nel trattamento dell’infezione
da
Clostridium difficile
Negli ultimi anni l’infezione da Clostridium difficile, che generalmente si verifica dopo esposizione ad antibiotici a largo spettro, è diventata più frequente e più grave. Questo fenomeno è stato attribuito all’emergenza di ceppi di C. difficile ipervirulenti, conosciuti come ceppi NAP1, B1 e O27 o, collettivamente, NAP1/B1/O27. Inoltre si sono verificati una diffusione dell’infezione in popolazioni finora considerate a basso rischio e un aumento della mortalità.
Come noto, l’infezione da C. difficile può assumere varie forme cliniche: 1) diffusione a breve termine e asintomatica, che si osserva generalmente in soggetti accolti in strutture sanitarie, 2) sindrome diarroica acuta di varia intensità, 3) colite pseudomembranosa, spesso associata a sepsi e mortale. Uno degli aspetti più preoccupanti di questa infezione è la notevole frequenza (dal 20 al 30%) delle ricorrenze, dovuta, in parte, alla difficoltà di ristabilire una microflora intestinale normale o alla persistenza nell’intestino di spore di C. difficile, oppure a difettosa risposta immunitaria dell’ospite.
Al momento attuale, il trattamento antibiotico dell’infezione effettuato sia con metronidazolo che, nei casi più gravi, con vancomicina è apparso inadeguato; di qui la continua ricerca di nuovi antibiotici, tesa soprattutto a inibire le cellule vegetative di C. difficile e, contemporaneamente, a preservare o ripristinare una normale flora intestinale.
In un recente studio clinico in fase 3 su 629 pazienti è stato valutato l’effetto della fidaxomicina, un antibiotico macrociclico, sull’infezione da C. difficile, a confronto con la vancomicina (Louie TJ, Miller MA, Mullane KO. Fidaxomicin versus vancomicin for Clostridium difficile infection. N Engl J Med 2011; 364: 422).
La fidaxomicina (in precedenza designata con la sigla OPT-80) è caratterizzata da minimo assorbimento intestinale, elevata concentrazione fecale e, in vitro e in vitro, limitata attività verso i componenti della normale flora intestinale (Ackermann G, Löffler B, Adler D, et al. In vitro activity of OPT-80 against Clostridium difficile. Antimicrob Agents Chemother 2004; 48: 2280).
Inoltre la fidaxomicina ha uno spettro di attività verso C. difficile e molti ceppi di stafilococchi e di enterococchi, ma ha una minima attività verso gram-negativi e miceti. Queste caratteristiche hanno indotto a ritenere questo antibiotico adeguato a esplicare un’elevata selettività verso C. difficile.
Nello studio di Louie et al (loc cit) la fidaxomicina ha consentito di ottenere un 45% di riduzione delle ricorrenze a confronto con la vancomicina e un corrispondente miglioramento del decorso clinico. Gli autori sottolineano che nel 35,9% dei pazienti infetti con il ceppo B1/NAP1/O27 e trattati con fidaxomicina la percentuale di ricorrenze e di guarigione è stata la stessa osservata nei pazienti trattati con vancomicina, ma per il 64,1% dei pazienti con altri ceppi, la percentuale di ricorrenze è stata del 7,8% con fidaxomicina a confronto del 25,5% con vancomicina. Secondo gli autori, la riduzione delle ricorrenze consente di ridurre la diffusione dell’infezione. Essi, inoltre; pensano che i favorevoli risultati ottenuti con la fidaxomicina siano in gran parte dovuti alle sue caratteristiche microbiologiche. Infatti questo antibiotico esplica una rapida azione battericida, mentre la vancomicina è batteriostatica; inoltre la fidaxomicina ha un prolungato effetto postantibiotico contro C. difficile, che la vancomicina non possiede, oltre a rasentare un ristretto spettro antimicrobico. Infine la fidaxomicina non influisce sulla normale microflora anaerobica intestinale che, si ritiene, consente di prevenire l’introduzione o la persistenza di patogeni, inibendo la riemergenza di C. difficile.
Nel concludere, gli autori ritengono che fidaxomicina e vancomicina abbiano una efficacia simile nei riguardi della risoluzione clinica dalla sindrome diarroica acuta dovuta a C. difficile, ma che una più prolungata risoluzione dell’infezione sia ottenibile con la fidaxomicina, risultato in parte dovuto alla minore alterazione della microflora intestinale.

Nel commentare questi risultati, Du Pont rileva che la significativa riduzione della percentuale e delle ricorrenze dell’infezione da C. difficile ottenuta con la fidaxomicina a confronto con la vancomicina rappresenta un importante progresso nel trattamento di questa infezione (Du Pont HL. The search for effective treatment of Clostridium difficile infection. N Engl J Med 2011; 364: 473-475).
L’autore ritiene che siano necessari ulteriori studi clinici per determinare la durata ottimale del trattamento e per valutare le modificazioni della microflora intestinale prima e dopo la terapia.
Secondo Du Pont (loc cit), tenendo presente che, come noto, la percentuale di ricorrenze è più elevata nei pazienti nei quali non si sviluppano anticorpi IgG diretti contro la tossina di C. difficile, la terapia di questa infezione dovrà associare agli antibiotici l’uso di immunoglobuline, di anticorpi monoclonali anti-tossina di C. difficile e di una immunizzazione attiva.



Rifaximina nella sindrome
dell’intestino irritabile
Recentemente un accresciuto interesse ha suscitato il ruolo delle alterazioni della flora batterica intestinale nella patogenesi e nella clinica della sindrome dell’intestino irritabile (IBS, secondo l’acronimo d’uso internazionale: “irritable bowel syndrome”) (Leek KJ, Tack J. Altered intestinal microbiota in irritable bowel syndrome. Neurogastroenterol Motil 2010; 22: 493).

In questo contesto sono state effettuate ricerche sull’uso di antibiotici scarsamente assorbiti nell’intestino ed è stato studiato l’effetto della rifaximina in pazienti con IBS senza stipsi (Pimentel M, Lembo A, Chey WD, et al, for the TARGET Study Group Rifaximin therapy for patients with irritable bowel syndrome without constipation. N Engl J Med 2011; 364: 22). In questo studio randomizzato a doppio cieco, due gruppi per complessivi 1260 pazienti con IBS senza stipsi sono stati trattati per due settimane con 550 mg tre volte al giorno di rifaximina e con placebo, seguiti da un controllo post-trattamento per 10 settimane.

Come punto di riferimento primario è stata valutata la percentuale di pazienti che hanno presentato un miglioramento, definito “adeguato”, della sintomatologia globale di IBS; come punto di riferimento secondario è stata considerata la percentuale di pazienti che hanno avuto un miglioramento “adeguato” del meteorismo correlato all’IBS. Sono stati inoltre considerati punti di riferimento secondario le percentuali di pazienti che hanno avuto un miglioramento dei dolori addominali e della consistenza delle feci.

Gli autori ricordano che la rifaximina è un antibiotico non sistemico, non assorbibile, a largo spettro, attivo per via orale e che è associato a un basso rischio di resistenza batterica.

Gli autori hanno osservato che un breve periodo di terapia dell’IBS con rifaximina consente di ottenere un miglioramento della sintomatologia dell’IBS che si mantiene per 10 settimane di osservazione clinica. Gli autori ricordano, a questo proposito, che la risposta della terapia con rifaximina nei pazienti con IBS è correlata alla normalizzazione dei risultati della prova respiratoria del lattulosio e che il meccanismo secondo il quale la rifaximina induce il suo effetto nella IBS è ancora in discussione e può trovare tre spiegazioni: 1) azione diretta dell’antibiotico sui batteri intestinali, con riduzione dei prodotti batterici che influenzano negativamente la mucosa intestinale, 2) riduzione della risposta immunitaria dell’ospite e 3) alterazione da parte dell’antibiotico della risposta sia dei batteri che dell’ospite. Gli autori osservano che, qualunque sia la sua modalità di azione, la rifaximina sembra influenzare le cause che, nell’IBS, alterano la flora microbica intestinale. Rilevano, inoltre, che alcuni pazienti non hanno risposto positivamente al trattamento e che ciò può indicare differenze individuali nelle cause dei sintomi; viene inoltre sottolineato che non si sono verificati casi di infezione da Clostridium difficile e di colite ischemica durante il trattamento con rifaximina.
Nel commentare questi risultati, Tack (Tack J. Antibiotic therapy for the irritable bowel syndrome. N Engl J Med 2011; 364: 81) osserva che lo studio di Pimentel et al (loc cit) dimostra il benefico effetto della rifaximina nell’IBS anche con un breve periodo di trattamento e inoltre un positivo effetto sul meteorismo, che è uno dei principali sintomi della malattia. D’altro canto, lo studio ha indicato che non tutti i pazienti rispondono ugualmente alla terapia con rifaximina.
L’autore ricorda, a questo proposito, che la risposta dei pazienti con IBS agli antibiotici può in larga parte dipendere dall’entità e dal tipo di flora batterica intestinale dei singoli soggetti e che la prova del lattulosio, adoperata per valutarla, può dare spesso risultati falsamente positivi (Ford AC, Spiegel BM, Talley NJ, et al. Small intestinal bacterial overgrowth in irritable bowel syndrome: systematic review and meta-analysis. Clin Gastroenterol Hepatol 2009; 7: 1279).
Tock ritiene che siano necessari ulteriori studi miranti a identificare i pazienti con IBS che possano avere una risposta positiva alla rifaximina e, inoltre, a valutare gli effetti a lungo termine di questo antibiotico.



Utilità del filtrato glomerulare e del rapporto urinario albumina-creatinina nella classificazione
del rischio cardiovascolare
Studi epidemiologici e clinici hanno indicato che un ridotto filtrato glomerulare stimato e un’albuminuria costituiscono fattori predittivi indipendenti di eventi cardiovascolari maggiori. Tuttavia non è stabilito se o in quale grado questi due marcatori consentano di prevedere un peggioramento della funzione renale o la necessità di terapia sostitutiva renale – in condizione di nefropatia in stato terminale – nei pazienti che sono ad alto rischio cardiovascolare, oppure se consentano di prevedere quanto il decorso della nefropatia possa aggravare i tradizionali fattori di rischio arteriosclerotico nella popolazione. Questi problemi sono importanti perché è noto che la nefrosclerosi dovuta ad arteriosclerosi vascolare è una causa frequente di danno renale terminale.
Recentemente sono stati analizzati i dati raccolti da 27620 pazienti di oltre 55 anni di età, ad alto rischio di eventi cardiovascolari, partecipanti agli studi ONTARGET e TRANSCEND (Yusuf S, Teo KK, Pogue J, et al; ONTARGET Investigators. Telmisartan, ramipril, or both in patients at high risk for vascular events. N Engl J Med 2008; 358: 1547-1549. Yusuf S, Teo KK, Anderson C, et al; Telmisartan Randomised Assessment Study in ACE Intolerant subjects with cardiovascular Disease (TRANSCEND) Investigators. Effects of the angiotension-receptor blocker telmisartan on cardiovascular events in high-risk patients intolerant to angiotensin-converting enzyme inhibitors: a randomised controlled trial. Lancet 2008; 372: 1174-1183 ). In questo studio sono stati misurati il filtrato glomerulare stimato, il rapporto albumina-creatinina urinario e sono stati valutati i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare; inoltre sono state valutate tutte le cause di mortalità, la mortalità cardiovascolare e l’incidenza di infarto miocardico, ictus, ricovero per insufficienza cardiaca, dialisi a lungo termine e raddoppio della creatininemia.
I pazienti sono stati controllati, in media, per 4,6 anni (Clase CM, Gao P, Tobe SW, et al, on behalf of the ONTARGET (ONgoing Telmisartan Alone and in combination with Ramipril Global Endpoint trial) and TRANSCEND Telmisartan Randomised Assessment Study in Angiotensin-Converting-Enzyme-Inhibitor Intolerant Subjects with Cardiovascular Disease) Investigators. Estimated glomerular filtration rate and albuminuria as predictors of outcomes in patients with high cardiovascular risk. A cohort study. Ann Intern Med 2011; 154: 310-318).
Gli autori hanno osservato che nei pazienti con cardiovasculopatie che presentano un’ampia variabilità dei valori di filtrato glomerulare stimato e del rapporto albumina-creatinina urinario, una netta riduzione di questi due marcatori è associata con eventi cardiologici, ma aggiunge soltanto scarse informazioni relative alla stratificazione del rischio, quando è possibile ottenerla avvalendosi dei tradizionali fattori di rischio.
Nonostante l’ampia variabilità di questi indici, gli autori hanno potuto stabilire che il rischio di eventi cardiovascolari aumenta nettamente e significativamente quando il rapporto albumina-creatinina raggiunge il valore di 2 e può aumentare a 3 in caso di sindrome nefrosica. Anche il valore del filtrato glomerulare stimato ha mostrato notevoli variazioni; al di sotto di 60 mL/min per 1,73 m2 il rischio cardiovascolare aumenta fino al doppio al livello di 30 mL/1,73 m2. Gli autori sottolineano che, nonostante la evidente associazione tra valori di filtrato glomerulare, rapporto albumina-creatinina ed eventi cardiovascolari, l’utilizzazione di questi due parametri non fornisce un controllo clinico alla classificazione del rischio. Tuttavia non escludono che tali parametri possano rappresentare indici utili a prevedere futuri eventi cardiovascolari e a identificare pazienti ad alto rischio. Ritengono che siano necessari ulteriori studi clinici controllati per stabilire se un trattamento debba essere eseguito in base a dati così ottenuti.