Dalla letteratura

Smettere di rimborsare prestazioni inutili

«Gli sprechi nel sistema sanitario degli Stati Uniti dovuti all’overtreatment o a cure di non provata efficacia (di basso valore) sono stimati tra 75,7 e 101,2 miliardi di dollari», scrivono Sankel S. Dhruva e Rita F. Redberg sul JAMA Internal Medicine1. Queste stime – aggiungono – sono probabilmente solo una frazione della maggiore spesa effettiva perché gli sperperi generano a loro volta altri costi non necessari: basti pensare agli esami superflui che innescano una spirale di altre prestazioni diagnostiche e terapeutiche inutili. Aumentano i costi, cresce l’ansia degli utenti dei servizi sanitari, si perde un’infinità di tempo e crescono i rischi per i pazienti. Come fare per invertire la rotta? Dhruva e Redberg – commentando uno studio uscito sullo stesso numero della rivista che ospita il loro editoriale2 – suggeriscono la sospensione del rimborso delle prestazioni non basate su prove come strategia pragmatica per la riduzione di sovradiagnosi e overtreatment. «Il maggiore ricorso all’interruzione del rimborso di prestazioni sia da parte delle istituzioni pubbliche, sia da parte delle assicurazioni ha un grande potenziale per ridurre l’uso di test e trattamenti inutili negli Stati uniti», sostengono. «La non copertura di cure di basso valore è necessaria per garantire un’attenta gestione delle risorse sanitarie limitate e per essere sicuri che i pazienti non ricevano prestazioni che non siano basate sull’evidenza per le quali i danni probabilmente superano i benefici».

Quasi contemporaneamente, sul Journal of Evaluation of Clinical Practice, Ray Moynihan, Arab-Zozani e Pezeshki propongono un approccio diverso e che coinvolga i cittadini3. Le distorsioni e lo spin che condizionano la ricerca clinica portano sia i medici sia i pazienti a sopravvalutare i benefici e sottostimare i danni dei trattamenti, il che contribuisce in modo significativo a un uso eccessivo. Una possibile soluzione può venire da un processo decisionale condiviso tra i professionisti sanitari e il malato, che mitighi la tentazione a fare di più per i pazienti e provi invece ad affrontare le loro preoccupazioni, le preferenze da loro espresse e gli obiettivi della cura. Lo shared decision-making viene presentato come «un approccio in cui clinici e pazienti condividono le migliori prove disponibili al momento di prendere decisioni e in cui i pazienti sono supportati nella valutazione delle diverse opzioni, con l’obiettivo di arrivare a una decisione che sia informata nel modo più equilibrato possibile».

Come tradurre in pratica tutto questo?

Nelle scorse settimane una revisione sistematica ha messo in discussione l’efficacia della adroterapia in oncologia4. Nonostante sia in aumento il numero di centri che rendono disponibili queste prestazioni, non solo non si dispone di certezze sulla sua efficacia ma anche gli studi in corso non sembra che possano promettere di chiarire le perplessità esistenti. Poche o nulle prove di efficacia, dunque, a fronte di altissimi costi. Sarebbe il terreno ideale per sperimentare l’uno o l’altro approccio per ridurre gli sprechi: smettere di rimborsare l’adroterapia (come sostengono gli editorialisti del JAMA Internal Medicine) o spiegare ai cittadini che non funziona (è la strada suggerita da Moynihan). Ridurre le prestazioni inutili è molto difficile, però. Sempre a proposito dell’adroterapia, un’intervista del Quotidiano sanità a Lisa Licitra, direttore scientifico del Centro nazionale di adroterapia oncologica di Pavia leggiamo che «la superiorità tecnologica intrinseca all’adroterapia può rendere dubbio il ricorso indiscriminato a studi randomizzati». Ecco: ci sarebbe dunque un “primato” della superiorità tecnologica che renderebbe superflua la ricerca clinica.

Un altro esempio? Quello dell’osteopatia, “scienza” o “tecnica” di cui si è parlato nelle scorse settimane, dopo che un noto giornalista aveva detto che l’ictus da lui sofferto era probabilmente dovuto a un’improvvida manipolazione effettuata durante una seduta, per l’appunto, di osteopatia. Enrico Bucci e Salvo Di Grazia hanno espresso sul quotidiano Il Foglio le proprie riserve su una pratica che non è mai riuscita a dimostrare la propria efficacia: non nei singoli studi condotti, né – tantomeno, ovviamente – nelle revisioni sistematiche che hanno provato a sintetizzare gli stessi trial. Apriti cielo: a distanza di poche ore è arrivata la risposta dei rappresentanti degli osteopati italiani. Le revisioni Cochrane a cui si riferiscono Bucci e Di Grazia, scrivono gli osteopati, affermano «che non è possibile determinarne i possibili eventi avversi e la stessa letteratura è contrastante a riguardo. Il problema della scarsa qualità metodologica degli studi non è solo dell’osteopatia ma di tutta la ricerca biomedica». In pratica: gli studi condotti sull’osteopatia sono talmente poco rigorosi che non è possibile tenerne conto. Ma, non potendo tenerne conto, non si può dire che l’osteopatia non funziona perché la mancanza di prove di efficacia non è una prova della mancanza di efficacia. Hai capito il ragionamento, eh?




È un vecchio discorso. Per disinnescare questa bomba che sta facendo saltare in aria i sistemi sanitari di tutti i paesi del mondo basterebbe seguire i consigli della Redberg e di Moynihan: smettere di rimborsare le prestazioni di efficacia non provata sprecando soldi pubblici e spiegarlo alla gente. Come direbbe Victor Montori, ecco a cosa ci ribelliamo5: alle cose inutili (e forse dannose) pagate da noi.

Bibliografia

1. Dhruva SS, Redberg RF. A successful but underused strategy for reducing low-value care: stop paying for it. JAMA Intern Med 2020 Feb 10.

2. Grady D, Redberg RF. Less is more: how less health care can result in better health. Arch Intern Med 2010; 170: 749-50.

3. Arab‐Zozani M, Moynihan RN, Pezeshki MZ. Shared decision making: how can it be helpful in reducing medical overuse due to medical misinformation mess? J Eval Clin Pract 2020 Feb 3.

4. Jefferson T, Formoso G, Venturelli F, et al. Hadrontherapy for cancer. An overview of HTA reports and ongoing studies. Recenti Prog Med 2019; 110: 566-86.

5. Montori V. Perché ci ribelliamo. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2019.

Rebecca De Fiore

Le competenze perdute
del medico

Nei primi anni Ottanta del secolo scorso il British Medical Journal (allora si chiamava ancora così) iniziò a pubblicare una serie di articoli in una serie intitolata “How to do it”. Si spiegava come fare tutte quelle cose che un medico doveva essere capace di eseguire ma che all’università non venivano insegnate. Qualche esempio? Come parlare a un congresso o come organizzare un convegno internazionale. Come scrivere un articolo per una rivista scientifica, come fare il referee o come contribuire attivamente al lavoro di un comitato scientifico di un periodico accademico. Come condurre un trial clinico. Come scrivere un foglio informativo per i cittadini o per i malati, come rendere più accogliente un reparto ospedaliero, come migliorare la segnaletica in ospedale. Quei contributi erano talmente ben fatti e c’era così tanto interesse anche da parte dei medici italiani che decidemmo di raccoglierli in un libro. Anzi, in due libri che uscirono a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. L’accordo con Neil Poppmacher, direttore della divisione libri del BMJ, venne firmato a Francoforte davanti a un bicchiere di vino nell’ottobre del 1985. Uno dei contributi spiegava come scrivere un libro. Una cosa, in realtà, che i medici sapevano più o meno fare. La maggior parte delle volte non uscivano dei veri capolavori, ma i lettori erano forse meno esigenti e, soprattutto, c’erano meno tentazioni a rubare ai medici il tempo per la scrittura e per la lettura.

Oggi è davvero tutto diverso: a organizzare gli eventi pensano le agenzie congressuali, a disegnare e condurre sperimentazioni le contract research organization, a scrivere articoli scientifici dei ghostwriters ben pagati, a preparare revisioni sistematiche le agenzie in Estremo oriente. Anche nel caso venisse in mente a un medico di oggi di scrivere un libro, qualcuno correrebbe in suo aiuto.

Quale conclusione? Sceglila tu che stai leggendo. Io sono incerta tra queste due. La prima: essere riconoscente nei confronti dei medici che so per certo essere autori del libro uscito a loro firma. La seconda: non fidarmi mai di un libro firmato da un medico e diffidare di un medico che ha firmato un libro.

Rebecca De Fiore




Campioni di farmaci ai medici: vietarli?

Le aziende farmaceutiche spendono per le visite presso l’ambulatorio del medico e per il dono di campioni gratuiti di farmaci più di qualsiasi altra forma di marketing negli Stati Uniti: qualcosa come 18,5 miliardi di dollari nel 2016. Gratuiti, però, per modo di dire, perché a pagare sono i cittadini statunitensi. I medici che ricevono i medicinali in regalo prescrivono maggiormente i nuovi e più costosi farmaci branded rispetto a opzioni ugualmente efficaci, più collaudate e meno costose. Uno studio pubblicato da poco sul JAMA Internal Medicine mostra addirittura che i medici che li ricevono in regalo hanno maggiori probabilità di prescrivere quei farmaci anche qualora non siano la prima scelta per la condizione di quel paziente1.

Se i benefici della distribuzione gratuita di campioni di farmaci sono incerti (qualcuno pensa possano essere utili per offrirli a pazienti indigenti), ben documentati sono gli effetti negativi di tale procedura connessi con la possibilità di influenzare le scelte prescrittive e di aumentare i costi delle prescrizioni2. Come sottolineato dall’editoriale di accompagnamento al lavoro più sopra menzionato3, svariate istituzioni negli Stati Uniti, come la Veteran Health Administration, il Kaiser Permanente e molte università, hanno ristretto o vietato la distribuzione di campioni gratuiti ai medici. In Italia, la distribuzione di campioni gratuiti di medicinali ai medici è regolata con il Decreto Legislativo n. 219, 24 aprile 2006 (art. 125). Diverse aziende sanitarie e aziende ospedaliere hanno voluto negli ultimi anni regolamentare i rapporti tra professionisti sanitari e rappresentanti dell’industria all’interno delle strutture dove si assiste il malato.

Ma se la riduzione dell’influenza dell’industria sulle prescrizioni è una priorità – sia dal punto di vista della garanzia di maggiore appropriatezza, sia per le ricadute di maggiore spesa –, i risultati dello studio uscito sul JAMA Internal Medicine suggeriscono la necessità di ulteriori misure, che si concentrino su quanto avviene nelle cure primarie, distanti dalle strutture ospedaliere o dagli ambienti accademici. È questo, infatti, l’ambito nel quale è più frequente il ricorso al dono di campioni di medicinali che in Italia, vale la pena ricordarlo, possono essere consegnati solo ai medici autorizzati a prescrivere quel prodotto e solo nei 18 mesi successivi alla commercializzazione. In genere, i medici non sono consapevoli dei costi connessi alle proprie prescrizioni e non hanno una chiara percezione del ruolo giocato dal marketing delle aziende farmaceutiche sulle decisioni che i clinici assumono, scriveva Luigi Naldi su Recenti progressi in medicina. Una soluzione ci sarebbe, anche abbastanza semplice: «Personalmente, ritengo che nell’ambito delle strutture del Sistema Sanitario Nazionale la distribuzione di campioni gratuiti di medicinali ai medici dovrebbe essere vietata»2.

Bibliografia

1. King AC, Schwartz LM, Woloshin S. A national survey of the frequency of drug company detailing visits and free sample closets in practices delivering primary care. JAMA Intern Med 2020 Jan 27.

2. Naldi L. Campioni gratuiti di medicinali ai medici? No, grazie. Recenti Prog Med 2014; 105: 404.

3. Guglielmo BJ. The cost of pharmaceutical company detailing visits and medication samples. JAMA Intern Med 2020 Jan 27.

Fabio Ambrosino




Vaccino per l’herpes zoster e rischio di ictus: le novità da ISC 2020

Il vaccino per l’herpes zoster, più comunemente noto come “fuoco di Sant’Antonio”, potrebbe avere dei benefici anche per la salute cardiovascolare. È quello che emerge da uno studio presentato all’International Stroke Conference (ISC) 2020 a Los Angeles, i cui risultati, diffusi in anteprima, hanno messo in evidenza una significativa riduzione dell’incidenza di ictus, sia ischemico che emorragico, nei soggetti vaccinati per questa patologia.

Per indagare la relazione tra l’esposizione al vaccino e il rischio di ictus, i ricercatori dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) hanno analizzato le cartelle cliniche di 1,38 milioni di beneficiari del programma Medicare vaccinati per l’herpes zoster tra il 2008 e il 2016, tutti di età superiore a 66 anni e senza una storia precedente di ictus. Successivamente hanno messo a confronto i dati relativi agli eventi ischemici ed emorragici con quelli di un gruppo di controllo composto dallo stesso numero di beneficiari di Medicare non vaccinati. A un follow-up medio di 3,9 anni, i risultati hanno messo in evidenza una riduzione del 16% dell’incidenza di ictus (12% di ictus emorragico e 18% di ictus ischemico) nei soggetti vaccinati rispetto a quelli non vaccinati. In particolare, il rischio di incorrere in un evento è risultato ridotto fino al 20% nei soggetti con meno di 80 anni di età e pari a circa il 10% in quelli più anziani.

«Nonostante esista un vaccino, ogni anno circa un milione di cittadini americani contrae l’herpes zoster», ha commentato Quanhe Yang, ricercatore senior dei CDC e responsabile dello studio. «I risultati del nostro studio dovrebbero incoraggiare le persone con più di 50 anni a seguire le raccomandazioni e vaccinarsi. Così facendo ridurrebbero il rischio di contrarre l’herpes zoster e allo stesso tempo potrebbero ridurre il rischio di ictus». Secondo Yang la minore incidenza di eventi ischemici ed emorragici associata alla vaccinazione potrebbe dipendere da una riduzione dei processi infiammatori. Tuttavia, il meccanismo protettivo sembrerebbe entrare in azione solo se il soggetto non ha ancora contratto il virus. Infatti in uno studio precedente lo stesso gruppo di ricerca non aveva individuato alcuna relazione tra la somministrazione del vaccino o di un trattamento antivirale e il rischio di ictus dopo un episodio di herpes zoster. «Affinché l’esistenza dell’associazione sia confermata sono necessari ulteriori studi», ha concluso il ricercatore.

Fabio Ambrosino