Medicinema

Com’è alto il dolore,
l’amore, com’è bestia

Giorgio Caproni
Affinché morte non ci separi
Medici e non, malati e sani, giovani e vecchi: applaudite. Questo non è solo un bel film, questo è un capolavoro. Riflettano bioeticisti e giureconsulti, rianimatori e trapiantologi. Non è un elogio dell’eutanasia, questa è un’altissima elegia d’amore: Amour (Francia, Germania, Austria 2012), 127 minuti. Regia: Michael Haneke. Interpreti principali: Jean-Louis Trintignan, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert.
L’ispirazione del regista, l’austriaco Michael Haneke, partecipa d’una esigenza non infrequente nella narrativa di oggi: i modi di confrontarsi con la sofferenza di una persona cara. Ritirando la Palma d’oro 2012 a Cannes, ha dichiarato: «Senza mia moglie, questo film non avrebbe avuto senso. “Amour” – infatti – non è altro che l’illustrazione della promessa reciproca che ci facemmo se uno di noi due fosse stato colpito da una malattia inguaribile». Esperienza vissuta, dunque, (non cronaca di un caso clinico), fusione di sentimenti votata a sublimare una sorte comune di vulnerabilità e finitudine. Come ha scritto Elizabeth Barrett Browning: «Caro, se io giacessi morta / ti mancherebbe un po’ di vita perdendo la mia? / E ti parrebbe più fredda la luce del sole / poiché l’umida tomba circonda il mio capo? / E dunque, amami, Amore! … / Io cedo alla tomba per il tuo amore, e scambio / la vicina vista del Paradiso, per la terra con te!» (XXIII dei sonetti portoghesi).



Rivive in questi versi, così come nell’arte di Haneke, il mito ovidiano di Filemone e Bauci (Le metamorfosi, libro VIII, 705-710), che porgono a Giove il loro desiderio: «Chiediamo che la morte ci porti via nello stesso momento, dato che tutta la vita l’abbiamo passata uniti in perfetto accordo. Ch’io – prega Filemone – non debba mai vedere il sepolcro di mia moglie né a lei debba toccare di seppellirmi». E Giove mantiene la promessa: Bauci e Filemone si trasformano – insieme – in due frondosi alberi e insieme si donano l’ultimo addio, uniti nella morte come furono in vita.
Anche Georges e Anne (un Jean-Louis Trintignan e una Emanuelle Riva, ultraottantenni interpreti, uno più bravo dell’altro) vivono serenamente il loro tramonto solidale nella quiete dell’avvolgente appartamento (ma il “loro” spazio non ha cittadinanza logistica, piuttosto connaturate fondamenta affettive): il concerto settimanale, il tè del pomeriggio, la visita di un allievo pianista, la cena punteggiata da confidenze e silenzi… Fino all’irrompere – imprevisto e ingravescente – della malattia: tanto più crudele quanto più mirata a ferire la comunicazione, fino a impedirla. Ma Georges continua a parlare ad Anne, apprende, giorno dopo giorno, a non chiedere risposte; la accudisce, la accarezza, le aggiusta i capelli, la lava, cura il corpo di lei come per tutta una vita lo ha desiderato ed amato. (Riecheggiano i versi di Paul Verlaine: «E gli occhi, i poveri occhi così belli, in cui spunta la pena di vedere d’ogni cosa il finito… Triste corpo! Quanto debole e quanto punito!»). Haneke ci offre sequenze ferocemente toccanti e tuttavia temperate dall’ottica nobile della metafora; una mediazione alta, nutrita dalla consapevolezza della caducità che ci assimila.
Da qui, il film si muove col ritmo delle stazioni di una via crucis, ove si intrecciano speranze e disinganni, nostalgia e sofferenza, desiderio di incontro e anelito a fuggirne: ogni sequenza è un quadro concluso che tuttavia rimanda al precedente e al successivo, a volte in tonalità di crudele cupezza. Con determinazione di amore e nitido stile, a volte abbagliante per lampi tormentosi, Haneke ne rende partecipe lo spettatore, confrontandolo con la difficoltà del vivere. «Ovunque l’ecatombe svela quanto / sia vocato alla morte l’uomo faglia» (Magrelli).
Lungo tale itinerario, il film procede e suggerisce riflessioni ed emozione, con capitoli brevi di vertiginosa liricità, sapienti nel fissare una memoria, una ferita, un passato perduto e testimonianza di un disilluso presente. Né ci sarà futuro per Georges ed Anne.
«Dicono taluni – ha scritto Dostoevskij – che il supremo amore del prossimo è al tempo stesso anche supremo egoismo». E dunque, con un ultimo residuo di forza (e di compassione) Georges preme un cuscino sul volto di Anne agonizzante: è il suo penultimo dono d’amore ed al contempo l’estremo lenimento alla sua pena. Ci sarà ancora l’offerta di una pioggia di petali di rosa, prima di riunirsi per sempre alla compagna di tutta una vita.
Su una cerimonia degli addii – idonea a promuovere il dolore di ciascuno alla condivisione dal senso di una fine – si conclude questo bel film: che avrebbe potuto persino correre il rischio d’una prevalenza della maniera sull’autenticità. Invece Haneke ed i suoi attori hanno ottenuto il massimo risultato in virtù di una adamantina onestà poetica, per la sorvegliatissima corrispondenza tra mezzi ed intenzioni espressive e ci hanno donato un’opera di equilibrio – non ulteriormente perfettibile – tra esprit de géométrie ed esprit de finesse; un’opera che raggiunge vette di stupefazione artistica e di incondizionato coinvolgimento.

Cecilia Bruno