Raccontare la scienza.

Rischi, opportunità e nuovi strumenti del comunicare

Gianna Milano1

1Giornalista scientifico.

Pervenuto il 14 gennaio 2019.

Riassunto. Il New York Times ha di recente festeggiato con un numero speciale i quarant’anni della sua storica “Science section”. Un’occasione per riflettere sullo stato dell’arte del giornalismo scientifico. In Italia dopo aver visto fiorire negli anni ’70 e ’80 gli inserti dedicati alla scienza, negli ultimi tempi i maggiori settimanali e diversi quotidiani hanno deciso – salvo rare eccezioni – di eliminarli. Restano per lo più gli inserti della salute. Come si spiega questa tendenza? Eppure la scienza continua a permeare la nostra cultura, dal cinema, ai libri, alla pubblicità, alla televisione. E numerosi sono in Italia i master e i corsi universitari che preparano giovani laureati alla comunicazione della scienza. Paradossalmente, nelle redazioni la presenza di giornalisti scientifici si è via via diradata e capita sempre più spesso che a scrivere di scienza siano giornalisti “generalisti”. Colpa della crisi dell’editoria e dell’ingresso nel circuito dell’informazione di massa di internet? Di certo l’interazione fra i protagonisti dell’informazione scientifica (pubblico, giornalisti, ricercatori) è diventata più complessa e più problematica. A partire dagli anni ’80 è andato via via sfumandosi il confine tra istituzioni accademiche e business ed è nata la scienza cosiddetta imprenditoriale. La ricerca scientifica diventa strumentale al perseguimento di obiettivi personali e commerciali, e il conflitto di interessi sempre più pervasivo, perché sempre più labile la linea di demarcazione tra scienza e business. L’ansia di comunicare da parte degli scienziati, di rendere pubblico ciò che la ricerca va scoprendo, è pressante e parte integrante del loro “lavoro”. Ci sono scienziati la cui carriera è integrata con il sistema mediatico. Storie di competizione sfrenata (basta pensare alla guerra tra Francia/Usa per accaparrarsi le royalities del test sul sangue per l’Aids) e storie di frodi (negli ultimi dieci anni il numero degli articoli ritrattati dai giornali scientifici si è decuplicato rispetto ai dieci anni precedenti e la frode riguarda il 60 per cento di queste ritrattazioni) hanno finito per avere un effetto corrosivo sull’immagine intoccabile della scienza. Fare del buon giornalismo scientifico, che tenga conto del contesto in cui oggi si muove la ricerca, richiede consapevolezza e rigore etico. Vale per tutte le modalità espressive, dalla carta stampata alla comunicazione online. E non solo per i “science writer”, ma per tutti coloro che producono informazione.

To tell science. Risks, opportunities and new tools of communication.

Summary. The New York Times recently celebrated the 40th anniversary of its historic “Science section” with a special issue. An opportunity to reflect on the state of the art of scientific journalism. After having seen the inserts dedicated to science flourish in the ’70s and ’80s, in recent times the major Italian weekly and several newspapers have decided – with rare exceptions – to eliminate them. Most health inserts remain. How can we explain the reason for this trend? Science continues to permeate our culture, from cinema, to books, to advertising, to television. And there are numerous masters and university courses in Italy that prepare young graduates for science communication. Yet, paradoxically, in the newsrooms the presence of scientific journalists has been gradually reduced to nothing, and quite often those who write about science are “generalist” journalists. Fault of the crisis that publishers live and of the entry into the mass information circuit of internet? Certainly the interaction between the protagonists of scientific information (public, journalists, researchers) has become more and more complex and problematic. Since the ‘80s the boundary between academic institutions and business has gradually faded, coinciding with the birth of the so-called entrepreneurial science. Scientific research becomes instrumental to the pursuit of personal and commercial goals, and the conflict of interests more pervasive: because the dividing line between science and business is increasingly blurred. The anxiety to communicate on the part of scientists, to make public what research is discovering, is pressing and an integral part of their “work”. There are scientists whose career is integrated with the media system. Stories of unbridled competition (just think of the war between France/USA to grab the royalties of the blood test for AIDS) and stories of fraud (in the last ten years the number of articles retracted by scientific journals has increased tenfold compared to the previous ten years and fraud covers 60 percent of these retractions) have come to have a corrosive effect on the untouchable image of science. Making good scientific journalism, which takes into account the context in which research is moving today, requires awareness (going deep into the issues to be addressed) and ethical rigor. This applies to all modes of expression, from print media to online communication. And should be a must not only for “science writers”, but for all those who produce information.




Il novembre scorso il New York Times (NYT) ha festeggiato con un numero speciale i 40 anni del suo inserto dedicato alla scienza. È infatti il 1978 quando la “Science section” del quotidiano statunitense prende avvio, invogliando altri giornali nel mondo a seguire l’esempio e a dedicare con cadenza regolare delle pagine a temi scientifici, dal clima alle onde gravitazionali, dalla genetica alle sonde solari. Informare sugli sviluppi della ricerca e incentivare la conoscenza scientifica, soprattutto attraverso i media, in una società democratica moderna diventa prioritario1. Lo aveva auspicato/teorizzato il movimento Public understanding of science nato in Inghilterra dalla mobilitazione massiccia di scienziati e ricercatori2. Gli autori delle pagine scientifiche del NYT hanno fatto scuola, da Jane Brody a Lawrence Altman e Nicolas Wade, solo per citarne alcuni. Per chiunque sia appassionato di scienza, il martedì, giorno in cui esce l’inserto, è diventato un appuntamento fondamentale per tenersi aggiornati su ciò che accade nel mondo della ricerca.

La “Science section” del NYT nasce in anni in cui tira un’aria nuova. Un clima culturale, prima ancora che un programma politico, che Marcia Angell, che ha diretto il New England Journal of Medicine, nel suo libro-inchiesta The Truth about the drug companies fa partire dal 1980, quando il Congresso americano approvò il Bayh-Dole Act, una legge che incoraggiava i centri di ricerca pubblici a brevettare le loro invenzioni per assicurarsi royalties con cui finanziare altre ricerche3. Qualcosa che, a parere della Angell, ha reso “patologico” il sistema ricerca medica/industria/mercato. Sono gli anni del ritorno del neoliberismo (nel 1980 è eletto presidente il repubblicano Ronald Reagan) e di una scelta precisa: puntare sulla scienza per costruire una nuova economia, per riconquistare una leadership economica messa in discussione dalla pressione di economie emergenti, come quella del Giappone e della Cina. «Anche se l’obiettivo di quella legge era rendere più rapido il passaggio della scoperta dal laboratorio al letto del malato, l’effetto di quella interazione fu di sfumare i confini tra istituzioni accademiche e business e rendere il conflitto di interessi più pervasivo», ha scritto R.S. Eisenberg4.

Scienza & business

Sempre nel 1980, su sollecitazione della Corte Suprema e dopo anni di riflessione, il Patent and Trademark Office concede ad Ananda Chkrabarty il brevetto a protezione della proprietà intellettuale di un batterio geneticamente modificato per biodegradare petrolio, scarichi industriali e inquinanti nel terreno. La stessa Corte Suprema nel 1973 aveva riconosciuto alla Stanford University il brevetto sulla tecnica del DNA ricombinante di Stanley Cohen e Herbert Boyer che diventerà uno strumento essenziale nei laboratori che sviluppano biotecnologie. Si afferma in quegli anni l’idea della scienza come business, della ricerca fortemente proiettata sul mercato. E i mass media fanno da volano. Apparire sui mezzi di comunicazione aumenta per gli scienziati le chances di ricevere finanziamenti, e per i giornalisti proporre storie interessanti aumenta l’audience. Il sistema di comunicazione conferisce una forte dinamica al processo/progresso scientifico, rispecchiando le attese della società ma anche gli interessi del mondo della scienza4. Un mondo fortemente cambiato in cui è tramontata l’idea dello scienziato individualista poco o nulla interessato alle possibili applicazioni della sua ricerca. Nasce in altre parole quella che è stata definita la scienza post-accademica descritta in maniera efficace dal fisico inglese John Ziman, autore del saggio The Force of Knowledge5. «Una nuova griglia di valori emerge nella comunità scientifica accanto e, spesso, in contrasto con gli antichi valori dell’universalismo e del disinteresse», scrive la sociologa americana Dorothy Nelkin6. «La conoscenza non è di tutti, ma è di proprietà di chi la produce», sottolinea Sheldom Krimsky, della Tufts University, nel suo Science in the Private Interests7.

Sistema mediatico

La nuova cultura di mercato trasforma anche l’atteggiamento delle scuole di medicina e delle cliniche universitarie e queste istituzioni non-profit «cominciano a vendersi come partner dell’industria e a guardare con entusiasmo, al pari di qualunque imprenditore, all’opportunità di trarre profitti», scrive Angell3. La ricerca scientifica diventa strumentale al perseguimento di obiettivi personali e commerciali, spesso convergenti, e la comunicazione di ciò che si va scoprendo nei laboratori una necessità inderogabile. Ci sono scienziati la cui carriera è integrata con il sistema mediatico. Un esempio fra i tanti: Craig Venter che ha sfidato il progetto federale nella corsa al sequenziamento del genoma umano e ha usato i media per promuovere la sua immagine e la sua visione della biologia del XXI secolo. Il suo viaggio con la nave da ricerca Sourcerer, che tra il 2003 e il 2005 ha circumnavigato la Terra in cerca di genomi batterici marini sconosciuti, è stato ampiamente coperto da NYT, Economist, Wired e dalla stampa internazionale8. La comunità scientifica tende a trasmettere un’immagine sempre più risolutiva e positiva della ricerca e ad alimentare aspettative attraverso i media. Come stabilire quali sono le notizie degne di essere tali? Come orientarsi in questa mole di informazioni? E acquisire strumenti per discernere? «Oggi sono le industrie farmaceutiche che stabiliscono come devono essere fatti i trial clinici dai ricercatori, niente di più che mani in prestito… Sono loro, le società, a sponsorizzare gli studi […] Sono loro ad analizzare e interpretare i risultati, a decidere che cosa pubblicare o, addirittura, se pubblicare»3.

Ora, secondo Ziman, nell’era della scienza post-accademica o del “capitalismo accademico”, come ha definito questa tendenza Sheila Slaughter, dell’Università della Georgia, il rapporto fra media e mondo della scienza si fa più stretto, ma anche molto più problematico. L’ansia di comunicare da parte degli scienziati, di rendere pubblico ciò che la ricerca va scoprendo diventa pressante e parte integrante della “responsabilità” di uno scienziato. Visibilità significa non solo carriera e finanziamenti, ma anche privilegiare obiettivi redditizi, con il rischio di “vendere” come certezze risultati ancora incerti e controversi. È accaduto negli anni ’80 con la terapia genica, quando la potente “mistica del Dna”, per parafrasare il titolo del libro di Ruth Hubbard, biologa ad Harvard, fece credere che inserire un gene per sostituirne uno malato fosse la strada che avrebbe portato, nel volgere di breve tempo, alla cura di molte malattie9. E si è ripetuto dieci anni dopo con le cellule staminali. Sul potenziale terapeutico di queste cellule capaci di differenziarsi in qualsiasi altra cellula del corpo si è favoleggiato. Su di esse si è costruito un dibattito spesso più politico che scientifico, con speculazioni, false partenze, e perfino frodi10.

Frodi a ripetizione

Tra la speranza e la realtà si è fatto strada, come spesso succede, il business con i viaggi in cerca di “miracoli” verso la Cina da Huang Hongyun e nella Corea del Sud da Woo Suk Hwang, che falsificò i dati dei lavori pubblicati su Science sia nel 2004 che nel 2005, quando sostenne di aver clonato il primo embrione umano e di aver fatto la stessa cosa partendo dalle cellule di undici pazienti con diversi tipi di malattia. Lavori in seguito ritrattati da Science11,12. “Scandali” a ripetizione di cui il NYT (e non solo) ha reso conto in questi anni, fotografando il crescente degrado del “dibattito” sulla scienza. Come quello che ha coinvolto di recente il ricercatore italiano Piero Anversa, trapiantato in America, ingaggiato nel 2008 dalla Harvard Medical School e dal Brigham and Women’s Hospital di Boston con un contratto da capogiro, e del quale sono stati ritrattati ora 31 lavori. Aveva suscitato grande clamore un suo studio, pubblicato su Nature nel 2001, che proponeva un’affascinante idea: cellule staminali ricavate dal midollo osseo – immature e non ancora specializzate – trapiantate nel muscolo cardiaco erano capaci di “fare cuore”, ossia di formare nuovi cardiomiociti che pulsano e si contraggono, riparandolo dopo un infarto13. Del “caso Anversa” ha raccontato in questi giorni con solerte puntualità (e indignazione) Gina Kolata sul NYT14,15.

La stessa giornalista scientifica fu al centro qualche anno fa di una clamorosa vicenda. Un suo articolo in prima pagina sul quotidiano newyorchese parlava di una scoperta che avrebbe risolto il problema del cancro. E fece il giro del mondo la notizia – una trappola – che riguardava due proteine anticancro, angiostatina ed endostatina. «Tra un anno, se tutto va bene, al primo malato di cancro saranno iniettate due nuove molecole in grado di eliminare nei topi qualsiasi tipo di tumore, senza evidenti effetti secondari né resistenza alle sostanze». Questo l’incipit dell’articolo apparso il 3 maggio 1998 sul NYT16. Nonostante la storia oscillasse fra l’ottimismo (per il grande passo avanti nella lotta al cancro) e l’invito alla prudenza (per ora la cura ha funzionato nei topi), l’impatto fu enorme. Bastò un giorno e mezzo perché televisione e giornali non parlassero d’altro e cioè delle due sostanze coinvolte nell’angiogenesi capaci di bloccare i segnali che portano alla formazione di nuovi vasi e quindi allo sviluppo del cancro, sulle quali Judah Folkman e i colleghi della Harvard University e del Children’s Hospital stavano lavorando da trent’anni. E all’ospedale arrivarono centinaia di telefonate da pazienti ansiosi di saperne di più.

Fonte della notizia erano stati il Nobel James Watson (“Judah guarirà il cancro in due anni”) e Richard Klauser, direttore del National Cancer Institute (“Abbiamo all’orizzonte due sostanze promettenti che hanno per noi la massima priorità”). Il tono euforico dell’autrice dell’articolo, giornalista di competenza riconosciuta, era stato determinante nell’amplificare la notizia e aveva fatto passare in secondo piano le riserve espresse da Folkman, un uomo schivo che per oltre 30 anni aveva lavorato in laboratorio (265 pubblicazioni) e che si ritrovò proiettato sulla prima pagina del NYT. “Tutto quello che so è che se hai un cancro e sei un topo, allora noi possiamo prenderci cura di te”, aveva detto. Molti quotidiani e settimanali ripresero con titoli ancor meno cauti la notizia: “Drugs kill cancer tumors” (The Independent, 5.5.98); “Sì, batteranno il cancro” (La Repubblica, 5.5.98); “Un’iniezione anticancro è la nuova speranza negli Usa” (Corriere della Sera, 4.5.98). Il 7 maggio, qualche giorno dopo lo scoop del NYT, il quotidiano francese Le Monde diede la notizia in prima pagina, dileggiando i colleghi d’oltreoceano. L’articolo di Jean-Yves Nau era corredato di una vignetta: un topo sdraiato in un letto di ospedale guardava incredulo verso la porta della camera: “Allora? Mi sembra stia meglio”, esclamava la visitatrice che non sembrava dare ascolto al medico che le diceva: “Signora, gliel’ho già detto, è solo un topo!”.

Gestione dell’incertezza

Pochi giorni dopo l’uscita del NYT, il settimanale americano Time insinuò che la notizia della cura anticancro di Folkman fosse stata gonfiata da Gina Kolata per interessi personali: le sarebbero stati offerti due milioni di dollari per una biografia sullo scienziato. Il direttore del NYT sospese per qualche mese la giornalista dall’incarico, affermando: “Non si fanno soldi sulle storie di cui un reporter si occupa, specie se si tratta della vita o della morte delle persone”. Difficile ricordare episodi simili in giornali nostrani: qual è il giornalista che viene punito e messo in quarantena per aver commesso un errore o aver gonfiato/strumentalizzato una notizia? Come è avvenuto nel caso Di Bella e la sua terapia anticancro, diventata terreno di scontro ideologico, istituzionale e politico. Poco o nulla si tenne conto in quei mesi di chiassose polemiche da parte di certi organi di informazione della disperazione di malati di cancro e dei loro familiari disposti ad attraversare anche la più precaria passerella di salvataggio. La gestione dell’incertezza diventa particolarmente problematica quando l’ambiguità è la manifestazione più visibile del rapporto fra mass media e scienziati17.

Interessante ricordare come fosse nata la notizia di Folkman. Pare che il Nobel Jim Watson avesse incontrato la giornalista del NYT a un party e tra le chiacchiere avesse detto: “Folkman curerà il cancro in due anni e sarà ricordato fra i giganti della scienza, come Darwin”. Dopo che l’articolo uscì Watson fece marcia indietro e cercò di minimizzare la sua responsabilità. L’effetto immediato della notizia fu visibile all’apertura della Borsa lunedì 4 maggio: i titoli della Entremed, che produceva le due molecole utilizzate da Folkman, balzarono da 12 dollari prima del week-end a 83. La Entremed pubblicò quel giorno stesso un comunicato in cui ricordava che la sperimentazione non sarebbe iniziata prima di un anno e ci sarebbero voluti diversi anni perché i farmaci fossero disponibili sul mercato. Previsioni purtroppo avverate. Anche se, questo va detto e non ha fatto notizia, dalla ricerca di Folkman sui fattori antiangiogenesi è nato il bevacizumab (Avastin il nome commerciale), un anticorpo monoclonale per il vegf, il fattore di crescita dell’endotelio: bloccando questo recettore, si impedisce la crescita dei vasi che vanno ad alimentare il tumore.

Monitoraggio delle notizie

Storie che raccontano la difficile/complessa interazione fra mondi diversi, quello della scienza e quello dei media. E anche tra due culture diverse, quella umanistica e quella scientifica: confine che John Brockman (famoso agente letterario che ha lanciato come star mediatiche Carl Sagan, Roger Penrose, Stephen Hawkings, Marvin Minsky) vede superato dall’emergere di una “terza cultura” in cui gli scienziati fanno propria la scienza per comunicarla al pubblico18. In anni relativamente recenti a chiedersi se i giornalisti scientifici fanno un buon lavoro è stato Ray Moynihan, ricercatore australiano ma anche giornalista di salute pubblica, autore con Alan Cassels del saggio Farmaci che ammalano, e firma assidua e graffiante del BMJ19. Nel 2000 con il suo team di ricercatori analizzò quanto spesso nelle storie riportate da giornali e televisione si facesse accenno a costi, a rischi e benefici o a un eventuale conflitto di interessi20. Quattro anni dopo, nel 2004, nacque l’Australian Media Doctor website, un progetto di monitoraggio di come vengono date le notizie che riguardano la salute. Fece successivamente la stessa operazione il canadese Alan Cassels e anche da questa iniziativa nacque un progetto di monitoraggio e in seguito, nel 2005, un sito (www.mediadoctor.ca) che valutava come vengono date le notizie di medicina. Iniziative che si sono esaurite nel 2014 e che hanno a loro volta ispirato l’HealthNewsReview.org che a partire dall’aprile 2006 ha valutato secondo i criteri usati dai siti australiano e canadese le storie uscite su giornali, agenzie di stampa, e tre settimanali americani (Time, Newsweek, US News & World Report). Il 17 dicembre del 2018, dopo 13 anni, l’HealthNewsReview.org, il sito web fondato da Gary Schwitzer, ha chiuso i battenti. «Troppo pochi sono i giornalisti che scrivono di salute che sanno quali sono i bisogni dei lettori. C’è un gap largo quanto il Grand Canyon fra il tipo di informazione che pazienti e consumatori chiedono e quello che ricevono dalla maggior parte delle storie e notizie sulla salute e quello che leggono», scrive nel suo commiato sul sito web Schwitzer21. I risultati da lui raccolti in questi anni di monitoraggio sono poco confortanti: il sensazionalismo che spesso ruota attorno alle notizie della scienza medica sarebbe il riprovevole coprodotto del compiacente rapporto tra giornalisti e scienziati: se i giornalisti riescono a catturare l’attenzione del pubblico, gli scienziati vedono nell’attenzione dei media un trampolino per il successo. E gli interessi delle due professioni sembrano influenzarsi l’una con l’altra.

«Al pari di politici, attori, giocatori di football, gli scienziati non diventano visibili oggi per le loro scoperte o perché conducono la comunità scientifica, ma per il loro ruolo nel tumultuoso mondo della politica. Abili a catturare l’audience alla televisione e sui giornali, negli ultimi decenni hanno subìto un cambiamento rivoluzionario… infrangendo i vecchi protocolli della professione scientifica, mettendo in discussione la vecchia etica e sfidando i vecchi standard di condotta», scrive Rae Goodell nel suo saggio The Visible Scientists, anticipando nel 1977 un profilo dei nuovi scienziati “imprenditori”22. L’esigenza di darsi delle regole, degli obiettivi da condividere da parte dei giornalisti scientifici nacque oltreoceano nel lontano 1934: dodici corrispondenti scientifici fondarono la National Association of Science Writers (NASW). Le regole per farne parte erano rigide: esperienza provata e niente conflitti di interesse. Alla fine della guerra i soci erano 63 e agli inizi degli anni ’60 più di 400, nel 2009 circa 200023. L’associazione organizza anche oggi corsi, seminari, congressi, istituisce premi. «Fare giornalismo scientifico da quel momento in poi significò sempre di più tradurre informazioni tecniche riconfigurandole in parole e immagini accessibili a persone prive della formazione e del vocabolario specialistico»2.




Etica del quotidiano

Giocare sull’emotività o sull’effetto, alimentare paure irrazionali, fare dell’informazione scientifica spettacolo, sono alcuni dei vizi da evitare. Specie quando si parla di salute. «L’etica della responsabilità dovrebbe applicarsi all’universo intero delle notizie, ma la medicina ha “qualcosa di più”, ha una dimensione più importante perché attiene all’individuo: paura, aspettative e sofferenza non sono costruzioni sociali»24. La “bioetica del quotidiano”, per usare un’espressione cara a Giovanni Berlinguer, politico e docente di medicina sociale, riguarda anche il modo con cui si danno le notizie: strumentalizzare la retorica della speranza per vendere più copie o accaparrarsi favori/voti, o quote di mercato, non è eticamente corretto, ma si fa25. È vero anche, come ha sostenuto la sociologa americana Dorothy Nelkin, che una notizia scientifica può diventare degna di attenzione da parte dei media a seconda del contesto politico6.

Nonostante nel corso degli anni la figura dello “science writer” si sia delineata e in un certo senso imposta, oggi capita sempre più spesso che a scrivere di scienza siano giornalisti “generalisti” con una predilezione per le semplificazioni, l’omissione delle posizioni sfumate e incerte proprie del percorso scientifico, che si fonda su formulazione di un’ipotesi, verifica, e conferma o confutazione della medesima. Spiegare la scienza non è un compito semplice: si è mai visto scrivere di alta finanza un giornalista non esperto di economia? Negli ultimi vent’anni anni sono nati anche nel nostro paese diversi master annuali o biennali che preparano i giornalisti a scrivere di argomenti scientifici: a Trieste alla Scuola Internazionale Studi Avanzati (Sissa), ma anche a Milano, Ferrara, Torino, Roma, Padova. E ai master si aggiungono diversi corsi di comunicazione della scienza all’interno di vari dipartimenti universitari. Si potrebbe dedurre, e a ragione, che giornalisti scientifici ad hoc in Italia in grado di evitare nei giornali o alla televisione errori come quelli commessi nel caso di Sofia, la bimba di quattro anni morta di malaria il novembre dell’anno scorso agli Spedali Civili di Brescia, dovrebbero essercene. Giornali e televisione parlarono di “virus”, quando l’agente patogeno della malaria è un parassita che si trasmette con la puntura di zanzare Anopheles, e scrissero che la piccola probabilmente fu colpita dallo stesso “virus” che aveva infettato due bimbi di una famiglia del Burkina Faso, quindi provenienti da un Paese a rischio: entrambi ricoverati all’ospedale di Trento dov’era Sofia prima di essere trasferita a Brescia. Ignoranza, superficialità, demagogia fecero partire sulle prime pagine di alcuni giornali, da Libero a Il Tempo, la caccia all’untore: sono gli extracomunitari a riportare la malaria in Italia, non le zanzare.

Sano scetticismo

Paradossalmente alcune delle sezioni dedicate nei giornali italiani a scienza e medicina, che nacquero tra gli anni ’70 e ’80 (su modello del NYT) sono state via via eliminate. Le aveva il Corriere della Sera (che ora ha solo l’inserto “Salute”), continua ad averle La Stampa (con TuttoScienze cui si è aggiunto più di recente TuttoSalute), le ha La Repubblica (a gennaio 2018 è nato RLab e c’è sempre l’inserto Salute”), non ci sono invece sui settimanali come Panorama e L’Espresso che hanno deciso di eliminare le “science section” e di distribuire le “science news” nella cronaca, legandole ad attualità o a inchieste. Secondo Dorithy Nelkin, i giornalisti che scrivono di medicina dovrebbero svolgere un ruolo critico di “watchdog”, di cani da guardia. «Fare del buon giornalismo scientifico non significa solo riportare, possibilmente senza errori, ciò che le fonti riferiscono, ma anche fornire un’informazione critica, capace di dare al lettore gli strumenti per comprendere e a farsi un’idea propria»6. Un approccio consapevole ma anche di sano scetticismo, ovvero di “Healthy skepticism”, nome dell’organizzazione non-profit fondata nel 1983 dallo studente di medicina australiano Peter Mansfield con lo scopo di contrastare i mali prodotti dalla fuorviante promozione dell’industria dei farmaci. Linea seguita da altri movimenti di operatori sanitari che si oppongono agli attuali rapporti tra medici e Big Pharma: i NoGrazie in Italia, Préscrire in Francia, NoFreeLunch in Inghilterra, o i No Gracias in Spagna.

Secondo Nico Pitrelli, co-direttore alla Sissa del master di comunicazione della scienza Franco Prattico: «Nelle testate tradizionali, tutte in crisi e con un personale ridotto all’osso, i giornalisti scientifici assunti nelle redazioni si contano oggi sulle dita. Il paradosso – tanti giornalisti specializzati e niente più sezioni scientifiche – è tuttavia solo apparente. I nostri allievi in nove casi su dieci trovano lavoro ma non come giornalisti scientifici. Se scelgono di fare giornalismo non lavorano nelle redazioni ma per lo più come freelance e collaborano soprattutto con testate specializzate come Wired, Le Scienze, Mente&Cervello, Oggi Scienza, Scienza in Rete o a Radio3 Scienza»26. Gli altri – e sono il 70 per cento – trovano impiego nella comunicazione istituzionale della scienza, nell’editoria scolastica, nell’organizzazione di eventi, nella progettazione multimediale, nei musei della scienza. Si direbbe che la copertura dei mezzi di comunicazione per la scienza (la biomedicina è un discorso a parte) da attenta e solerte, quale era stata a partire dagli anni ’70-’80 quando nacquero molte iniziative editoriali per favorire l’alfabetismo scientifico, sembra subire le conseguenze della crisi economica. Eppure mai come in questi due ultimi decenni le notizie che ruotano attorno alla scienza, dalla tecnologia alla medicina, hanno permeato la vita delle persone e la cultura. Le immagini della scienza sono veicolate da cinema, pubblicità, fiction. In film come Minority Report, Gattaca, Blade Runner, Virus Letale, A Beautiful Mind, Odissea 2001, Philadelphia, e in serie televisive come ER, CSI, Dr House la scienza, con i suoi limiti e dilemmi, ha trovato uno spazio pubblico, forse ancor più importante dell’arena mediatica.




Immagine inclinata

Jon Franklin, pioniere in Usa del giornalismo scientifico e premio Pulitzer nel 1979, in suo articolo, The end of science writing, parla di fine del giornalismo scientifico27. Ci si occupa sempre più di biologia, afferma, e in ogni caso qualcosa è cambiato: l’aura di sacralità che circondava la scienza, quella con la “s” maiuscola, si è incrinato. Storie di competizione sfrenata (basti pensare alla guerra tra Francia e Stati Uniti per accaparrarsi le royalities del test sul sangue per l’Aids) e storie di frodi (negli ultimi dieci anni il numero degli articoli ritrattati dai giornali scientifici si è decuplicato rispetto ai dieci anni precedenti e la frode riguarda il 60 per cento di queste ritrattazioni) hanno finito per avere un effetto corrosivo sull’immagine della scienza28,29.

La crisi del giornalismo scientifico, tema centrale della sesta conferenza mondiale degli addetti ai lavori, a Londra nel 2009, cui la rivista Nature ha dedicato uno speciale, offre riflessioni significative. «Le pagine dedicate a scienza e tecnologia sui quotidiani americani sono passate da 95 nel 1989 a 34 nel 2005. Le sezioni di salute e scienza nei quotidiani inglesi e americani vengono sempre più spesso accorpate o fatte migrare in parti dedicate a notizie su affari, benessere, costume a sfondo tecnologico. In controtendenza rispetto agli Usa sembrano il mondo arabo, l’Africa, l’America Latina, dove il numero dei giornalisti scientifici membri dello staff redazionale supera quello dei free-lance. Ancora per poco, secondo alcuni, poiché in realtà in questi Paesi la maggior presenza di giornalisti scientifici sarebbe il sintomo di un ritardo rispetto agli Usa. I tagli arriveranno in quanto rispecchiano cambiamenti strutturali e trasformazioni più ampie»30.

Anche il NYT, come molti altri giornali, ha attraversato (e attraversa) tempi difficili, dovuti al calo della pubblicità e alla crisi di vendite che affligge i quotidiani da una ventina d’anni. Secondo i calcoli di Philip Meyer, studioso dell’editoria americana, l’ultima copia su carta del quotidiano sarà acquistata nel 2043. «Per quale ragione imprese editoriali che in tutto il mondo hanno generato per secoli utili di bilancio, e contribuito in modo determinante a salvaguardare democrazia e valori civili, vedono minacciata la loro stessa sopravvivenza?», si chiede Vittorio Sabadin, giornalista ed ex vice-direttore de La Stampa, nel libro intitolato appunto L’ultima copia del New York Times: il futuro dei giornali di carta31. «Il vero nemico dei giornali, quello che li sta inesorabilmente condannando a morte, è la tecnologia. Il tempo a disposizione della gente è diminuito, e ognuno di noi ha ormai la possibilità di essere informato quando vuole, dove vuole e sui temi che preferisce senza dovere per forza ricorrere alla lettura di un giornale».

La sfida della rete

Il giornalismo, non solo quello scientifico, deve saper raccogliere la sfida dell’evoluzione dei media. E affrontare il rapporto forse più arduo, quello con internet. La rete ha modificato il concetto di tempestività. I quotidiani che avevano il compito di reperire notizie e comunicarle ai lettori nel modo più rapido possibile, ora devono fare i conti con internet. Imbattibile in quanto a rapidità. Il rapporto fra giornalismo scritto e internet ripropone, sotto certi aspetti, quanto è già avvenuto con la nascita del giornalismo televisivo. Quando carta stampata e immagini in movimento si sono confrontate nella gara per informare32. Oggi il sistema di informazioni basato su giornali, riviste, televisione ha trovato innovazioni per integrare tra loro i diversi media. Una multimedialità e cross-medialità con narrazioni alternative della scienza su blog, chat, siti web, social network prodotte da cittadini, consumatori, gruppi di interesse8. Diversi quotidiani italiani, europei e americani, come il NYT, hanno cercato di reagire e di cogliere un’opportunità proprio dalle nuove tecnologie per creare un legame più stretto con il pubblico. Il giornalismo, e non solo quello scientifico, che Jon Franklin, professore di giornalismo all’Università del Maryland, prevedeva giunto a un capolinea, sta subendo probabilmente una metamorfosi/evoluzione da cui potrebbe emergere una nuova forma di comunicazione27. I “linguaggi” usati sono più d’uno e adeguati a una velocizzazione dell’informazione cui dovrebbe corrispondere una nuova capacità culturale.

Conflitto di interessi: l’autrice dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

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