Fra cure intensive e cure palliative ai tempi di CoViD-19

Massimo Romanò1

1Cardiologo, Comitato Ordinatore Master di 2° livello in Cure Palliative, Università di Milano.

Pervenuto il 29 marzo 2020. Accettato il 4 aprile 2020.

Riassunto. La pandemia secondaria all’infezione da virus SARS-CoV-2 ha determinato un grave squilibrio tra domanda e disponibilità effettiva di trattamento intensivo. La carenza di letti in terapia intensiva (TI) e di respiratori per la ventilazione meccanica per i casi di grave insufficienza respiratoria pone gli intensivisti di fronte a scelte drammatiche riguardanti i criteri clinici ed etici da applicare per decidere quali pazienti ricoverare in TI e quali avviare a trattamento di supporto palliativo. I criteri di proporzionalità e appropriatezza delle cure dovrebbero essere integrati con quelli di equità, eguaglianza, utilità, ampliando il concetto di giustizia distributiva dal diritto del malato a ricevere tutte le cure disponibili a quello di corretta allocazione di risorse in un contesto di loro scarsità, guidato dall’etica della salute pubblica. I criteri strettamente clinici devono riguardare la gravità della malattia, la presenza ed entità delle comorbilità, la fragilità, le insufficienze d’organo e il loro stadio e l’età del paziente, il suo livello di autonomia funzionale nella vita quotidiana e il livello cognitivo. Ne consegue che il principio “first come-first served” quale criterio di accesso alla TI non può essere più necessariamente seguito. I pazienti non avviati a TI per le condizioni cliniche descritte e in fase avanzata di malattia dovranno ricevere un trattamento palliativo di qualità, riguardante il controllo farmacologico dei sintomi, soprattutto la dispnea e il delirium, e l’attuazione della sedazione palliativa per le fasi finali della vita. Infine particolare attenzione andrà posta nella gestione del lutto dei familiari dei pazienti deceduti e della prevenzione e trattamento delle problematiche psicologiche e del disturbo da stress post-traumatico a carico degli operatori sanitari coinvolti nel trattamento dell’infezione.

Parole chiave. CoViD-19, cure palliative, terapia intensive.

Between intensive care and palliative care at the time of CoViD-19.

Summary. The pandemic infection caused by the virus SARS-CoV-2 has determined a severe imbalance between demand and actual supply of intensive care. The shortage of intensive care units (ICU) beds and ventilators for the treatment of patients with severe respiratory failure produced angst in the clinicians/intensivists who have to decide which patients admit to ICU and in which patients to implement palliative care. They have to apply specific clinical and ethical criteria, in emergency conditions. Proportionality and appropriateness criteria should be integrated with equity, equality, utility criteria, widening the distributive justice concept from the right of the patient to receive all available therapies to a right resources allocation during shortage, guided by public health ethic. The clinical criteria should include the disease severity, the number and severity of comorbidities, frailty, the organ failures and their stage, the patient’s age, the functional autonomy and cognitive status. Consequently the first come-first served rule to ICU admission should not be applied. The patients not admitted to ICU due to clinical reasons and advanced stage diseases should receive a high quality palliative care, to obtain a good symptoms control (mainly dyspnea, anxiety and delirium) and to implement palliative sedation at the end of life. Finally particular attention should be paid to the bereavement management of the family/caregivers and in the right approach of psychological problems and Post-Traumatic Stress Disorder of health workers involved in the pandemia.

Key words. CoViD-19, intensive care, palliative care.

Introduzione

Questi non sono tempi normali. Sono tempi di guerra. E in tempo di guerra ci sono molti morti e molte sofferenze, sia per chi muore sia per chi sopravvive. In epoca di grave pandemia da CoViD-19 si stanno riproponendo, in maniera ineludibile e per alcuni versi violenta, le tematiche relative a fine vita e bisogni di cure palliative (CP). La relazione tra CP e infezioni è storicamente e prevalentemente connessa all’infezione da HIV1 o a complicanze infettive in pazienti neoplastici e/o immunodepressi2. Vi sono peraltro raccomandazioni, sia di autori canadesi sia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), riguardanti l’implementazione di CP in caso di pandemie3,4.

Il nuovo coronavirus, comparso in Cina alla fine del 2019, denominato SARS-CoV-2 (CoViD-19), in base ai primi dati epidemiologici provenienti dalla Cina, induce una malattia definita severa5 (tabella 1) in circa il 15% dei casi6, con necessità di ricovero in terapia intensiva (TI) nel 5% dei pazienti, in prevalenza per la comparsa di grave insufficienza respiratoria, con evoluzione verso la Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS). La letalità confermata è stata del 2,3%7, pressoché a totale carico dei pazienti con malattia severa6,7. L’età avanzata e le comorbilità associate sono strettamente correlate alla letalità8. Il sintomo più importante è la dispnea. Anche in Italia il numero di malati, soprattutto in alcune regioni, è molto elevato, con alta mortalità e con grave impatto sulla tenuta del sistema ospedaliero, in particolare per quanto riguarda le TI9.




È quindi ipotizzabile che molti malati, per età, comorbilità, quadro clinico generale o per indisponibilità di supporti ventilatori e letti di TI, non vengano avviati a trattamenti invasivi e aggressivi e necessitino di CP. Ciò espone i medici in generale e gli intensivisti in particolare a scelte drammatiche di allocazione delle risorse, cioè a decidere chi e quando ricoverare in TI: i racconti di questa sofferenza psicologica e talora del senso di impotenza sono ripetutamente riferiti in letteratura e sui media, soprattutto provenienti dalla Lombardia11-13.

Faticosamente si sta avviando un percorso relativo all’implementazione della Rete di Cure Palliative (RCP) nella Regione Lombardia14, con supporto consulenziale nei vari setting assistenziali, in attesa di un decreto riguardante tutto il territorio nazionale: nonostante questi primi sforzi il supporto palliativo è, a oggi, assente. Scopo di questo articolo è analizzare le problematiche della gestione etica e clinica dei pazienti con insufficienza respiratoria grave e dei criteri per l’ammissione alle TI.

Cenni epidemiologici

Sono stati pubblicati due importanti report provenienti dall’esperienza cinese. Il primo, relativo a oltre 44.000 casi confermati7, classifica i malati in tre categorie di gravità: lieve-moderata (non polmonite o polmonite lieve-moderata), pari all’81% dei casi; severa (presenza di dispnea, frequenza respiratoria ≥30 atti/min, saturazione arteriosa di ossigeno ≤93%, rapporto fra pressione parziale arteriosa di O2/frazione di ossigeno inspirato <300 (PaO2/FiO2) e/o infiltrati polmonari entro 24/48 ore) pari al 14%; e critica (insufficienza respiratoria, shock settico e/o disfunzione-insufficienza multi organo) nel 5%. L’insufficienza respiratoria riguardava quindi il 19% dei casi. La letalità totale nei casi confermati è stata pari al 2,3%, dell’8% nella decade 70-79 anni e del 14,8% sopra gli 80 anni. I decessi hanno riguardato solo i pazienti nel gruppo “critico”, nel quale il 49% dei malati è morto. La letalità era maggiore nei pazienti con comorbilità (malattie cardiovascolari nel 10,5%, diabete nel 7,3%, malattia respiratoria cronica nel 6,3%, ipertensione arteriosa nel 6% e cancro nel 5,6%%)7. L’età avanzata, un elevato Sequential Organ Failure Assessment (SOFA) score e un valore di d-dimero >1 μg/mL erano i principali fattori correlati alla mortalità intraospedaliera in uno studio retrospettivo riguardante un gruppo di 191 pazienti8.

In un altro report6, più dettagliato ma su un numero inferiore di pazienti (1099), vengono riportati dati interessanti. La gravità dei pazienti era definita non severa e severa, in base ai criteri elencati in tabella 15. I pazienti con malattia severa hanno sviluppato shock settico nel 6,4% dei casi vs 0,1% nei pazienti con forma non severa, ARDS nel 15,6% vs 1,1%, insufficienza renale acuta nel 2,9% vs 0,1%6. La mortalità totale è stata dell’1,4%6. Il 5% ha richiesto il ricovero in TI. I trattamenti non farmacologici sono illustrati in tabella 2.

La percentuale di pazienti affetti da polmonite interstiziale grave con insufficienza respiratoria e che necessitano di ricovero in TI dipende da molte variabili: le aree geografiche analizzate, le modalità di raccolta dati, la disponibilità a eseguire ventilazione non invasiva (NIV) al di fuori delle TI, le comorbilità maggiori, tra cui la fragilità, l’età.

La situazione italiana, in particolare la Lombardia15, presenta dati significativamente differenti rispetto alla Cina, pur se in costante e giornaliera evoluzione. In Italia la percentuale di pazienti ricoverati in TI rispetto al totale dei contagiati è del 7%, rispetto ai ricoverati del 13,8%9, mentre in Lombardia la percentuale di pazienti ricoverati in TI rispetto al totale dei ricoverati rimane intorno al 16%15. Non è noto il dato relativo alla percentuale di pazienti che hanno richiesto ventilazione meccanica.




I dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) al 28 marzo 2020 su 8460 pazienti deceduti riportano un’età mediana dei pazienti infetti di 62 anni (56,6% uomini, 43,4% donne), una letalità del 9,9%9, con una netta preponderanza del genere maschile (nel 70,4% dei casi vs 29,6% nel genere femminile) significativamente più elevata rispetto ai dati cinesi, dovuta verosimilmente alle modalità di conteggio delle morti (direttamente provocate dall’infezione virale o indirettamente, sovrapponendosi alle comorbilità) e al numero non noto dei soggetti asintomatici, ma contagiati. Nella metà dei casi circa, l’età dei pazienti deceduti era >80 anni, mentre l’84% dei morti aveva un’età >70 anni9 (tabella 3). L’età media dei deceduti è di 78 anni (mediana 79 anni). Il dettaglio fornito dall’ISS il 26 marzo presentava anche i dati riguardanti le comorbilità associate, presenti nel 68,9% dei pazienti deceduti10.

Le differenze fra Italia9 e Cina6 rispetto all’età mediana dei malati (63 anni vs 47) può avere differenti spiegazioni: l’età media della popolazione generale italiana è più elevata, con una percentuale di conseguenti comorbilità associate tipiche dell’età avanzata, che rendono i soggetti anziani maggiormente sensibili al virus, il conteggio dei deceduti che comprende tutti i pazienti morti con positività al reverse transcriptase-polymerase chain reaction (RT-PCR)16.




I dati sottolineano come la pandemia da CoViD-19 abbia e stia creando improvviso e grave aumento dei ricoveri in TI, in Italia15 e in precedenza in Cina17, richiedendo un altrettanto grande processo di riorganizzazione delle strutture ospedaliere, attraverso la riconversione di reparti di degenza o di TI specialistica in TI CoViD-19. Inoltre ciò pone gli intensivisti di fronte a nuove problematiche cliniche18,19, con la necessità di acquisire competenze, insieme al nursing, per formare un team esperto per far fronte al nuovo virus20.

Non vi sono evidenze scientifiche forti, come sottolineato nelle recentissime raccomandazioni della European Society of Intensive Care Medicine and the Society of Critical Care Medicine21, rispetto al trattamento farmacologico e alle scelte della modalità di supporto ventilatorio (ventilazione non invasiva, ossigenoterapia ad alto flusso per via nasale o ventilazione meccanica). I pazienti ricoverati in TI inoltre presentano un elevato tasso di comorbilità, cardiovascolari e non cardiovascolari, che può condurre a insufficienza multi-organo, in percentuali elevate (23%)22, in particolare in coloro che sviluppano un quadro di ARDS23.

Quali criteri di accesso alle TI
durante una pandemia?

Il numero di letti di TI e semintensiva in Italia, secondo un report europeo, ammonta a 7550, con un tasso di 12,5 letti/100.000 abitanti, al decimo posto in Europa24, con un numero di 450 reparti di TI. La pandemia da CoViD-19, in particolare in Lombardia, ha richiesto il ricovero in TI di un numero elevatissimo di pazienti, superando nettamente l’offerta di posti letto: si è quindi verificato un pesante squilibrio fra domanda di posti letto e offerta, a cui si è risposto moltiplicando il numero di posti letto disponibili o trasferendo i pazienti in altre regioni italiane. Ma si è posto soprattutto il problema di come adattare le decisioni al momento del triage, in rapporto alla carenza di personale sanitario, di spazi e forniture di materiale sanitario. È diventato prioritario quindi il problema di scegliere le modalità di cura idonee per il singolo paziente, a partire dalla disponibilità dei diversi livelli di cura, in particolare per quanto concerne le TI.

I criteri di accesso alle TI sono guidati da valutazioni cliniche ed etiche, basate su alcuni principi: beneficialità, non maleficialità, autonomia decisionale del paziente, giustizia distributiva. Il concetto di giustizia distributiva non è tuttavia limitato solo al diritto del paziente ad accedere ai trattamenti disponibili, ma anche alla corretta distribuzione delle risorse, soprattutto in un contesto di loro scarsità. Eseguire trattamenti futili ha una ricaduta in termini di costi e impatto sociale: destinare risorse a trattamenti futili, a cui prevedibilmente non conseguiranno benefici per il paziente, comporta l’impossibilità di offrire terapie efficaci ad altri pazienti che invece ne potrebbero trarre vantaggio.

Questi quattro principi si connettono strettamente con due altri concetti: quello di proporzionalità delle cure e di ragionevolezza dell’ottenimento di un risultato. Il concetto di proporzionalità delle cure si basa sul bilanciamento fra appropriatezza delle cure e gravosità del trattamento per il paziente. La cura proporzionata deve essere individualizzata nel singolo malato, tenendo presente gli aspetti clinici, sociali e i suoi valori personali e deve essere valutata dal medico con il paziente, o il suo fiduciario, se presente o con la famiglia se il paziente è incompetente.

Un trattamento dovrebbe essere applicato se ragionevolmente può portare a un beneficio per un dato paziente in un dato contesto, se quindi è appropriato. La concezione dell’appropriatezza solo su base clinica non è sufficiente, poiché il riferimento è all’adeguatezza del trattamento, alla sua tipologia, al luogo in cui viene erogato, alla durata ed efficacia, alle sue complicanze e anche a quello dell’appropriatezza etica. In condizioni di emergenza sanitaria e di scarsità di risorse questi criteri non vengono meno, ma anzi vengono ulteriormente sottolineati e dovrebbero diventare necessariamente cogenti.

Vi sono anche altri criteri etici da considerare, che non sono facilmente conciliabili e sono causa di potenziali conflitti e stress per il team sanitario: il criterio di eguaglianza (curare tutti nel medesimo modo), di equità (curare le persone in modo differente in base alla loro specifica condizione clinica)25, di utilità (allocare le risorse per ottenere il massimo dei benefici e il minimo di oneri)4. La contrapposizione fra eguaglianza ed equità è diretta conseguenza dell’emergenza: in questi casi la pratica clinica non è più solo quella centrata sul paziente, guidata dai principi etici sopra elencati, ma si modifica verso un approccio clinico sul singolo paziente guidato dall’etica della salute pubblica25. Sono due concezioni etiche differenti, una che sottolinea l’aspetto “utilitaristico” dei vantaggi ottenibili per la popolazione generale, l’altra “non utilitaristica” che privilegia il valore unico della vita umana26,27.

Nel 2013 fu pubblicato un documento, nato su impulso della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIIARTI), che coinvolse specialisti di differenti branche e che ottenne l’endorsement della quasi totalità delle Società Scientifiche italiane.

Il titolo era: “Grandi insufficienze d’organo end stage: cure intensive o CP? Documento condiviso per una pianificazione delle scelte di cura”28,29. Il lavoro fu accompagnato anche da un articolo redatto da giuristi, che avevano partecipato a tutte le fasi di gestazione del lavoro30. Era tempo di pace e, nonostante qualche perplessità nel mondo medico, offrì lo spunto di riflessione anche a chi riteneva non si trattasse di una problematica di sua competenza. Oggi siamo in tempo di guerra, sentiamo ripetere, contro la CoViD-19.

SIIARTI ha pubblicato il 6 marzo 2020 un documento tecnico dal titolo: “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”31. Esso nasce per fornire supporto etico e clinico a tutti gli anestesisti-rianimatori italiani, in particolare del Nord Italia, drammaticamente coinvolti nella guerra al virus.

I due documenti, quello del 2013 e quello del 2020, sono strettamente correlati e pongono quesiti che quotidianamente, indipendentemente dall’epidemia, tutti affrontiamo: e cioè quando procedere a trattamenti intensivi, quando fermarsi non attivando o sospendendo trattamenti di supporto vitale (TSV), in particolare la ventilazione meccanica.

I dati salienti del Documento del 2020 riguardano la flessibilità dei criteri di accesso dei pazienti anche non infetti (variabili in rapporto ai contesti organizzativi locali), cercando di garantire le cure intensive ai malati «con maggiori possibilità di successo terapeutico, privilegiando la maggiore speranza di vita»31. Salvare il maggior numero di malati e consentire il maggior numero di anni di vita salvata sono individuate come priorità anche in riflessioni etiche nordamericane26,27. I criteri strettamente clinici devono riguardare la gravità della malattia, la presenza e l’entità delle comorbilità, la fragilità, le insufficienze d’organo e il loro stadio e l’età del paziente, il suo livello di autonomia funzionale nella vita quotidiana e il livello cognitivo28,29. Ne consegue che il principio “first come-first served” quale criterio di accesso alla TI non può essere più necessariamente seguito. Non va dimenticata infine la presenza eventuale di disposizioni anticipate di trattamento (DAT), derivate da una corretta e precedente pianificazione condivisa delle cure, per i malati con patologia cronica avanzata. All’interno di questi processi la scelta del paziente o del fiduciario, se presente, di non intubare e/o di non procedere a tentativi di rianimazione cardiopolmonare può aiutare il medico nella decisione di attivare o meno cure intensive.

La diffusione dell’epidemia ha spinto anche altre società scientifiche32 o centri di ricerca in campo etico25 a pubblicare raccomandazioni analoghe, in termini di allocazione di risorse e principi etici alla base delle decisioni da intraprendere. In letteratura sono riportati anche modelli sviluppati per far fronte a situazioni emergenziali, quali una pandemia, in cui la disponibilità di respiratori sia inferiore alla richiesta33. I fattori considerati valutano la sopravvivenza sia a breve sia a lungo termine, tramite un score a punti, non limitandosi quindi a “premiare” solo la possibilità di essere dimessi vivi dall’ospedale. Sono valutati il punteggio SOFA34, le comorbilità (scompenso cardiaco in IV classe NYHA, malattia polmonare cronica avanzata, ipertensione polmonare in III-IV classe NYHA, malattia epatica cronica con Child-Pugh score >7, un grave trauma, una malattia neuromuscolare in fase avanzata e non trattabile, neoplasia metastatica maligna o neoplasia cerebrale primitiva), differenti decadi di età.

Il triage in previsione di un possibile ricovero in TI è condizionato da due fattori fondamentali: in primo luogo l’incertezza, diagnostica, prognostica, terapeutica e in rapporto ai desideri eventualmente espressi dal paziente. La consapevolezza dei limiti imposti dall’incertezza può rendere più affidabile il giudizio clinico, in rapporto all’inaccuratezza della prognosi e alle decisioni da adottare nei pazienti alla fine della vita. Il livello di incertezza è direttamente proporzionale al livello di complessità del paziente, quest’ultima espressa dai fattori specifici della malattia principale, dal numero di comorbilità e dall’interazione con le componenti non biologiche (status socio-familiare, economico, ambientale, ecc.).




Il triage di pazienti con grave insufficienza respiratoria riguarda vari aspetti, oltre alla decisione di ricoverare o meno il paziente in TI: avviare TSV e predisporre per eventuale rianimazione cardio-polmonare, sospendere TSV, avviare un percorso di CP di qualità25. È condiviso in letteratura ormai da tempo come non attivare o sospendere TSV abbiano lo stesso significato e valore etico, pur se la scelta di sospendere TSV è percepita dai medici come psicologicamente molto differente e molto più sofferta, spesso, rispetto a quella di non attivarli35. In condizioni di emergenza pandemica, la scelta al triage di destinare un paziente al ricovero in TI con disponibilità di un ventilatore a discapito di un altro paziente con minori chances di sopravvivenza e di successiva accettabile durata e qualità di vita residua è emozionalmente molto stressante27.

Considerando i tempi lunghi di degenza in TI in corso di pandemia e la lunga dipendenza dalla ventilazione si rende probabilmente superfluo il ricorso a un periodo “Test” di 48-72 ore, peraltro discusso anche in condizioni di “normalità”35.

Così come ancora più difficile e moralmente estremamente arduo decidere di sospendere la ventilazione meccanica a un paziente intubato, ma con scarse probabilità di sopravvivenza, per “liberare” il respiratore per un paziente con maggiori possibilità di sopravvivenza27. Truog et al.27 suggeriscono che, per sgravare il personale di assistenza da questo carico morale e spirituale (sospendere la ventilazione meccanica a un paziente per utilizzare il respiratore per un altro paziente), venga istituito negli ospedali un organismo indipendente, composto da clinici esperti, rispettati dai medici, che si facciano carico della stesura di criteri di allocazione delle risorse, aggiornandoli in base all’andamento della pandemia e rapportandosi con le famiglie, a supporto dei medici curanti.

Garantire cure palliative
in condizioni di pandemia

Attuare forme di desistenza terapeutica, senza abbandono del paziente, avviando CP di qualità e allocare al meglio le risorse disponibili vale in tempo di pace e soprattutto in condizioni straordinarie di emergenza. In particolare vale per gli anziani, in Pronto soccorso (PS) così come in Residenze sanitarie per anziani (RSA) o Residenze sanitarie per disabili (RSD) dove in questo periodo le morti stanno aumentando significativamente in Italia, come riportato dalla stampa36, tanto da spingere l’Istituto Superiore di Sanità a organizzare una survey dedicata nelle RSA italiane37. Vi è anche un primo report statunitense38 relativo all’incidenza di CoViD-19 in una “long term facility”, con contagio di 101 residenti, età mediana 83 anni, la cui letalità è stata del 33,4%.

Questi dati confermano che nel caso gli anziani sviluppino polmonite interstiziale e insufficienza respiratoria il ricorso all’intubazione e alla connessione a un respiratore sia da considerare inappropriato. Analogamente non si dovrebbero considerare trattamenti intensivi e aggressivi per malati con insufficienze d’organo in fase avanzata28,29.

Tuttavia in questa fase si assiste a una profonda dicotomia fra i pazienti ricoverati in TI e i pazienti ricoverati in reparti di degenza, in RSA, RSD o a domicilio che muoiono con grave sofferenza, in particolare per la dispnea e senza adeguato supporto palliativo. Le CP dovrebbero essere erogate a tutti i livelli assistenziali: PS39, TI, reparti di degenza ordinaria, RSA e RSD, domicilio, attraverso la presa in carico da parte della RCP, con lo scopo di controllare adeguatamente i sintomi, in particolare la dispnea, e garantire ove necessario la sedazione palliativa40.

Deve quindi essere messa in atto una programmazione, nazionale e regionale, di attivazione di CP che, a partire dai differenti livelli di sviluppo e implementazione della Rete Locale di Cure Palliative (RLCP)41, promuova e definisca:

1. La formazione del personale sanitario per adeguare il livello assistenziale alla nuova problematica clinica.

2. Le modalità di consulenza e intervento sul campo dei professionisti della RLCP, attraverso la condivisione di protocolli assistenziali con i team sanitari dedicati ai pazienti CoViD-19, riguardanti la somministrazione di morfina per il controllo della dispnea, di benzodiazepine per il controllo dell’ansia, di aloperidolo per il controllo del delirium, farmaci per il controllo della nausea, del dolore e del rantolo terminale, midazolam e/o propofol in caso di sedazione palliativa. È di fondamentale importanza l’ampia disponibilità di dispositivi di protezione individuale (DPI) per limitare il contagio da parte del personale sanitario.

3. Ridefinizione temporanea dei criteri di accesso alla RLCP dei pazienti non CoViD-19 sino a risoluzione dell’emergenza.

4. Sviluppo e integrazione di strumenti di tele-medicina per modulare gli accessi domiciliari ai pazienti in carico alla RLCP, riducendo il rischio di contagio del personale sanitario e dei pazienti.

Questa programmazione deve promuovere processi di definizione e raccolta di consenso informato, relativamente all’attivazione/sospensione di TSV, con il paziente quando possibile, rispettando eventuali DAT se disponibili, con il fiduciario, se presente, o in assenza di queste due condizioni attraverso il giudizio sostitutivo42.

In assenza di tutte queste condizioni le decisioni circa l’attivazione/sospensione di TSV assumono una valenza particolare e andrà precisato come implementare il criterio del miglior interesse del paziente.

La gestione del lutto durante la pandemia

È ovvio che il processo di informazione, comunicazione e condivisione con il paziente e i familiari circa le scelte da adottare è indispensabile, pur rappresentando un percorso accidentato, durante il quale il paziente e la famiglia dovrebbero ricevere notizie precise, sin dall’inizio della malattia e con ovvia gradualità, in rapporto alla loro tipologia psicologica, culturale e sociale. Ciò assume un’importanza speciale quando muore un paziente affetto da una malattia infettiva altamente contagiosa e con elevata letalità. In questi casi il familiare non può essere vicino al malato, non può vederlo nelle fasi finali della vita, non può organizzare il funerale: il malato a un certo punto sparisce dalla vista e dalle manifestazioni di presenza e affetto della famiglia.

Il modello classico di attivazione di CP, proposto dall’OMS43, attribuisce particolare importanza al supporto e alla gestione del lutto dei familiari dopo la morte del paziente. Il lutto e il dolore legato al lutto sono noti da tempo essere fra le esperienze maggiormente stressanti nella vita di una persona44, con conseguenze anche gravi per il possibile sviluppo di problematiche fisiche e psicologiche (depressione, ansia, insonnia, riduzione delle funzioni cognitive)45, di aumentata incidenza di disturbo da stress post-traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder - PTSD)46 e anche di morte47.

I familiari sono inoltre a rischio di sentirsi abbandonati dal sistema sanitario3: per questi motivi diventa indispensabile, ancora di più che in condizioni di “normalità”, che vengano pianificati interventi specifici e attivati strutture e protocolli specifici per i familiari delle vittime del SARS-CoV-2.

La perdita improvvisa di un familiare, anche se anziano e con molteplici comorbilità, che viene sottratto anche alla vista e all’udito e che non è possibile, per ragioni di salute pubblica, onorare con una cerimonia funebre rischia di generare un flusso enorme di sofferenza psichica che in qualche modo va prevista e supportata, a livello dell’organizzazione dei servizi sanitari e delle competenze del mondo delle CP.

Medici, infermieri e pandemia

Il personale sanitario di assistenza è fra i più colpiti dalla pandemia, in termini di morbilità e mortalità. Inoltre sta affrontando un evento senza precedenti, nel quale le scelte dolorose e traumatiche di allocazione delle risorse e l’impotenza connessa alla mancanza di terapie farmacologiche consolidate aumenta ulteriormente lo stress psicologico. Osservare i loro pazienti morire di continuo, con sintomi non controllati, sentendosi impreparati a un’evenienza pandemica e privi di trattamento di supporto3 potrà determinare numerosi casi di burnout e, nel tempo, fenomeni di massa di PTSD. In uno studio cinese48 relativo a oltre 1200 operatori sanitari (39% medici, 61% nursing) coinvolti direttamente nell’epidemia SARS-CoV-2 è riportato un carico psicologico importante, superiore nel gruppo infermieristico rispetto a quello medico, in particolare a carico del genere femminile. Rilevanti la percentuale di depressione (50,4%), ansia (44,6%), insonnia (34,0%) e distress (71,5%). In un altro studio, di cui è disponibile solo un abstract in inglese, su oltre 200 medici cinesi l’incidenza di PTSD è del 27%, maggiore nel genere femminile49.

Dobbiamo riflettere sul fatto che anche per i medici e gli infermieri esiste il lutto, legato alla perdita di un numero così alto di pazienti, che segnerà per sempre la loro vita privata e professionale.

Conclusioni

La pandemia da SARS-CoV-2 sta incidendo profondamente sulla struttura del servizio sanitario italiano, sul piano organizzativo, gestionale, clinico ed etico. Le scelte in condizioni emergenziali di carenza di offerta sanitaria (disponibilità di posti letto in TI, di respiratori per ventilazione meccanica, di personale medico e infermieristico formato) rispetto alla domanda sono di grave impatto assistenziale ed etico. La definizione di criteri di accesso alle TI in condizioni di “shortage” pone il personale di assistenza medico e infermieristico di fronte a nuovi e imprevisti scenari. Non è più prevalente il concetto “first come-first served”, ma devono essere considerati criteri legati a un approccio clinico sul singolo paziente guidato dall’etica della salute pubblica. Quindi è prioritario non solo il numero più alto di vite salvate, ma garantire le cure intensive ai malati con maggiori possibilità di successo terapeutico, privilegiando la maggior speranza di vita.

Per i malati non destinati a cure intensive e a prognosi infausta deve essere implementato un programma di intervento palliativo che garantisca a tutti i pazienti alla fine della vita, in qualunque setting assistenziale, un adeguato controllo dei sintomi, un ampio ricorso alla sedazione palliativa per una morte dignitosa.

Infine è altrettanto prioritario considerare le conseguenze psicologiche sui familiari e sul personale medico e infermieristico, cercando di costruire percorsi adeguati di diagnosi e trattamento.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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