Il ruolo dell’immunoterapia adiuvante
nei pazienti con melanoma BRAF-mutato

Francesco Spagnolo1

1Oncologia Medica 2, IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Genova.

Pervenuto il 24 settembre 2020. Accettato il 12 ottobre 2020.

Riassunto. L’introduzione degli anticorpi anti-PD-1 come terapia precauzionale nel melanoma ad alto rischio ha rivoluzionato la pratica clinica quotidiana, con un impatto sulla riduzione del rischio di recidiva che si avvicina al 50%, come dimostrato dagli studi clinici registrativi. Nei soggetti che presentano la mutazione di BRAF, inoltre, è disponibile anche la terapia di combinazione con inibitori di BRAF e MEK, con risultati in termini di RFS a 3 anni sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell’immunoterapia. Tuttavia, numerosi interrogativi rimangono aperti, primo tra tutti quale sia la terapia di prima scelta nel paziente BRAF-mutato. Lo scopo di questo articolo è quello di analizzare i risultati degli studi clinici che hanno portato alla registrazione dei recenti trattamenti adiuvanti nel melanoma ad alto rischio, approfondendo alcune tematiche specifiche e discutendo, in particolare, il ruolo dell’immunoterapia nei pazienti con melanoma BRAF-mutato.

Parole chiave. Adiuvante, anti-PD-1, BRAF, immunoterapia, melanoma, nivolumab, pembrolizumab.

he role of immunotherapy for the adjuvant treatment of BRAF-mutant melanoma

Summary. The introduction of anti-PD-1 drugs as an adjuvant treatment for high risk melanoma has radically changed the everyday clinical practice, with an impact on the reduction of the risk of relapse close to 50%, as observed in phase 3 clinical trials. In patients whose tumors harbor a BRAF mutation, the combination of BRAF plus MEK inhibitors is also a valuable option, with outcomes in terms of 3-year RFS similar to those observed with anti-PD-1 immunotherapy. However, numerous questions remain unanswered, particularly which is the best treatment in BRAF-mutant patients. The aim of this review was to analyze the results of randomized phase 3 clinical trials, with a focus on some hot topics and discussing the role of immunotherapy for the adjuvant treatment of BRAF-mutant melanoma.

Key words. Adiuvant, anti-PD-1, BRAF, immunotherapy, melanoma, nivolumab, pembrolizumab.

Introduzione

L’incidenza del melanoma è in continuo aumento e, in Italia, vengono effettuate quasi 13.000 nuove diagnosi ogni anno1. Complessivamente, secondo il rapporto dell’Associazione Italiana Registri Tumori (AIRTUM) del 2019, la sopravvivenza a 5 anni standardizzata per l’età dei pazienti con melanoma è pari all’87% ed è superiore a quella della maggior parte degli altri tumori1. La quota maggioritaria delle nuove diagnosi è rappresentata infatti da melanomi in fase iniziale; la prognosi del melanoma in stadio I e II è molto buona, e il solo trattamento chirurgico assicura una sopravvivenza melanoma-specifica a 5 anni del 98% e dell’82-94%, rispettivamente2. Tuttavia, nello stadio III, ossia quando sono coinvolti i linfonodi regionali e/o quando sono presenti metastasi in transit o satelliti, la probabilità di sopravvivenza melanoma-specifica a 5 anni scende drasticamente, con percentuali che vanno dall’84% al 52% a seconda del sotto-stadio, evidenziando la necessità di un trattamento adiuvante2.

Negli ultimi 10 anni, la gestione del melanoma è cambiata radicalmente, grazie soprattutto all’introduzione di nuove terapie mediche, ma ci sono stati importanti cambiamenti anche nell’approccio chirurgico. Sebbene la biopsia del linfonodo sentinella rimanga lo standard of care nei pazienti in stadio IB e II3,4, la dissezione linfonodale di completamento in caso di presenza di metastasi nel linfonodo sentinella non è più raccomandata dalle linee guida nazionali e internazionali, grazie ai risultati di due studi di fase 3 randomizzati. Infatti, lo studio MSLT-II (second multicenter selective lymphadenectomy trial) e lo studio tedesco DeCOG-SLT hanno dimostrato con risultati del tutto sovrapponibili che la linfadenectomia di completamento non prolunga la sopravvivenza rispetto al solo follow-up ecografico5,6. La dissezione linfonodale rimane indicata in caso di metastasi nei linfonodi regionali diagnosticate clinicamente, in assenza di metastasi a distanza, come raccomandato dalle principali linee guida7,8.

Dal punto di vista delle terapie sistemiche, l’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint immunologici anti-PD-1 è diventata lo standard terapeutico nel melanoma avanzato dopo aver dimostrato un netto vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto alla chemioterapia e agli anti-CTLA-4; inoltre, in presenza di mutazioni di BRAF V600, sono disponibili terapie a bersaglio molecolare di combinazione con inibitori di BRAF e MEK9,10. Recentemente, queste terapie sono diventate anche lo standard of care dei pazienti con melanoma ad alto rischio di recidiva in un setting adiuvante (tabella 1)11-21.

Lo scopo di questo articolo è quello di analizzare i risultati degli studi clinici che hanno portato alla registrazione dei recenti trattamenti adiuvanti nel melanoma ad alto rischio, approfondendo alcune tematiche specifiche e discutendo, in particolare, il ruolo dell’immunoterapia nei pazienti con melanoma BRAF-mutato.

Gli studi registrativi

Tralasciando lo studio EORTC 18071 con ipilimumab ad alte dosi vs placebo, che ha condotto alla registrazione dell’anti-CTLA-4 negli Stati Uniti ma non in Europa (a causa dell’elevato rischio di tossicità severe)11, i tre studi registrativi randomizzati di fase 3 che hanno rivoluzionato la pratica clinica del melanoma nel setting adiuvante sono il KEYNOTE-054 con pembrolizumab vs placebo, il CheckMate-238 con nivolumab vs ipilimumab e il Combi-AD con dabrafenib+trametinib vs placebo (vedi figura 1 per una rappresentazione schematica del disegno di studio). Le principali caratteristiche e i risultati di questi studi sono sintetizzati nella tabella 111-22.







Lo studio CheckMate-238 è l’unico di questi 3 studi che presentava un braccio di controllo con un farmaco attivo. Inoltre, la popolazione di studio comprendeva pazienti in stadio IV resecato, mentre i pazienti in stadio IIIA secondo la classificazione AJCC VII edizione erano stati esclusi, selezionando pazienti a peggior prognosi rispetto agli studi con pembrolizumab e dabrafenib+trametinib, in cui i pazienti in stadio IIIA venivano esclusi solo in caso di metastasi nel linfonodo sentinella inferiori al millimetro, mentre i pazienti in stadio IV resecato non erano eleggibili. Gli studi KEYNOTE-­054 e Combi-AD sono quindi più facilmente confrontabili, pur con i limiti e il rischio di bias del confronto indiretto tra studi diversi, e tenendo sempre presente che nello studio con targeted therapy tutti i pazienti presentavano la mutazione di BRAF. In tutti e tre gli studi, i pazienti con linfonodo sentinella positivo venivano sottoposti a linfadenectomia di completamento11-22.

Sia gli anticorpi anti-PD-1 sia gli inibitori di BRAF+MEK hanno dimostrato un netto vantaggio in termini di sopravvivenza libera da recidiva (RFS) nei confronti del controllo, endpoint primario di tutti e tre gli studi. Il vantaggio si è mantenuto anche in termini di sopravvivenza libera da metastasi a distanza (DMFS) e, nel caso dello studio Combi-AD, anche in termini di sopravvivenza globale (OS)11-22.

Per quanto riguarda la tollerabilità, dabrafenib + trametinib è stato associato a una maggiore frequenza di eventi avversi (AE) di grado 3-4 (pari al 41%), e circa 1/4 dei pazienti ha sospeso il trattamento per tossicità. Per i pazienti trattati con gli anticorpi anti-PD-1, la percentuale di AE di grado 3-4 scende all’8-14%, con un tasso di sospensione permanente del trattamento pari al 10-14%11-22.

Risultati degli anti-PD-1
nei pazienti BRAF-mutati

La popolazione di studio con mutazione di BRAF era ben rappresentata sia nello studio CheckMate-238 sia nel KEYNOTE-054, con percentuali pari al 41% e quasi al 50%, rispettivamente. Si può quindi ragionevolmente affermare che i pazienti non sono stati selezionati in base alla presenza o meno della mutazione di BRAF.

Il disegno dello studio KEYNOTE-054, che prevedeva come controllo il placebo, rende più semplice l’analisi e l’interpretazione dei dati. Inoltre, la popolazione di studio del trial con pembrolizumab presenta caratteristiche sovrapponibili allo studio Combi-AD con dabrafenib+trametinib, facilitando il confronto indiretto dei risultati dei due studi. Il pembrolizumab ha dimostrato di avere un impatto sulla RFS indipendentemente dalla presenza o meno della mutazione di BRAF, con un risultato a 36 mesi del tutto sovrapponibile (62% nei soggetti mutati e 61,8% nei BRAF-wild type). L’hazard ratio (HR) era numericamente migliore nella casistica BRAF-mutata (0,51 vs 0,66), in quanto i pazienti BRAF-mutati che hanno ricevuto placebo hanno avuto una peggiore RFS rispetto ai wild type: a 36 mesi, infatti, solo il 37,1% dei pazienti mutati era libero da recidiva, contro il 46,5% dei soggetti wild type (figura 2)16.




Anche considerando come endpoint la DMFS, il pembrolizumab ha ottenuto risultati sovrapponibili nell’analisi per sottogruppi per presenza o meno della mutazione di BRAF, con valori a 42 mesi pari al 63,7% nei soggetti mutati e al 62,1% nei wild type. Analogamente all’analisi di RFS, anche per la DMFS si osservano peggiori risultati per i pazienti BRAF-mutati che hanno ricevuto placebo22, suggerendo un comportamento più aggressivo del melanoma in stadio III BRAF-mutato rispetto al wild type, ma i dati di letteratura sono controversi23-26. I risultati a 42 mesi della DMFS, con un follow-up mediano di 3,5 anni, rappresentano l’analisi finale per questo endpoint e sono estremamente incoraggianti riguardo all’impatto a lungo termine della terapia adiuvante con pembrolizumab rispetto al placebo. Con una percentuale di pazienti liberi da metastasi a distanza (indipendentemente dalla presenza di una mutazione di BRAF) pari al 65,3% a 42 mesi per il braccio con pembrolizumab e al 49,4% per il braccio con placebo (HR 0,60; CI 95% 0,49-0,73), si osserva infatti una differenza in termini assoluti pari al 16%. Inoltre, il netto vantaggio in termini di DMFS si è osservato per tutti i sottogruppi predefiniti, inclusa l’espressione del PD-L1 (con un vantaggio addirittura maggiore per i pazienti PD-L1 negativi rispetto ai positivi; HR: 0,49 vs 0,61), stadio secondo la VII edizione dell’AJCC, e stato mutazionale di BRAF (con un vantaggio maggiore, come già detto, per la popolazione BRAF-mutata; HR 0,53 vs 0,73) (figura 3)22.




I risultati in termini di RFS a 36 mesi del braccio con placebo (pari al 37% nel sottogruppo con mutazione di BRAF) sono sovrapponibili a quelli del braccio di controllo dello studio Combi-AD (pari al 39%), rendendo ancora più ragionevole il confronto indiretto dei due studi, sebbene è sempre opportuno sottolineare il rischio di bias. Anche per quanto riguarda il braccio sperimentale, pembrolizumab e dabrafenib+trametinib ottengono risultati simili in termini di RFS a 36 mesi (62% nei soggetti mutati e 59%, rispettivamente).

In maniera simile al KEYNOTE-054, anche nello studio CheckMate-238 i risultati dell’anti-PD-1 sono simili nell’analisi per sottogruppi a seconda della presenza o meno della mutazione di BRAF, con percentuali di RFS a 36 mesi pari al 56% per i mutati e al 60% per i wild type13. Questi risultati, apparentemente inferiori a quelli ottenuti con pembrolizumab, sono coerenti con una popolazione di studio a peggiore prognosi rispetto a quella del KEYNOTE-054. In maniera simile al setting metastatico, i due anticorpi possono quindi considerarsi equiattivi anche nella fase adiuvante.

Algoritmo terapeutico nel melanoma
BRAF-mutato

In base ai risultati disponibili oggi, non è possibile indicare con certezza quale sia la terapia adiuvante di prima scelta nel paziente con mutazione di BRAF. I risultati in termini di RFS a 3 anni sono infatti sovrapponibili, e, sebbene per dabrafenib+trametinib siano disponibili i dati a 5 anni (con una RFS pari al 52%)20, per gli studi di immunoterapia non abbiamo ancora raggiunto un follow-up adeguato. Possiamo tuttavia ragionare sulle controindicazioni specifiche delle due classi di trattamento, sui loro vantaggi e svantaggi, e sui risultati in particolari sottogruppi di pazienti.

In caso di controindicazioni assolute al trattamento con inibitori di MEK, come in presenza di particolari patologie oculari, il trattamento con l’immunoterapia è da preferirsi, considerato che il trattamento con inibitori di BRAF in monoterapia non ha dimostrato un vantaggio come terapia adiuvante del melanoma in III stadio rispetto al placebo27. In maniera simile, in presenza di patologie autoimmuni gravi o altre condizioni che possano predisporre il paziente a un maggiore rischio di tossicità immuno-mediate, la terapia a bersaglio molecolare è probabilmente quella di prima scelta. Rimanendo in tema di tossicità, targeted therapy e immunoterapia presentano caratteristiche diverse: se, come già detto, il trattamento con dabrafenib+trametinib è associato a un maggiore rischio complessivo di AE di grado 3-4 e di sospensione permanente della terapia per tossicità, dall’altro lato gli effetti collaterali gravi causati dall’immunoterapia sono di più difficile gestione, richiedendo l’utilizzo di corticosteroidi ad alte dosi o altri immunosoppressori e, seppur raramente, mettendo a rischio la vita del paziente. Inoltre, gli AE autoimmuni che coinvolgono le ghiandole endocrine possono essere cronici e richiedere una terapia sostitutiva a vita.

Analizzando le curve di RFS, appare evidente come il vantaggio della terapia a bersaglio molecolare rispetto al pembrolizumab sia maggiore a 12 mesi (88% vs 75%); a 24 mesi, la RFS dei pazienti trattati con dabrafenib+trametinib crolla di un valore assoluto pari al 21% dei pazienti, mentre per l’anti-PD-1 la discesa della curva è più graduale. Come già detto, a 36 mesi le curve sono praticamente sovrapponibili, mentre non abbiamo ancora dati sull’efficacia dell’immunoterapia a 60 mesi (figura 4)16,20.




Nell’attesa di dati più maturi, facendo un parallelo delle curve di RFS del setting adiuvante con quelle di sopravvivenza libera da malattia (PFS) della fase avanzata si può speculare su quanto potrebbe emergere da un follow-up più a lungo termine. In maniera analoga a quanto osservato in adiuvante, nelle prime fasi di trattamento il dabrafenib in combinazione con il trametinib dimostra un vantaggio in termini di mediana di PFS e di PFS a 12 mesi rispetto all’immunoterapia con anti-PD-1, ma nella pooled analysis dei due studi di fase 3 con dabrafenib+trametinib solo il 19% dei pazienti era libero da progressione a 60 mesi, rispetto al 29% di nivolumab nello studio di fase 3 CheckMate-067 (i dati di PFS 5 anni dello studio di fase 3 KEYNOTE-006 con pembrolizumab non sono ancora stati pubblicati)28,29. Per quanto riguarda la OS, i dati a 5 anni di dabrafenib+trametinib, con una percentuale di pazienti vivi pari al 34%, si confrontano con il 43%-44% di nivolumab e pembrolizumab (in prima linea), e con il 52% di nivolumab+ipilimumab28-30. Occorre sottolineare, tuttavia, che i dati degli studi di immunoterapia si riferiscono a una casistica in cui i pazienti BRAF-mutati erano sottorappresentati, costituendo meno di 1/3 della popolazione di studio, e che i pazienti arruolati negli studi di immunoterapia potrebbero essere stati selezionati per escludere quelli rapidamente progressivi e sintomatici. Dall’osservazione dei dati nel melanoma metastatico, si può comunque speculare che i migliori risultati a lungo termine dell’immunoterapia rispetto alla targeted therapy potrebbero osservarsi anche in fase adiuvante, anche se all’ultimo aggiornamento dello studio CheckMate-238, con un follow-up mediano di 51 mesi, non si è ancora raggiunto il plateau della curva di nivolumab: a 3 anni e a 4 anni, infatti, la RFS è passata dal 58% e 52%14.

Sempre analizzando i dati del melanoma avanzato, si può fare un’altra considerazione che può avere un importante risvolto nel setting adiuvante. L’immunoterapia con gli inibitori dei checkpoint immunologici ha dimostrato di produrre risposte anti-tumorali prolungate anche dopo la sospensione della terapia. Nello studio di fase 3 KEYNOTE-006 con pembrolizumab vs ipilimumab, i pazienti hanno ricevuto il trattamento con l’anticorpo anti-PD-1 per due anni. Con un follow-up mediano pari a 34 mesi dalla sospensione del pembrolizumab, il 78% dei pazienti era libero da progressione e il 96% era vivo a 2 anni dal completamento della terapia. In 8 pazienti, la risposta parziale si è convertita in risposta completa nonostante la sospensione del trattamento30. Nei pazienti con melanoma avanzato che ricevono la targeted therapy, invece, la sospensione della terapia causa una progressione di malattia nella maggior parte dei pazienti, anche per coloro i quali avevano ottenuto una risposta completa31-33, suggerendo che la terapia a bersaglio molecolare non dovrebbe essere sospesa nemmeno in questo sottogruppo di pazienti. Sulla base di queste osservazioni, appare più ragionevole preferire una terapia adiuvante con immunoterapia grazie alla possibilità di produrre e mantenere risposte tumorali anche dopo la sospensione del trattamento, sebbene anche le terapie a bersaglio molecolare sembrerebbero produrre effetti a lungo termine almeno in un sottogruppo di pazienti, probabilmente, anche per la targeted therapy, grazie alla mediazione del sistema immunitario34,35.

Quest’ultima ipotesi sembrerebbe essere confermata dall’analisi di OS dello studio adiuvante con dabrafenib+trametinib. Un fattore di particolare rilevanza per la scelta della migliore terapia adiuvante è infatti rappresentato dall’impatto del trattamento sulla sopravvivenza a lungo termine. Lo studio Combi-AD ha dimostrato un vantaggio in termini di HR per decesso del tutto simile a quello ottenuto per la RFS, con una riduzione del rischio di morte del 43% e una percentuale di pazienti vivi a 3 anni pari all’86% (contro il 77% nel braccio di controllo)18. L’osservazione della curva di OS ci permette anche di rilevare che la differenza tra la curva del braccio di trattamento e quella del braccio con placebo aumenta all’aumentare del follow-up, con un delta pari, in termini assoluti, al 3% a 12 mesi, all’8% a 24 mesi e al 9% a 36 mesi, suggerendo la possibilità di un impatto a lungo termine della terapia precauzionale con dabrafenib+trametinib. Tuttavia, occorre sottolineare l’elevata percentuale di dati censurati per l’analisi di sopravvivenza globale, che deve quindi imporre cautela nell’interpretazione dei dati18. Nell’ultimo update dello studio CheckMate-238, è stata condotta un’analisi preliminare di OS anche se erano stati raggiunti solo 211 dei 302 eventi previsti dal disegno statistico dello studio, non evidenziando differenze statisticamente significative tra nivolumab e ipilimumab ad alte dosi (HR: 0,87; 95% CI 0,66-1,14). Questi dati vanno interpretati, oltre che tenendo conto della limitata potenza statistica dovuta al ridotto numero di eventi, anche considerando che una rilevante quota di pazienti trattati con ipilimumab ha ricevuto una terapia successiva con un anticorpo anti-PD-114.

Per lo studio KEYNOTE-054 con pembrolizumab, invece, non sono disponibili risultati in termini di OS. Tuttavia, in base ai risultati dello studio di Suciu et al.36, che ha analizzato i dati individuali di 13 studi con interferone adiuvante vs placebo e dello studio EORTC 18071 con ipilimumab vs placebo, si può ragionevolmente considerare la RFS come un endpoint surrogato per la sopravvivenza globale negli studi di immunoterapia adiuvante randomizzati contro un placebo. A supporto di questa conclusione, i dati a lungo termine dello studio EORTC 18071 dimostrano addirittura un maggiore vantaggio con ipilimumab rispetto al placebo in termini sia di OS (HR: 0,73) sia di RFS (HR: 0,75)11,37.

Un elemento che può risultare importante per la personalizzazione del trattamento adiuvante è rappresentato dal sotto-stadio di malattia. Nella nuova classificazione dell’AJCC è stata introdotta una nuova sottocategoria dello stadio III, lo stadio IIID, che comprende i pazienti a prognosi peggiore, mentre la sottocategoria IIIA è stata ridefinita per includere pazienti a prognosi migliore rispetto al medesimo sotto-stadio della VII edizione2,38.

Nonostante l’esclusione di tutti i pazienti in stadio IIIA dallo studio con nivolumab, e di quelli in stadio IIIA con metastasi nel linfonodo sentinella inferiore al millimetro negli studi con pembrolizumab e con dabrafenib+trametinib, le agenzie regolatorie hanno registrato questi trattamenti nello stadio III (e IV resecato per nivolumab), indipendentemente dal sotto-stadio. Tuttavia, nello stadio IIIA non è chiaro se e quale terapia adiuvante somministrare ai nostri pazienti, essendo la prognosi molto buona anche senza alcuna terapia. Secondo la nuova stadiazione AJCC VIII edizione, infatti, i pazienti in stadio IIIA hanno una sopravvivenza a 5 e 10 anni del 93% e dell’88%, rispettivamente2. Tuttavia, da un’analisi recentemente pubblicata da Garbe et al.39, è emerso che la sopravvivenza dei pazienti in stadio IIIA potrebbe essere stata sovrastimata. In questa analisi, i pazienti trattati con placebo in due studi randomizzati di fase 3 di terapia adiuvante con interferone pegilato (studio EORTC 18991) e con ipilimumab ad alte dosi (studio EORTC 18071) sono stati riclassificati secondo la nuova stadiazione, e la sopravvivenza dei pazienti in stadio IIIA è risultata inferiore a quella dello studio AJCC, che è retrospettivo e, quindi, maggiormente soggetto a bias. Occorre però sottolineare che le casistiche degli studi EORTC non sono del tutto sovrapponibili con quella AJCC, perché, se da un lato venivano esclusi i pazienti con metastasi in transit (a prognosi più sfavorevole), dall’altro, nel caso dello studio con ipilimumab, venivano esclusi anche quelli con metastasi nel linfonodo sentinella inferiori al millimetro (escludendo quindi i soggetti a prognosi migliore). Nello studio di Garbe et al., veniva anche eseguita un’analisi dei pazienti inseriti nel Registro tumori tedesco in un periodo di tempo sovrapponibile a quello dello studio AJCC. Anche in questa analisi, si conferma un andamento più sfavorevole dei pazienti in IIIA rispetto alla casistica della nuova classificazione2,39.

Per gli studi Combi-AD e KEYNOTE-054 sono state eseguite analisi per sottogruppi riclassificando i pazienti in base alla stadiazione AJCC VIII edizione. In entrambi gli studi, però, il sotto-stadio IIIA era poco rappresentato, e si sono osservati pochissimi eventi, per cui i risultati non sono statisticamente significativi: per pembrolizumab, si è ottenuto un HR pari a 0,43 con un intervallo di confidenza del 99% compreso tra 0,13 e 1,43; per dabrafenib+trametinib, un HR pari a 0,83 con un intervallo di confidenza del 95% compreso tra 0,36 e 1,9117,20. Nella pratica clinica quotidiana, la somministrazione di una terapia adiuvante dovrebbe quindi essere basata su un’attenta valutazione dei rischi e dei benefici, e nei pazienti BRAF-mutati in stadio IIIA, in particolare se con limitato interessamento del linfonodo sentinella, la targeted therapy potrebbe essere preferita all’immunoterapia per il minore rischio di tossicità gravi o croniche.

Anche il sotto-stadio IIID era poco rappresentato negli studi clinici. Tuttavia, a causa della prognosi sfavorevole, sono stati osservati un numero di eventi che permettono di formulare delle ipotesi, nonostante occorra sottolineare gli evidenti limiti di una analisi post hoc per sottogruppi e con un piccolo numero di pazienti. Tra i soggetti trattati con immunoterapia, quasi il 50% è andato incontro a recidiva di malattia alla prima rivalutazione eseguita a 3 mesi; l’HR dell’analisi a 36 mesi era pari a 0,68 con un intervallo di confidenza del 99% compreso tra 0,24 e 1,9117. Nei pazienti che hanno ricevuto dabrafenib+trametinib, invece, il vantaggio è risultato numericamente migliore rispetto a quello osservato nei sotto-stadi a migliore prognosi, per un HR pari a 0,34 con un intervallo di confidenza del 95% compreso tra 0,14 e 0,7920.

Negli stadi IIIB e IIIC, l’immunoterapia adiuvante potrebbe invece preferirsi perché, in analogia a quanto osservato nel melanoma avanzato, potrebbe garantire risultati a lungo termine migliori della targeted therapy28,29, ma solo un follow-up più maturo potrà confermare o smentire questa ipotesi.

A oggi, non esistono biomarcatori plasmatici e tissutali che possano guidare il clinico nella scelta della terapia adiuvante più adeguata. Nello studio KEYNOTE­-054, l’analisi per sottogruppi in base alla positività o negatività dell’espressione del PD-L1 ha dimostrato una migliore RFS nei pazienti positivi rispetto a quelli negativi, con valori a 3 anni pari al 65% e 57%, rispettivamente. Tuttavia, anche nei pazienti che hanno ricevuto il placebo si è osservato un migliore decorso per i pazienti PD-L1 positivi (RFS a 3 anni: 52%) rispetto ai negativi (RFS a 3 anni: 33%)16. Anche nello studio CheckMate-238 con nivolumab vs ipilimumab si è osservato un andamento più favorevole nei casi che esprimevano il PD-L1 indipendentemente dal trattamento ricevuto. L’espressione del PD-L1 ha quindi dimostrato di ricoprire un ruolo prognostico, ma non predittivo di beneficio clinico all’immunoterapia adiuvante.

Conclusioni

L’introduzione degli anticorpi anti-PD-1 e degli inibitori di BRAF+MEK come terapia precauzionale nel melanoma ad alto rischio ha rivoluzionato la pratica clinica quotidiana, con un impatto sulla riduzione del rischio di recidiva che si avvicina al 50%, come dimostrato dagli studi clinici registrativi. Tuttavia, numerosi interrogativi rimangono aperti, primo tra tutti quale sia la terapia di prima scelta nel paziente BRAF-mutato. A oggi, i risultati degli studi clinici non dimostrano un chiaro vantaggio di una strategia rispetto all’altra, per cui la scelta deve basarsi sulla valutazione individuale di ogni paziente, tenendo in considerazione controindicazioni specifiche ai trattamenti (come comorbilità autoimmuni importanti) e sotto-stadio di malattia. Possono anche talora ricoprire un ruolo nel processo decisionale alcuni aspetti pratici riguardanti la somministrazione della terapia, orale per la targeted therapy e infusionale per l’immunoterapia, e, soprattutto, gli specifici profili di tossicità dei trattamenti.

In analogia a quanto osservato nel melanoma avanzato, l’immunoterapia adiuvante potrebbe garantire risultati a lungo termine migliori della targeted therapy28,29, ma solo un follow-up più maturo potrà confermare o smentire questa ipotesi. I risultati di pembrolizumab in termini di DMFS a 42 mesi supportano l’impatto favorevole a lungo termine della terapia adiuvante con gli anticorpi anti-PD-1.

Maggiori sforzi devono essere diretti verso l’identificazione di biomarcatori predittivi di risposta che possano condurre a una migliore personalizzazione delle diverse strategie terapeutiche.

Conflitto di interessi: FS dichiara di ricevere onorari per letture da Roche, MSD, Novartis, BMS.

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