Solidarietà, covid-19 e una leva senza fulcro

Rodolfo Saracci1

1Già Presidente International Epidemiological Association.

Pervenuto su invito l’8 dicembre 2021. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. L’immunità di gregge, o collettiva, è stata lungo tutto il corso dell’epidemia di covid-19 un riferimento permanente, spesso fraintesa come sinonimo tecnico di “fine epidemia” una volta raggiunto un valore-soglia di persone immunizzate. Lo sviluppo dell’epidemia ha mostrato che con i livelli di trasmissibilità delle attuali varianti del coronavirus e gli attuali vaccini questo valore critico è irraggiungibile, mentre è raggiungibile un’immunità collettiva effettiva, principale freno alla diffusione epidemica, tanto più forte quanto più alta la frazione di popolazione vaccinata. Questa immunità dipende dal grado di solidarietà che una società mette in atto adottando nel suo insieme misure di contenimento (gesti barriera, maschere) e vaccinazioni. Un chiaro deficit di solidarietà si è concretizzato all’interno delle nazioni nell’adozione ripetutamente ritardata di provvedimenti, di per sé corretti, di contrasto all’epidemia e a livello internazionale nella scarsissima disponibilità di vaccini nei Paesi a reddito basso e medio-basso. La leva delle azioni contro l’epidemia da parte di governi e autorità sanitarie resta inoperante se non può appoggiarsi sul fulcro di una solidarietà civica che dipende solo dai cittadini, singolarmente e collettivamente, per edificarla pietra su pietra.

Solidarity, covid-19 and a lever without fulcrum.

Summary. Herd, or collective, immunity has been a permanent reference all along the Covid-19 pandemic, often misunderstood as a technical synonym of “epidemic end” once a threshold value of immunized people is reached. The pandemic development has shown that with current variants transmissibility and current vaccines such critical threshold cannot be reached. An effective collective immunity is however attainable, the stronger the higher the population proportion of vaccinated people. This immunity, a powerful brake on the epidemic progression, depends on the degree of solidarity that society enacts as a whole via containment measures (physical distancing, masks) and vaccination. A clear solidarity deficit is manifest within countries in the form of repeatedly delayed adoption of correct interventions against the epidemic and between countries with the heavy shortage of vaccines in countries with low and middle-low income. The lever of counter epidemic actions by governments and health authorities cannot operate without the support of a fulcrum of civic solidarity: it depends only on citizens, individually and collectively, to build it small stone upon stone.

Premessa

Dieci anni fa mi è stata data l’occasione di scrivere nel volume in memoria di Alessandro Liberati1 alcune riflessioni di diversa coloratura, letteraria, scientifica, personale, tutte legate dal filo comune della parola consistency, che Italo Calvino – autore caro ad Alessandro – aveva scelto come titolo per la sesta e ultima delle conferenze del prestigioso ciclo delle “Norton lectures”, che avrebbe dovuto tenere alla Harvard University nell’autunno del 1985. Qualche mese prima Calvino venne improvvisamente a mancare e di quella conferenza è rimasto solo il titolo e qualche materiale preparatorio. A un decennio dalla scomparsa di Alessandro mi sono domandato che cosa mi sentirei di dire oggi della consistency, in mezzo all’evolvere irregolare ed etichettabile come “inconsistente” della pandemia della covid-19 su cui si accavallano gli esordi, individualmente imprevedibili e quindi anch’essi “inconsistenti”, della crisi climatica globale. C’è tuttavia un elemento che nettamente emerge in questo tempo come consistente: la semplice e fondamentale aspirazione di ciascuno a farla finita con la pandemia e a rientrare più o meno nella vita “di prima”. Espressione permanente di questa aspirazione è tutto quanto si è detto e si dice ancora oggi (scrivo nei primissimi giorni di dicembre 2021) dell’immunità di gregge o collettiva, costantemente inseguita, quasi sempre sottointesa o fraintesa come sinonimo tecnico di “fine epidemia” e – al tempo stesso – rivelatrice del grado di solidarietà entro e tra le nazioni.

L’immunità collettiva tra realtà e miraggio

Fin dai primi momenti dell’epidemia l’immunità collettiva è apparsa in parte come obiettivo, in parte come miraggio: il primo ministro britannico Boris Johnson la aveva immediatamente proposta2 come obiettivo realizzabile lasciando correre il coronavirus, così che un massimo numero di persone si infettassero e divenissero immuni il più rapidamente possibile. Gli venne fatto notare, sulla base di simulazioni che utilizzavano i pochi dati di osservazione allora disponibili, che anche presumendo stime ottimistiche sulla letalità della covid-19 il lasciar correre l’epidemia avrebbe causato alcune centinaia di migliaia di decessi. Dietrofront del primo ministro (che nel frattempo aveva contratto la covid-19) e conversione a una strategia di contenimento dei contagi per mezzo di un lockdown. L’immunità collettiva si dissolveva in un miraggio: lungo tutto il corso dell’epidemia è perdurata fino a oggi, non solo in Gran Bretagna ma in tutto il mondo, come un misto di obiettivo e di miraggio per una successione di ragioni, l’importanza delle quali è andata emergendo in primo piano nelle diverse fasi di evoluzione della pandemia.

L’immunità collettiva consiste nel fatto che in una popolazione di persone tutte suscettibili al contagio (zero immuni e zero protezioni), chiusa ai contatti dall’esterno, non occorre che la totalità delle persone sia resa immune perché la propagazione dell’agente infettivo (oggi il coronavirus) cessi di aumentare: per questo è sufficiente che una certa proporzione sia immune. La proporzione dipende dalle caratteristiche intrinseche del coronavirus che ne determinano quantitativamente la capacità di riprodursi nell’ospite e di trasmettersi ad altre persone a contatto: è diventata rapidamente nota la formula 1-1/R(0) che permette di ottenere la proporzione-soglia in funzione di R(0), il numero medio di casi secondari prodotti da un caso infetto durante il periodo di contagiosità. Nelle prime fasi dell’epidemia il valore di R(0) era stato misurato da inchieste sul campo in Cina e Lombardia3, risultando circa 3: applicando la formula si otteneva una proporzione di 0,66 o 66%, da cui derivò immediatamente la vulgata: “quando ci sarà il vaccino occorrerà, e basterà, vaccinare due terzi o poco più della popolazione per essere fuori dall’epidemia”. La formula non piove dal cielo, nasce da modelli matematici della propagazione epidemica, ma è anche intuitivamente plausibile. Una persona infetta che ne infetta 3 significa che la catena di trasmissione del virus non solo si mantiene col contagio di un’altra persona ma si amplia nella misura di 2 ulteriori contagi: su 3 nuovi contagi, 2 (il 66%) esprimono la crescita della trasmissione ma anche il suo limite, essendo il numero “2” e non un valore più grande. Trasferita a livello di popolazione questa proporzione implica che una volta raggiunta la soglia del 66% di immunizzati per contagio la crescita della catena di trasmissione ha raggiunto il limite e si arresta. Se si resta a questo livello-soglia di immunizzati (immunità collettiva soglia), la trasmissione stessa non si arresta e prosegue oscillando intorno all’equilibrio di contagio, detto endemico, di “1 infettante - 1 solo nuovo infetto” (ovvero “10 infettanti - 10 nuovi infetti”): l’equilibrio viene immediatamente perturbato e sospinto in decrescita non appena il livello di immunizzazione va al di là della soglia del 66%: 10 infettanti potranno per esempio produrre solo 9 nuovi infetti, e questi nove (9 x 0,9)= 8 ulteriori casi, in una spirale decrescente che, se indisturbata, perviene all’arresto della trasmissione e circolazione del virus. Questa immunità collettiva assoluta – che è quanto intende l’immaginario dell’immunità collettiva come sinonimo di fine epidemia – significa che il 34% dei non immunizzati viene largamente protetto dal 66% degli immunizzati: punto cruciale e ovvio, quando un vaccino diviene disponibile l’immunizzazione con questo sostituirà fin dove possibile l’immunizzazione per contagio naturale e malattia.

L’immunità collettiva effettiva, principale freno dell’epidemia

La realtà è più complicata del modello semplificato fin qui descritto. Quando la vaccinazione ha potuto iniziare nei primi mesi del 2021, la vulgata del basta vaccinare i due terzi della popolazione per chiudere l’epidemia era già fuori dalla realtà: anziché la variante iniziale, di Wuhan, del coronavirus capace di indurre per 1 caso infetto 3 casi secondari si stavano diffondendo in Europa la variante alfa (inglese) e subito dopo la delta, la prima capace di indurre 4 o 5 casi secondari, la seconda, altamente contagiosa, circa 6. Con la formula citata sopra, la vulgata doveva essere aggiornata portando prima a circa l’80% e poi all’85% i livelli di vaccinazione della popolazione ritenuti necessari per raggiungere l’immunità collettiva assoluta. L’85% della popolazione italiana di 59.258 milioni (al 1/1/2021)4 è di 50.369 milioni e finora ne sono stati vaccinati 47.726 milioni cioè circa il 77%: se si presume e aggiunge una percentuale tra il 5 e il 10% di immunizzati per malattia sembra di non essere lontani dalla meta. Sfortunatamente qui si inserisce un grave limite conosciuto da sempre ma che è stato pochissimo popolarizzato. I modelli matematici contengono tutti varie assunzioni la cui validità condiziona quella del modello e dei risultati che ne derivano: la formula è valida sotto l’assunzione, ragionevole ma non necessariamente soddisfatta nel mondo reale, che una persona immunizzata, per contagio o vaccino, divenga totalmente incapace di trasmettere il virus. L’efficacia vaccinale sulla trasmissione è in questo caso del 100%, ma per i vaccini anti-covid le stime dell’efficacia, difficili da derivare accuratamente dai dati empirici, sono variabili da situazione a situazione ma non vanno al di là del 70%5,6: significa che anche vaccinando tutta la popolazione ne rimarrebbe un 30% ancora capace di trasmettere il virus e che con un valore massimo di efficacia sulla trasmissione del 70% la soglia dell’85% necessaria a innescare la decrescita fino all’arresto della circolazione virale (l’immunità collettiva assoluta) non è raggiungibile con questo coronavirus e questi vaccini. Quello che è raggiungibile, e deve essere perseguito con energia e senza pause, è il freno alla circolazione virale, o immunità collettiva effettiva, freno tanto più forte quanto più alta è la frazione di popolazione vaccinata.

Convivere col virus

È a questo punto chiaro che non ha senso parlare genericamente – come capita da mesi quasi ogni giorno – di “immunità collettiva” (o di gregge, di massa, di comunità) senza precisare se si tratta dell’immunità soglia, di quella assoluta o di quella effettiva. Quest’ultima è il livello di immunità della popolazione, espresso dalla percentuale di immunizzati, che in specifiche circostanze di luogo, tempo, tipo di virus e vaccini presenti, condizioni di protezione (gesti barriera, maschere, ecc.) mantiene l’incidenza di contagi a un livello circa costante. La popolazione “convive” in questo modo col virus in stato endemico ed è verso tale condizione che l’Europa si dirigerà. Questione cruciale: quale è il livello stazionario di incidenza accettabile dalla società? Neil Ferguson, l’epidemiologo computazionale che con le sue proiezioni dello sviluppo epidemico aveva dissuaso Boris Johnson dal fare assegnamento sulla sola immunizzazione per contagio naturale, ha recentemente suggerito l’ipotesi che la Gran Bretagna possa essere vicina a questo stato stazionario, grazie a una immunizzazione via vaccino e via contagio entrambe di livello elevato7. In effetti, da quando a metà luglio il governo ha rimosso le misure collettive e individuali di contenimento della circolazione del virus il numero di contagi giornalieri si è stabilizzato, con larghe oscillazioni, intorno a 40.000 mentre il numero di decessi è oscillato, anch’esso ampiamente, intorno a una media di 125, che, se estrapolato ai 365 giorni di un anno, significa circa 45.000 decessi annuali attribuibili come causa determinante alla covid-19. Rappresentano queste cifre dei “prezzi di equilibrio” che la società è disposta a pagare in moneta di salute per mantenere una vita sociale e un’economia come negli anni precedenti la pandemia? Tutti i Paesi si troveranno ad affrontare la questione dello stato endemico accettabile e a conciliare salute e altri interessi, in primo luogo economici, non nell’acuzie dell’epidemia ma nella durata di anni dell’endemia. Indubbiamente la conciliazione sarà agevolata se le promesse delle nuove molecole per uso terapeutico si confermano, ma questo non rimuoverà il problema del controllo a monte dello stato endemico e della posizione, non retorica ma concreta, della prevenzione nel sistema sanitario e nella società: non si tratta – come spesso si sente dire – solo di fare tesoro dell’esperienza della covid-19 per preparare dei sistemi di risposta a probabili future epidemie ma di controllare nel tempo questa epidemia che col tempo diviene già la prima delle future! D’altra parte neppure lo stato endemico, non ancora raggiunto, potrà obbligatoriamente segnare la fine della pandemia, per due ragioni.

Primo perché lo stato endemico dipende dalla costanza del livello di immunità della popolazione e la durata della protezione vaccinale sulla malattia e sulla trasmissione del virus è sconosciuta: contrariando le speranze (sarebbe scorretto parlare di “previsioni”) di esperti e pubblico si deve constatare che non solo il livello anticorpale ma la protezione sulla covid-19 sintomatica cala nettamente entro l’anno8,9 e le speranze di durata di almeno un anno si riportano oggi sulla protezione conseguente al richiamo (“booster”) attualmente in corso. L’analogia con l’influenza, spesso citata, è sviante perché si tratta di virus con caratteristiche molto diverse: in particolare la capacità di trasmissione e contagio è alta per il coronavirus delta (10 infetti possono contagiare 60 o 70 persone) mentre è nettamente inferiore per i virus influenzali (10 infettanti per 15 o meno infettati nell’influenza stagionale, 20 nelle pandemie, inclusa la Spagnola10) più facilmente controllabili anche da vaccini di media efficacia e da misure di contenimento non troppo restrittive.

In secondo luogo il problema di gran lunga più grave, chiaramente sottolineato dall’arrivo in Europa della variante omicron (a virulenza e severità ancora non caratterizzate), è la bassa percentuale di immunizzati per vaccinazione nella massima parte delle popolazioni del mondo. All’inizio di ottobre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), alla luce dell’andamento delle vaccinazioni nel mondo, aveva indicato nel 40% della popolazione di ogni nazione l’obiettivo di vaccinazioni complete per la fine del 2021 e del 70% a metà del 202211. A un mese dalla conclusione del 2021, ourworldindata12 riporta per l’insieme della popolazione mondiale una percentuale del 43,8 che scende tuttavia al 37,1 escludendo la Cina. Ma questa percentuale globale copre grandi variazioni: nell’insieme delle popolazioni classificate dalla Banca Mondiale come a basso reddito per abitante (1,26 miliardi), maggioritariamente in Africa, la percentuale è un infimo 3,0%, nelle popolazioni a reddito medio-basso (2,76 miliardi) è 27,9%, nei 3,15 miliardi di quelle a reddito medio-alto è 66,5% e nelle popolazioni ad alto reddito (730 milioni) 67, 9%: in sintesi più della metà della popolazione mondiale di 7,9 miliardi è al basso livello del 20% e solo 6 dei 54 Paesi africani raggiungono l’obiettivo del 40%. All’interno della stessa Unione Europea, per la quale l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) riporta una percentuale del 66,2% si va dall’81,6% del Portogallo fino al 46,1% della Slovacchia e al 25,5 % della Bulgaria13. Dal punto di vista della protezione contro decessi e forme gravi di covid-19 qualunque livello di vaccinazione, con vaccini anche di media efficacia, è prezioso se i vaccini vengono indirizzati alle persone che per età e condizioni di salute sono ad alto rischio. Da questo punto di vista gli obiettivi del 40% e 70% dell’OMS sono ambiziosi, sostanziali e al tempo stesso realistici quando rapportati alla produzione attuale di vaccini che è di circa 1,5 miliardi di dosi per mese. Ma dal punto di vista del controllo della pandemia quasi tutte le cifre fin qui citate, combinate con l’incompleta efficacia sulla trasmissione virale dei vaccini attuali, rappresentano un’immunità collettiva effettiva mediocre e un freno che lascia ampia corsa alla circolazione del coronavirus e al correlato potenziale di insorgenza di mutazioni e varianti, dalle caratteristiche imprevedibili. In questa situazione diviene plausibile che il 2022 non segni una “fine epidemia” ma l’instaurazione di uno stato endemico, con diverse incidenze di contagi nei diversi Paesi e regioni del mondo e con sovrapposte irregolari punte epidemiche, cioè uno stato endemo-epidemico. Fino a quando questo potrebbe prolungarsi è totalmente imprevedibile, tra spinte verso l’auto-limitazione e l’estinzione attraverso ripetute immunizzazioni da vaccini e naturali e spinte opposte verso la continuazione a partenza da focolai residui, cadute di immunizzazione e nuove varianti. Quanto più si renderanno disponibili migliori terapie facilmente accessibili e somministrabili precocemente tanto più le conseguenze negative dello stato endemico-epidemico si ridurranno.

La leva senza fulcro

Nel percorso che si snoda dall’iniziale “basta vaccinare i due terzi della popolazione perché l’epidemia sia finita” alla prospettiva attuale di un persistente stato endemo-epidemico, il filo conduttore dell’immunità collettiva porta a un constatazione fondamentale: non c’è immunità collettiva, di qualunque tipo, se non c’è solidarietà collettiva. In forma diretta e indispensabile questa si realizza con l’adozione e la pratica rigorosa di misure e comportamenti contro la diffusione dell’epidemia anche se risultanti in vario grado limitativi delle libertà di scelta individuali e collettive.

Nei contesti nazionali e locali questa solidarietà, presente in tutti i Paesi, è stata messa inevitabilmente a dura prova dal tempo lungo della pandemia e dai legittimi interessi economici e necessità sociali dei singoli e di piccoli e grandi gruppi. Interessi e necessità, così come opinioni libertarie di individui e movimenti, sono state sostenute non raramente con un accanimento che ha semplicemente ignorato l’esistenza dell’emergenza sanitaria mai spenta: e contro la solidarietà nel concreto dell’epidemia (anziché nei proclami elettorali) hanno potentemente agito le sorgenti mediatiche di misinformazione e disinformazione e movimenti e partiti di destra inclini all’autoritarismo e intolleranti del dissenso che si sono d’un colpo scoperti alfieri della libertà contro la “dittatura sanitaria” e relative disposizioni liberticide (uniche ammissibili e prioritarie le chiusure delle frontiere, in primo luogo a migranti e rifugiati). In Europa ci sono governi che hanno più o meno sposato queste posizioni ma la maggior parte degli esecutivi si è invece destreggiata in un arduo esercizio di compensazione delle diverse pressioni: un risultato ricorrente è stato che decisioni in sé corrette per l’adozione di provvedimenti efficaci contro l’epidemia sono state prese quasi sempre in ritardo. È incredibile che all’inizio di dicembre 2021 dopo venti mesi di epidemia e con ampia disponibilità di vaccini efficaci in gran parte dell’Europa si ponga ancora una volta la domanda: “reggeranno gli ospedali alla nuova ondata?”14. Il carico e sovraccarico ospedaliero è constatazione di danno per la popolazione e di rinnovata pressione sul personale sanitario rudemente provato da quasi due anni di emergenza: derivarne, come in varia misura in tutti Paesi europei, indicatori quantitativi, spesso preponderanti su altri indicatori, per guidare le misure di freno all’epidemia ha di fatto convertito una scelta apparentemente solo tecnica in un pesante deficit di solidarietà. Se si usano indicatori di carico ospedaliero in presenza di un virus che può arrivare a raddoppiare i contagi in una settimana o meno, occorre intervenire con misure costose di natura solidale a soglie molto basse di progressione del carico e non quando si delinea il sovraccarico.

Problematica è poi la solidarietà in un altro sviluppo in corso. Il beneficio netto della vaccinazione per i bambini dai 5 agli 11 anni appare sufficientemente ben documentato15 e dall’inizio dell’epidemia la covid-19 ha rappresentato in Italia circa il 3% del totale delle cause di decesso nei bambini di queste età16,17: l’affermazione da parte di un’autorità sanitaria18, ripresa da vari media, che la covid-19 costituisca una delle prime cause di morte è un’egregia bufala. In queste condizioni vaccinare i bambini è di per sé una priorità o lo diventa solo indirettamente perché contribuisce a frenare la circolazione del virus? Se questa è la ragione, è discutibile sotto il profilo e dell’etica e della solidarietà, di cui si trasferisce l’onere prima ai bambini anziché trasferirlo prima o almeno contemporaneamente, via obbligo vaccinale, agli adulti ancora oggi non vaccinati.

Per il contesto internazionale i numeri e le percentuali di vaccinazione citate in precedenza disegnano un quadro di debole o debolissima immunità collettiva effettiva per una larga parte della popolazione mondiale: è il risultato di una solidarietà globale precaria ed erratica, sottoprodotto del ciascuno per sé e qualche volta, come nell’Unione Europa, un po’ per i vicini. Ne segue un persistente vasto numero di contagi, forme cliniche e decessi per covid-19: gli oltre 5 milioni di morti ufficialmente registrate finora dall’OMS19 come imputabili nel mondo alla covid-19 rappresentano verosimilmente una sottostima della realtà e l’eccesso della mortalità totale rispetto agli anni pre-pandemici potrebbe essere secondo l’analisi dell’Economist (che comporta importanti assunzioni)20 di due o tre volte più grande. In parallelo ne segue anche una continua e intensa circolazione su scala mondiale del coronavirus, un “boomerang” della mancanza di solidarietà da parte dei Paesi ad alto reddito la cui sicurezza da alta immunità è continuamente minacciata dall’arrivo dagli altri Paesi di focolai e nuove varianti, essendo grossolanamente irrealistico il sogno di frontiere sigillate. La pandemia è uno “stress test” per le nazioni e per il sistema del capitalismo globale, ormai “solo al mondo”21 nelle sue principali declinazioni, liberal-democratica, social-democratica e autoritaria, con cui il mondo si trova ad affrontare le sfide della presente e delle possibili future pandemie e della crisi climatica. Il sistema è capace di produrre progressi scientifici e tecnologici luminosi e ombre sociali e umane dense e immense, di cui l’eccellente articolo nel Financial Times “The inside story of the Pfizer vaccine”22 documenta e commenta uno spaccato. Come ogni sistema sociale, ma più di altri in quanto ormai generalizzato, il capitalismo «sistema dissipatore e irrazionale ci controlla mentre dovremmo essere noi a controllarlo»23. A livello globale il deficit di controllo e di governabilità del sistema è al tempo stesso causa e conseguenza del deficit di solidarietà internazionale nel contrasto alla pandemia di cui sono un’espressione i deludenti risultati di non poche iniziative delle organizzazioni delle Nazioni Unite, come il meccanismo COVAX dell’OMS per un accesso equo ai vaccini, a cui fanno eco nel campo della crisi climatica i risultati della recente COP 26 di Glasgow. Quello che oggi i governi vogliono e possono fare entro e tra nazioni (anche qui il volere è al tempo stesso causa e conseguenza del potere) è perfettamente simboleggiato, intenzionalmente o inconsciamente da parte dell’autore Xavier de Fraissinette, da una scultura celebrativa della riunione del G7 tenutasi nel giugno 1996 a Lione e che oggi si può vedere nel grande parco della Tête d’or: come è evidente dall’immagine (figura 1) i sette grandi di questo mondo sono solo in grado di fare rotolare, e magari mandare a rotoli, il globo terrestre perché per governarlo sollevandolo alla maniera di Archimede manca il punto di appoggio, il fulcro della leva. Quel fulcro mancante è un solido blocco iniziale di solidarietà che permette alla leva di operare e che oggi è divenuto di vitale importanza non solo per il controllo della pandemia ma per la sopravvivenza di ogni forma di vita nel piccolo pianeta Terra. Credo che Alessandro sarebbe d’accordo nel dire che è nelle mani di ognuno di noi agire perché il nostro lavoro e le nostre azioni come cittadini convergano “consistentemente”, pietra su pietra, a costruire questo blocco di solidarietà civica.

1 L’evoluzione della pandemia osservabile fino a metà gennaio 2022, con l’espansione della variante omicron, rafforza sfortunatamente gli argomenti e le conclusioni del testo e conferma la transizione verso una condizione endemo-epidemica.




Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

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5. Seppala E, Veneti L, Starrfelt J, et al. Vaccine effectiveness against infection with the Delta (B.1.617.2) variant, Norway, April to August 2021. Euro Surveill 2021; 26: 2100793.

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21. Milanovic B. Capitalism, alone. Cambridge, Mass.: Belknap Press of Harvard University Press, 2019.

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