La morte volontaria medicalmente assistita in Italia:
un disegno di legge o solo un compromesso politico?

Giuseppe R. Gristina1

1Medico anestesista-rianimatore.

Pervenuto il 2 ottobre 2022. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. Premessa. In Italia, dopo due sentenze della Corte costituzionale (n. 242/2019: depenalizzazione, a determinate condizioni, dell’art. 580 del codice penale relativo all’aiuto o all’istigazione al suicidio e n. 50/2022: inammissibilità del referendum popolare con cui si richiedeva l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale riguardante l’omicidio del consenziente), il tema della morte volontaria medicalmente assistita è stato disciplinato, nella fattispecie del suicidio medicalmente assistito (SMA), nel disegno di legge (DdL) “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” approvato dalla Camera dei Deputati (DdL n. 3101) e ora all’esame del Senato (DdL n. 2553). Scopo. Valutare, nella prospettiva dell’etica della cura, se il DdL può essere considerato uno strumento giuridico utile ad affrontare i problemi sia delle persone malate che chiedono il SMA sia dei professionisti sanitari che le assistono. Risultati. Un’analisi sistematica del DdL ha evidenziato quattro criticità: 1) l’estromissione del percorso del SMA dalla relazione di cura; 2) il rapporto di mutua esclusione tra SMA e cure palliative; 3) la necessità di essere dipendenti dai trattamenti di sostegno vitale (DTSV) per ottenere l’accesso alla procedura di SMA come condizione discriminante tra i malati con stessa patologia (DTSV rappresenta una delle quattro esimenti previste dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale per il reato di favoreggiamento o induzione al suicidio); 4) l’obiezione di coscienza da parte dei medici che pone in tensione il diritto della persona malata e quello del medico. Conclusioni. Il DdL non sembra tener conto né dei concreti problemi della persona malata alla fine della vita che chiede di accelerare il suo processo di morte tramite SMA né di quelli dei professionisti sanitari che se ne prendono cura; sembra piuttosto che la preoccupazione prima del legislatore sia stata quella di dar seguito alle sollecitazioni della Corte costituzionale garantendo l’unico compromesso politico possibile. Il DdL rappresenta un’inversione di tendenza rispetto alla concezione di un diritto che accompagna la moderna complessità del tema malattia-morte e che ha ispirato la legge n. 219/2017.

Parole chiave. Cure palliative, obiezione di coscienza, suicidio medicalmente assistito, supporti vitali.

Medical assistance in dying in Italy: a bill of law or just a political compromise?

Summary. Introduction. After two judgements by the Italian constitutional Court (the first one – No. 242/2019 – related to the decriminalisation, under well-defined conditions, of the article No. 580 of the penal code: support or incitement to commit suicide, and, the second – No. 50/2022 – related to the referendum held in regard to the partial repeal of article No. 579 of the penal code: murder of the consenting party), the issue of the physician assisted suicide (PAS) has been recently regulated by the bill of law No. 3101, approved by the Italian Chamber of Deputies, currently before the Senate and registered with the No. 2553. Purpose. To assess from the healthcare ethics perspective whether the bill of law can be considered an helpful legal tool to address the problems of both sick people who request PAS and the health professionals caring for them. Findings. A systematic analysis of the bill of law has highlighted four critical issues: 1) PAS left out from the doctor-patient relationship; 2) the mutual exclusion between PAS and palliative care; 3) the dependency on life-sustaining treatments (DLST) to get PAS procedure as a condition discriminating against sick people not dependent (DLST represents one of the four conditions covered by the Italian constitutional Court judgement No. 242/2019 in order to exempt someone for the crime of aiding or inciting someone else to commit suicide); 4) the conscientious objection setting the rights of the doctor and the sick person against each other. Meaning. The bill of law does not take into account both the concrete problems of the sick people asking for hasten their death through the PAS procedure and those of the health professionals caring for them; it seems rather that the legislator’s primary concern was to provide the follow-up to the solicitations of the Constitutional Court, only guaranteeing a political compromise. The bill of law therefore goes against the interpretation of the right as a system of rules taking into account the modern complexity of the disease-death paradigm which drawn up the law No. 219/2017.

Key words. Conscientious objection, life-sustaining treatments, palliative care, physician assisted suicide.

Introduzione

Il 10 marzo 2022 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge (DdL) n. 3101, recante norme in materia di morte volontaria medicalmente assistita nella fattispecie del suicidio medicalmente assistito (SMA).

Il DdL, ora all’esame del Senato come DdL n. 25531, è volto a colmare la lacuna dell’ordinamento italiano in materia di fine-vita e segue due sentenze della Corte costituzionale. La prima è relativa alla depenalizzazione, a determinate condizioni, dell’art. 580 del c.p. – istigazione o aiuto al suicidio (sentenza n. 242/2019 – caso Antoniani/Cappato2 che segue l’ordinanza n. 207/2018); la seconda (sentenza n. 50/2022) riguarda l’inammissibilità del referendum sull’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. – omicidio del consenziente, impropriamente pubblicizzato dai promotori come “referendum sull’eutanasia”3.

Fin dai primi anni 2000, ripetuti sondaggi condotti nel nostro Paese in concomitanza di casi emblematici hanno registrato un netto, crescente favore degli italiani circa la morte volontaria medicalmente assistita4-9. L’approvazione del DdL rappresenta dunque l’esito di un iter complicato, avviato circa nove anni or sono e costellato di dibattiti anche aspri che hanno coinvolto le forze politiche, la giurisprudenza e la società nel suo complesso.

Il tema del SMA era stato già affrontato, con documenti dedicati, nel 2019 dal Comitato Nazionale per la Bioetica10 e dal Gruppo di Lavoro Biodiritto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento11, e nell’agosto 2022 dal Gruppo di Lavoro “Undirittogentile” del Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e delle Relazioni Internazionali dell’Università di Padova12.

L’intento dei promotori dell’iniziativa legislativa è quello di rispondere all’invito della Consulta di garantire «una regolazione della materia, intesa ad evitare scenari gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità»2, e di offrire una risposta a tutte le persone malate che chiedono di vedere rispettato il proprio diritto a una morte dignitosa e che oggi, per questo, sono obbligate a recarsi in Paesi dove la morte volontaria medicalmente assistita è depenalizzata.

Un’analisi del DdL condotta nella prospettiva dell’etica della cura evidenzia tuttavia almeno quattro rilevanti criticità dal punto di vista dei clinici.

I punti critici del disegno di legge

La relazione di cura

I promotori del DdL, pur non fornendone esplicite motivazioni, hanno ritenuto che la procedura debba attuarsi «con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale» (art. 2.1)1 coinvolgendo direttamente la figura professionale del medico sia nella fase istruttoria sia in quella esecutiva. Paradossalmente, nonostante questo esplicito coinvolgimento, l’impianto concettuale del DdL appare fondato sulla completa estraneità alla relazione di cura della richiesta di SMA e della relativa procedura.

L’obiettivo degli estensori non sembra infatti quello di sostenere e accompagnare la persona malata nella parte finale del suo percorso di sofferenza e nella sua scelta estrema, ma semplicemente di riconoscerle un diritto purché ricorrano definite condizioni e ci si muova entro rigidi percorsi formali (artt. 4 e 5). In essi non si rinviene infatti alcun concreto provvedimento mirato a offrire quella presa in carico globale che costituisce l’unica testimonianza della particolare attenzione alla delicatissima fase finale della traiettoria di malattia e alla drammaticità delle decisioni in gioco.

Il linguaggio burocratico usato tradisce la preoccupazione di accertare esclusivamente la sussistenza delle quattro condizioni previste dalla Corte costituzionale nell’art. 3 della sentenza n. 242/2022 («[…] persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli…»)2, attraverso multiple verifiche procedurali, a loro volta segnate da possibili rigetti, contro i quali la tutela della volontà della persona malata è affidata al ricorso a un “giudice territorialmente competente” (art. 5.8). Come se una persona che giunge a considerare la morte quale unico mezzo per sfuggire alla sofferenza indotta da una malattia lunga e dolorosa possa disporsi ad affrontare di buon grado un complicato iter procedurale.

D’altra parte, indipendentemente dalla loro fisiopatologia, tutte le malattie degenerative sono condizioni irreversibili, di lunga durata, a esito infausto, caratterizzate da esacerbazioni sempre più frequenti e ingravescenti che peggiorano la qualità della vita a causa della crescente disabilità, cui consegue una dipendenza dai caregiver prima o poi completa13. Inoltre, è ormai ampiamente provato che queste malattie, da una determinata fase della loro evoluzione in poi, costringono la persona malata a confrontarsi con l’idea della propria morte14. Si avvia in questo modo una sequenza di percezioni di sé sempre più negativa che si organizza attorno a specifici costrutti (perdita di dignità, perdita di speranza, sensazione di sconfitta e intrappolamento, completo isolamento dalla propria rete di prossimità, solitudine, perdita del senso di appartenenza, percezione di sé come di un peso)15-20 e che costituisce, in alcuni casi, una spirale al fondo della quale la morte può essere considerata non più come un evento temibile, ma come scelta razionale di liberazione da un’autocognizione disperante; in definitiva, come una fuga da un dolore psicologico opprimente e immedicabile.

Così, oltre alle implicazioni morali e giuridiche, ai fini della valutazione della richiesta di SMA, sarebbe stato opportuno valorizzare la prospettiva clinica lungo la quale si svolge la relazione di cura per fornire elementi utili a comprendere gli intimi percorsi psicologici21-26 attraverso i quali molte persone cronicamente malate arrivano autonomamente alla decisione esistenziale di suicidarsi o di chiedere di porre fine alla propria vita tramite SMA in risposta a una malattia percepita ormai come intollerabile27-37.

Si spiega allora il dato secondo il quale, nei Paesi in cui l’assistenza medica al morire è lecita, in più del 70% dei casi questa è richiesta da malati la cui sintomatologia dolorosa, poiché completamente controllata tramite appropriati livelli di analgesia, non costituisce certamente la motivazione primaria38.

Solo una specifica attenzione a questi aspetti, in una relazione di cura basata sulla intera dimensione psico-fisica della persona malata, permette dunque di comprendere che le richieste di morte medicalmente assistita hanno origini articolate che includono certamente fattori inerenti alla malattia, ma che questi hanno una funzione di trigger rispetto a elementi psicologici, spirituali, culturali, ma anche economici e demografici che, in varia combinazione, svolgono invece il vero ruolo attivo nel processo di maturazione dell’ideazione di morte. Il solo esame fisico non può cogliere questa complessità, non riuscendo così né a interpretare correttamente il significato più profondo delle preferenze della persona malata, né, per conseguenza, a intercettare per tempo le eventuali modifiche delle sue priorità39 che potrebbero ancora aprire possibili spazi di trattamento40,41.

Al contrario, nel DdL, seguendo la più tradizionale visione meccanicistico-riduzionista della medicina d’organo, la biografia della persona malata e i contenuti di sofferenza che ne sostanziano la complessità della condizione psico-fisica sono enucleati a viva forza dal personale vissuto di malattia e dalla relazione di cura nel momento di maggiore fragilità per lasciare il posto all’unica prova accettabile per gli estensori in quanto tangibile: l’entità del danno biologico.

Le cure palliative

L’art. 3.1 del DdL pone come precondizione di accesso alla domanda di SMA il rifiuto o l’interruzione delle cure palliative (CP) finalizzate ad alleviare la sofferenza della persona malata: «Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che […] sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate o le abbia volontariamente interrotte». Questa persona perciò, secondo gli estensori, dovrebbe paradossalmente rimanere priva del supporto idoneo al controllo della sofferenza per tutta la durata della fase istruttoria proprio quando tale sofferenza è massima42.

Sembra qui che gli estensori abbiano voluto tenere ben distinte le CP dal SMA, a riprova ulteriore del già citato presupposto ideale della sua esclusione dalla relazione di cura, evidentemente preoccupati più di sottolineare l’estraneità della funzione del medico alla procedura, in particolare del palliativista, piuttosto che garantire alla persona malata tutto il conforto e la necessaria assistenza.

Un simile approccio finisce per supportare la visione corporativa della professione medica mantenendone la centralità nella relazione con la persona malata, e spiega la più eclatante contraddizione della medicina moderna: se questa nasce per curare e prendersi cura delle persone malate, come è possibile che ancora negli anni venti del duemila si continui a parlare di cura centrata sul paziente come di un obiettivo tutt’altro che raggiunto? Non a caso, nonostante la mole di teorie e modelli che la descrivono, i risultati delle ricerche riguardanti la cura centrata sul paziente depongono per una loro sostanziale incapacità di riflettere pienamente l’esperienza delle persone malate43-45.

Nell’ambito delle CP il dibattito sul SMA è stato affrontato da tempo. La posizione ufficiale di molte società scientifiche nazionali in Europa, inclusa quella italiana (Società Italiana di Cure Palliative - SICP)46, coincide con quella della società europea (European Association of Palliative Care - EAPC)47,48 secondo la quale «le cure palliative considerano la morte un evento naturale e non la accelerano né la ritardano», con quella dell’associazione internazionale (International Association for Hospice and Palliative Care - IAHPC)49 secondo la quale «negli Stati in cui la morte medicalmente assistita (eutanasia e/o SMA) è legale, i palliativisti non dovrebbero essere responsabili in alcuna forma di queste pratiche. Le leggi di quegli Stati dovrebbero includere disposizioni tali per cui qualsiasi operatore sanitario che si opponga debba essere autorizzato a negare la partecipazione», e con quella, simile, dell’American College of Physicians50. Questa visione si basa sulla concezione secondo la quale le CP, essendo necessarie fino al momento della morte, non possono mai essere considerate futili come invece una eventuale legittimazione ufficiale del SMA avrebbe potuto indurre implicitamente a ritenere. Al di là delle convinzioni morali di ciascuno, un ulteriore timore, condiviso dalla gran parte dei palliativisti, consiste nel fatto che essendo l’accompagnamento uno dei cardini dell’approccio palliativo alla persona morente – la legge n. 38/201051 definisce le CP come «l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei malati la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici» – i palliativisti potrebbero essere identificati come gli specialisti tra le cui funzioni vi è quella di porre in atto il SMA. In questo senso, la SICP nel 2019, come già l’EAPC nel 2015, ha sottolineato l’importanza «di implementare un sistema organizzativo che copra in modo efficace e omogeneo tutto il territorio nazionale, al fine di scongiurare il più possibile le richieste di morte volontaria medicalmente assistita per mancato controllo delle sofferenze globali (fisiche, psicologiche, sociali, spirituali) e per garantire una risposta adeguata ai bisogni dei pazienti che si avviano alla fine della vita e dei loro familiari»48.

In sintesi, molti palliativisti, così come molti di coloro che con varie ragioni sono contrari all’introduzione dell’istituto del SMA, ritengono che un’efficace implementazione delle CP nei sistemi sanitari e la crescita di una cultura delle CP tra i professionisti sanitari e nella popolazione possano essere ampiamente sufficienti a prevenire la domanda di SMA da parte delle persone cronicamente malate o contribuire a modificare la loro scelta52-54. Questa auspicabile prospettiva è però ancora oggi ben lungi dall’essere realizzata, come testimoniano le rilevanti lacune nella qualità delle CP anche nei Paesi a più alto reddito55 e in particolare nel nostro. D’altra parte, a testimonianza della già citata complessità dei meccanismi che portano alla richiesta di SMA, giova ricordare che anche là dove le CP sono garantite con standard di qualità elevati come nel Regno Unito56, una percentuale significativa di persone cronicamente malate, molte delle quali già in trattamento palliativo domiciliare o in hospice, opta per la richiesta di SMA57-66.

Se dunque è vero che ancora molto è necessario fare per raggiungere un livello ottimale di assistenza nel settore delle CP, dovrebbe essere riconosciuto da parte di tutti gli stakeholder, ma in particolare dai palliativisti, che mentre si adempie al dovere sociale di migliorare la qualità dell’assistenza alle persone cronicamente malate alla fine della vita, non sia negato tutto il necessario supporto a chi oggi, per le sue sofferenze, chiede di essere aiutato a morire.

Così, il DdL avrebbe potuto utilmente richiamare, in qualche forma, il contenuto dell’art. 5 della legge n. 219/2017 (pianificazione condivisa delle cure) – un istituto essenziale delle CP67,68 – proprio per dar modo alla persona malata di giungere eventualmente alla decisione di porre fine alla propria vita tramite un adeguato processo informativo condotto nel contesto della relazione di cura con i medici di riferimento. Una comunicazione aperta, efficace, meditata per il tempo necessario – se del caso anche con la rete di prossimità, che includa informazioni su tutte le opzioni riguardo alle cure alla fine della vita, unita a un accompagnamento attivo lungo tutta la fase finale di malattia perché fondato proprio sulla concreta presenza dell’équipe di CP –, permetterebbe ai sanitari di interpretare correttamente il significato più profondo delle preferenze della persona malata.

D’altronde, la letteratura scientifica concorda nell’affermare che una comunicazione siffatta, oltre a ottemperare a norme professionali, etiche e legali69, rappresenta l’unico metodo in grado di garantire da un lato un’assistenza di fine-vita ottimale70-73, dall’altro, come già detto, di intercettare per tempo eventuali modifiche delle priorità delle persona malata che potrebbero scongiurare la scelta del SMA74.

La dipendenza dai supporti vitali

L’art. 3.2b mostra invece la preoccupazione degli estensori del DdL di riportare fedelmente le già citate condizioni che la Corte costituzionale ha posto per la depenalizzazione dell’art. 580 c.p.

Tale preoccupazione non appare giustificabile.

Mentre la Corte costituzionale delibera su casi specifici (nel caso Antoniani/Cappato la funzione respiratoria dell’Antoniani era meccanicamente supportata, seppure in modo discontinuo nella giornata), il legislatore ha il dovere di rendere la norma idonea a bilanciare le multiformi istanze presenti nei diversi contesti di malattia.

Appare perciò ingiustificata, sotto ogni profilo, la discriminazione posta dalla condizione prevista dall’art. 3.2b (esser tenuti in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale) tra malati che, a parità di gravità della patologia e della sofferenza, possono veder rispettata o no la propria volontà in base a una condizione che non necessariamente caratterizza l’irreversibilità di una patologia a prognosi infausta come previsto dall’art. 1 del DdL. Il recente caso della donna affetta da una neoplasia polmonare particolarmente aggressiva, accompagnata a morire tramite SMA in Svizzera dal tesoriere della Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, poi autodenunciatosi, ne è un esempio75.

Peraltro, la letteratura scientifica ha da tempo chiarito che nei Paesi in cui il SMA è depenalizzato, più del 70% dei malati che vi fa ricorso è affetto da neoplasie in fase terminale senza alcuna necessità di supporto delle funzioni vitali76,77. È quindi evidente che l’attuale formulazione dell’art. 3.2b del DdL genera un’odiosa disparità di trattamento tra persone malate che versano in condizioni simili.

La condizione di dipendenza dai supporti vitali contenuta nell’art. 3.2b solleva però altre due importanti questioni che rimangono irrisolte.

La prima riguarda il significato che gli estensori del DdL abbiano inteso dare alla dizione “trattamenti sanitari di sostegno vitale”.

A questo proposito è rilevante il contenuto della sentenza della Corte d’assise di Massa che, nel 2020, in merito al “caso Trentini” afferma (punto 15.2 della motivazione) che «la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina».

Integrando l’analisi di quanto previsto nella legge n. 219/2017 e nella sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, la Corte d’assise conclude che «ciò che ha rilevanza sono tutti quei trattamenti sanitari – sia di tipo farmaceutico, sia di tipo assistenziale medico o paramedico, sia, infine, con l’utilizzo di macchinari, compresi la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale – senza i quali si viene ad innescare nel malato un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte»78,79.

La pratica clinica conferma questa interpretazione80,81 e pertanto sono da intendersi come trattamenti di sostegno vitale tutti i trattamenti che garantiscono alla persona malata una aspettativa di vita anche solo di poco superiore a quella naturale. Non solo quindi quelli che sostituiscono parzialmente o completamente le funzioni vitali, ma anche i dispositivi impiantabili per la protezione da eventi avversi (per es., pace-maker, defibrillatore impiantabile), per l’erogazione personalizzata di farmaci (per es., diabete, morbo di Parkinson), nonché tutti i farmaci in grado di mantenere la persona malata in compenso funzionale rallentando l’evoluzione progressiva di malattie croniche a esito naturalmente fatale e prevenendo le riacutizzazioni.

In ultimo, la condizione prevista all’art. 3.2b del DdL entra in evidente contrasto con quanto contenuto nell’art. 1.5 della legge n. 219/201782 che testualmente recita: «Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso», chiarendo che il diritto al rifiuto non è in alcun modo limitato dalla tipologia del trattamento.

Sempre in rapporto alla legge n. 219/2017, il DdL apre poi a una riflessione su un’altra possibile incongruenza, peraltro rilevata dalla Corte costituzionale nelle considerazioni in diritto della sentenza n. 242/2019, che si preferisce riportare integralmente per la sua chiarezza espositiva: «[…] Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, […] – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale. Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri. La conclusione è dunque che, entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita […]».

L’obiezione di coscienza

La medicina assegna al professionista che la esercita il ruolo di agente morale; il medico non può essere pertanto ritenuto un mero prestatore d’opera. Come tali, i medici hanno quindi definiti doveri, che li riguardano in modo esclusivo, nei confronti delle persone malate, della società83,84 e della legge che per essi prevede limiti e regole di comportamento specifici. In aggiunta, proprio in quanto agenti morali, oltre a possedere e utilizzare le migliori competenze scientifiche, i medici devono essere in grado di svolgere ragionamenti che forniscano argomentazioni utili a decidere responsabilmente, in ogni singola situazione, tra cosa è bene e cosa non lo è, e scegliere razionalmente l’azione migliore possibile da compiere nel migliore interesse della persona malata. L’etica clinica – parte dell’etica medica – così intesa, permette da un lato di supportare il medico nel corso di questo processo decisionale, dall’altro di valutare, in termini morali, le azioni da lui compiute e le loro conseguenze. In questo senso, l’etica clinica si suole definire anche normativa e prevede tre principali sistemi di analisi teorica:

1. consequenzialista – il giudizio etico valorizza maggiormente le conseguenze delle azioni dell’agente rispetto ai suoi doveri85: un’azione è etica o non etica in rapporto alle conseguenze positive o negative che produce;

2. deontologista – il giudizio etico valorizza maggiormente la capacità dell’agente di adempiere ai propri doveri86: l’agente agisce eticamente se, nella situazione data, rispetta soprattutto i suoi doveri più che porre attenzione alle conseguenze delle sue azioni;

3. etica delle virtù – incentra il ragionamento etico sulle qualità morali dell’agente87: poiché la bontà delle azioni dell’agente deriva dalle sue qualità morali, tanto più queste saranno elevate tanto più le sue azioni saranno eticamente soddisfacenti.

Nella pratica della relazione di cura, la prospettiva etica consequenzialista renderà meno problematico un approccio clinico centrato sulle volontà e sulle preferenze del malato al contrario della prospettiva deontologista, centrata maggiormente sui doveri del medico88.

Come nel caso della legge, anche in quello dell’etica viene stabilito un livello minimo di comportamento accettabile ed è pertanto possibile prevedere azioni necessarie (obbligatorie) e azioni che vanno oltre quanto eticamente richiesto (supererogatorie) in genere considerate per questo lodevoli. Pertanto, così come si può agire andando oltre quanto richiesto dalla legge, si può agire in modo più etico di quanto richiesto dall’etica.

D’altra parte, i medici si trovano a dover prendere decisioni in situazioni sempre diverse e con gradazioni di complessità etica variabile fino a raggiungere la dimensione di un vero e proprio dilemma etico (necessità di scegliere tra due opzioni etiche, nessuna delle quali sarà soddisfacente perché dalla scelta deriverà comunque un danno)89-92. È quindi evidente che nella realtà operativa della relazione di cura le azioni obbligatorie potrebbero risultare eticamente insoddisfacenti richiedendo ai medici una messa in gioco diretta della propria responsabilità con azioni supererogatorie.

Si comprende allora perché i medici trovino più utile considerare complementari i tre approcci dell’etica normativa piuttosto che in alternativa. Solo effettuando un continuo bilanciamento tra le proprie regole morali, la natura dei propri doveri e la portata e le conseguenze delle proprie azioni, un medico può sperare di agire nel modo più etico possibile e gestire l’incertezza.

Un’ulteriore prospettiva etica che ha finito per essere di riferimento nella pratica clinica, in quanto in grado, come asserito dai suoi autori, di essere utilizzata sia dai deontologisti sia dai consequenzialisti, è quella “principilista”93, fondata su quattro principi: 1) rispetto per l’autonomia della persona malata; 2) fare il suo bene (beneficenza); 3) non fare il suo male (non maleficenza); 4) essere giusti (equo trattamento ed equa distribuzione delle risorse disponibili). I quattro principi rappresentano fondamentali valori di uguale importanza, pertanto, in astratto, non esiste tra loro una gerarchia. Questa sarà stabilita invece in ciascun caso concreto e dipenderà dai fatti che lo caratterizzano e dalle scale valoriali di coloro che vi sono coinvolti. Dunque, pur essendo possibile che in una data situazione medici con differenti prospettive etiche riconoscano che sono in gioco gli stessi principi, è pure possibile che, in ragione di quelle stesse prospettive, i contenuti che essi attribuiranno a ogni principio e il loro ordine di rilevanza potranno cambiare fino a divenire addirittura antitetici.

Un esempio concreto di questo contrasto ideale è rappresentato dalla diversa interpretazione che i medici danno del loro ruolo rispetto all’eventuale trasformazione in legge del DdL sul SMA.

Il ruolo di agente morale del medico è riconosciuto sia dai sostenitori sia dagli oppositori del SMA. Tuttavia, mentre i primi individuano proprio nella natura di quel ruolo la condizione necessaria per realizzare il migliore interesse della persona malata, per i secondi è proprio il ruolo di agente morale che implica il dovere di non procurare la morte della persona malata ancorché richiesta94.

I sostenitori del SMA lo considerano quindi un atto compassionevole che rispetta la scelta della persona malata e adempie all’obbligo di non abbandono. Gli argomenti etici forniti a sostegno consistono nel rispetto del principio di autonomia della persona malata (la decisione di finire intenzionalmente la propria vita è considerata come essenzialmente privata) e in una interpretazione ampia del dovere del medico di alleviare la sofferenza in linea con i principi di beneficenza e non maleficenza95.

Anche gli oppositori riconoscono il dovere di rispettare l’autonomia della persona malata, ma non lo considerano come assoluto e, anzi, ritengono che esso vada bilanciato con altri principi etici. Se la finalità della professione consiste nella cura e nel conforto, allora i medici non dovrebbero partecipare in alcuna veste al SMA poiché questo richiede la violazione di specifici doveri derivanti da quei principi di beneficenza e non maleficenza96 invocati peraltro anche dai fautori del SMA.

In questo dibattito teorico, che può avere però rilevanti ricadute sia sui diritti delle persone malate che su quelli dei professionisti sanitari, va purtroppo segnalata l’assenza delle più importanti istituzioni mediche nazionali che, al contrario delle loro omologhe di altri Stati, non sono minimamente intervenute nel merito né con indagini conoscitive sulle preferenze dei medici, né promuovendo dibattiti. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odonotoiatri (FNOMCeO), per parte sua, pur mantenendo immodificato l’art. 17 del Codice di Deontologia97 – divieto di compiere atti finalizzati a provocare la morte – ha aggiunto specifici indirizzi applicativi come mera presa d’atto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019. Questo intervento ha tuttavia generato un’antinomia tra i due dispositivi che contribuirà a renderne problematica la fruizione nella pratica clinica qualora il DdL dovesse essere approvato anche dal Senato.

Preso atto della scelta strategica di essere assenti dal dibattito operata dagli organismi più rappresentativi della categoria98, non deve meravigliare che, per quanto riguarda il medico, poco ci sia da aggiungere alla constatazione del ruolo di mero burocrate/esecutore cui il DdL lo ha relegato, fatta salva la previsione dell’obiezione di coscienza – unico tema di reale interesse delle istituzioni mediche – la cui formulazione nell’art. 6 non è però diversa da quella dell’art. 9 della legge 19499. Anche in questo caso infatti si sono creati i presupposti per generare nella prassi clinica quotidiana la stessa tensione tra il diritto del medico e quello della persona che fa richiesta di SMA, senza offrire alcuna soluzione idonea a favorire il necessario bilanciamento tra i diritti di entrambi.

In merito, è interessante notare che il Codice Internazionale di Etica Medica redatto dalla World Medical Federation100 stabilisce (item 29): «Physician conscientious objection to provision of any lawful medical interventions may only be exercised if the individual patient is not harmed or discriminated against and if the patient’s health is not endangered», chiarendo esplicitamente che l’obiezione di coscienza è un diritto del medico purché la persona malata non ne sia danneggiata o discriminata o veda posta a rischio la sua salute.

Al contrario, se si fosse inserito il tema del SMA all’interno della relazione di cura, il medico sarebbe potuto uscire da una visione concentrata sull’atto e sui mezzi – chi fa cosa, se, come e quando – per focalizzarsi su una visione relazionale, cioè sul fine: aiutare una persona a realizzare al meglio il proprio progetto di fine vita.

Si sarebbe potuta allora considerare una “disponibilità di coscienza”, non data o negata in astratto e a priori ma collocata in quello specifico contesto di cura e fiducia, in quella singola storia costruita da una specifica persona malata e uno specifico medico.

D’altronde, pur ammettendo che a priori un medico possa essere idealmente a favore o contrario al SMA, la pratica della relazione di cura insegna che ci sono storie di malattia e di cura in cui un medico può sentirsi profondamente coinvolto e perciò stesso disposto a mettersi moralmente in gioco, altre in cui questo può non accadere101.

Tenere conto dell’importanza e del peso che l’approccio relazionale può avere sulla eventuale disponibilità del medico sarebbe stato d’aiuto per evitare sia le rigide pastoie burocratiche delle dichiarazioni ufficiali (art. 6)1, sia il malinteso, diffusissimo per quanto attiene alla legge 194, secondo cui una coscienza esiste solo quando obietta, mentre i non obiettori i problemi di coscienza non se li pongono mai.

D’altra parte, è pure evidente che, in mancanza di una figura di medico di riferimento così come descritta, la persona malata che richiede il SMA deve poter comunque vedere garantito il suo diritto sancito per legge. È quindi necessario prevedere in ogni caso un registro nazionale di medici disposti ad assicurare il supporto clinico alla corretta effettuazione della procedura.

Conclusioni

Tra i meriti della sentenza della Corte costituzionale relativa alla legalizzazione del SMA vi è anche quello di aver riacceso l’importante dibattito su come il SSN fornisce le cure alla fine della vita e su come supporta le persone cronicamente malate e il personale sanitario che le assiste.

Nella discussione, sia i sostenitori del SMA sia i suoi oppositori riconoscono che l’assistenza sanitaria dedicata in Italia alla fase finale della vita è ancora contrassegnata da intollerabili lacune riguardanti sia l’offerta sia l’accessibilità ai servizi. Come emerge da questa revisione critica del DdL, l’esclusione del SMA dalla gamma delle opzioni di cura aggrava questa situazione costituendo una delle più rilevanti criticità del DdL stesso.

Per rispettare i principi di universalità, uguaglianza ed equità su cui si fonda il nostro sistema sanitario sarebbe allora opportuno che il legislatore, i decisori politici e i professionisti sanitari considerassero le CP e il SMA come parte di una gamma completa di opzioni di cura alla fine della vita di cui promuovere lo sviluppo per fornire, in modo responsabile, un’assistenza piena alle persone cronicamente malate. In questo senso, se il DdL testimonia l’intenzione di garantire l’autonomia delle persone malate e dei medici, è pur vero che il peso del processo del morire e di una morte dopo una malattia lunga e dolorosa non può essere alleviato soltanto da una normazione giuridica che, per giunta, considera le CP e il SMA come opzioni mutuamente esclusive.

Così, mentre ancora si argomenta sul piano teorico in favore o contro il SMA, è necessario tenere concretamente presente che la qualità di un percorso di fine vita è fortemente condizionata dalla qualità dell’assistenza sanitaria che viene erogata in quella particolare fase a quella particolare persona. Questa assistenza non può essere negata soltanto perché la persona malata sceglie di concludere attivamente la propria vita: il SSN, per sua stessa missione e vocazione, dovrebbe esserle comunque accanto fino all’ultimo.

Per i medici che sceglieranno di partecipare alla procedura di SMA, sia nel caso di una disponibilità completa sia nel caso di una disponibilità data a una persona in particolare, la decisione sarà presa in modo consapevole, dopo una riflessione approfondita, a testimoniare che, quando non è più possibile curare, è compito del medico alleviare la sofferenza anche aiutando ad accelerare il processo di morte. Per quelli che non si renderanno mai disponibili, la loro decisione rifletterà la convinzione, altrettanto profonda e meditata, che è certamente dovere del medico alleviare la sofferenza ma senza abbreviare il processo di morte. A questi ultimi è offerta l’opzione dell’obiezione di coscienza, che dovrebbe tuttavia essere utilizzata facendo attenzione a non ostacolare le scelte finali delle persone malate sulla base delle proprie convinzioni morali o religiose o, più banalmente, per impreparazione o peggio, per difensivismo.

Questa possibilità dovrebbe essere, invece, un’opportunità per il medico obiettore di esplorare gli aspetti più complessi della sofferenza della persona malata e dei suoi familiari discutendo con loro le scelte disponibili per affrontare i sintomi fisici e psicologici con un approccio più ampio e più aggressivo. In questo modo l’obiezione di coscienza può trasformarsi in un mezzo per promuovere attivamente la qualità delle cure evitando di favorire il disinteresse e il disimpegno102.

In conclusione, la persona che chiede al medico di porre fine alla propria vita esprime un bisogno di assistenza. La risposta deve trovare le sue radici non solo nelle sensibilità personali, ma anche in una consolidata cultura sanitaria e giuridica in grado di vincere ogni tipo di emarginazione, anche quella generata dalla malattia.

Questi contenuti, che animano sicuramente la legge n. 219/2017, non si rinvengono nel DdL n. 2553 che avrebbe dovuto costituirne l’ideale complemento in un’esaustiva trattazione giuridica della materia del fine-vita. Il DdL rappresenta quindi un’inversione di tendenza rispetto alla concezione di un diritto che accompagna la moderna complessità del paradigma “vita – malattia – morte” e che ha ispirato la legge n. 219/2017.

È questionabile che la stesura del DdL abbia davvero tenuto nel dovuto conto i concreti problemi della persona malata alla fine della sua vita e dei professionisti sanitari che se ne prendono cura. Sembra piuttosto che la preoccupazione prima del legislatore sia stata quella di rispondere alle sollecitazioni della Corte costituzionale garantendo l’unico compromesso possibile nella situazione politica data.




Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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