Ritratto di Laura Dalla Ragione:
pensare fuori dagli steccati




Lavoro e formazione professionale

Nella formazione di un medico
– ma più in generale di una persona – contano i “maestri”?

I maestri sono fondamentali, perché possono a qualunque età cambiare il corso di una intera vita e il tuo modo di vedere il mondo. Non sarei la persona, né il medico che sono, se non avessi incontrato Carlo Manuali, psichiatra, che a 14 anni mi ha fatto capire che la cura dei malati psichiatrici poteva avvenire fuori dalle mure di qualunque manicomio. E Paolo Rossi Monti, filosofo, che mi ha spinto a pensare fuori dagli steccati, e soprattutto mi ha convinto a scrivere. Per fare in modo che la mia esperienza clinica non si perdesse e potesse essere fonte di ispirazione per altri.

Al contrario i cattivi maestri sono quelli che non ti fanno cambiare nulla, che ti fanno rimanere dove sei. E in verità non li ho mai ascoltati.

Com’è cambiata la medicina da quando lei aveva scelto di diventare medico?
E il concetto di cura?

Come psichiatra in Italia ho avuto l’opportunità di attraversare il più grande dei cambiamenti possibili, e cioè quello di potere chiudere dei luoghi di emarginazione e sofferenza, quali erano gli ospedali psichiatrici, e costruire percorsi di cura nel territorio. Ho sempre lavorato nel servizio pubblico e direi che per me salvaguardare il diritto alle cure di tutti è stata la priorità assoluta. Costruire servizi nel territorio, andando incontro a nuovi bisogni di salute, come le nuove forme di disagio giovanile, i disturbi del comportamento alimentare, la sofferenza infantile sono state le grandi sfide di questi anni.

In psichiatria, il concetto di cura da sempre si declina in modo anomalo rispetto al paradigma medico, perché la guarigione non coincide mai con la restitutio ad integrum, niente in realtà torna più come prima. La malattia, come ci racconta Susan Sontag, ci dà un passaporto per intraprendere un viaggio in una terra straniera, mai visitata prima, quella della malattia: da quel viaggio si torna comunque cambiati.

Ma la guarigione nell’essere umano ha a che fare comunque con il prendersi cura, e soprattutto con la relazione con l’altro. In psicoterapia forse non sempre si guarisce, ma si cambia, si impara a tollerare i propri limiti, ad ammettere la propria fragilità. È lo sguardo dell’altro che cura, che sceglie proprio te, che ti tira fuori dall’anonimato, dalla terra degli sbagliati e degli invisibili. Quello sguardo che ci perdona di essere come siamo, che ci permette di abbassare le difese e ci rivela che andiamo bene proprio così. Solo quello sguardo rende abitabile il destino e lo trasforma in destinazione, conferisce un senso di forza alla vita, che non è forse tutta la felicità che vorrebbe il cuore umano, ma è nutrimento sufficiente a sopportare ciò che manca.

In che direzione dovrebbe cambiare il modo di guardare alla salute considerando i grandi cambiamenti del nostro tempo?

Io credo che una grande lezione per tutti noi sia stata l’epidemia di Covid-19, che ci ha costretto a rivedere il nostro concetto di salute e di patologia e contemporaneamente le questioni costitutive del nostro vivere: il rapporto tra politica e scienza, i confini delle libertà individuali, il peso delle capacità di organizzazione e reazione dei sistemi pubblici. Ci ha portato a comprendere che la salute è un bene di tutti e solo insieme possiamo affrontare le sfide dei prossimi anni.

In un ambito come quello in cui lei ha sempre lavorato – all’intersezione tra il sanitario e il sociale – come dovrebbero essere governati i confini tra le professioni e le appartenenze all’una o all’altra professione?

Nel trattamento dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, il trattamento d’elezione è quello multidisciplinare e quindi con figure professionali molto diverse, essendo una patologia che riguarda la mente e il corpo. Psicologi, medici, nutrizionisti, infermieri, assistenti sociali, tante figure che compongono un puzzle che deve riuscire ad aggredire una patologia severa, che in Italia riguarda 3 milioni di persone e che nel 2022 ha causato 3200 decessi correlati. Non è semplice costruire un linguaggio comune, che deve tenere conto delle specifiche professionalità, ma è la condizione fondamentale per costruire un progetto di cura efficace.

Nella sua vita professionale, qual è la parte più noiosa e quella invece più gratificante?

La parte più noiosa è sicuramente la parte burocratica, che negli ultimi anni è diventata un grande impegno, nel Ssn, ma nello stesso tempo per realizzare innovazioni e realizzare sogni, sono necessarie delle griglie, dei percorsi diagnostici (Pdta), dei confini, e quindi alla fine la parte noiosa e quella gratificante sono strettamente intrecciate.

Sfide e scommesse

Se fosse ministra della salute, a quale punto critico del servizio sanitario cercherebbe di trovare soluzione? Avrebbe già in mente una – o più – soluzione/i per i punti deboli del nostro sistema?

Mi occupo da vent’anni di terapia e riabilitazione dei disturbi alimentari, ho costruito strutture in varie regioni italiane, ma in questo momento c’è una vera e propria emergenza in Italia e sicuramente se fossi ministro della Salute cercherei di garantire che ogni regione abbia una rete completa di assistenza per questa patologia. Attualmente la metà delle regioni italiane non ha assistenza adeguata e questo determina risposte parziali e mobilità extraregionale, che aggiunge stress a pazienti e famiglie già fortemente provati da una patologia severa e molto insidiosa.

Sempre a proposito del Ssn, pensa che realmente siano in pericolo i principi fondanti di un sistema basato sull’universalità delle cure e sulla solidarietà?

Francamente penso di sì, mi sembra che progressivamente sia sempre maggiore la differenza di assistenza e l’aspettativa di vita nelle diverse realtà regionali. Nel mio settore ad esempio i dati Rencam di mortalità (nel 2022 pari a 3245 decessi correlati a diagnosi di Dca) sono molto diversi da regione a regione. Ovviamente nelle regioni dove non ci sono centri specializzati si muore di più, perché non si arriva alle cure precocemente. Non si muore di anoressia, ma si muore perché non si è arrivati alle cure.

C’è una persona della Politica con la quale avrebbe piacere di andare a cena? Di cosa le piacerebbe parlarle?

Mi piacerebbe andare a cena con Giorgia Meloni, che ho conosciuto quando era ministro della Gioventù, e con cui abbiamo fatto i primi progetti dedicati ai disturbi alimentari. Vorrei raccontarle quante cose sono cambiate da allora e quante cose sono necessarie in questo momento. Per garantire equità delle cure e appropriatezza in tutto il territorio nazionale.

Lettura, scrittura, aggiornamento

Un aspetto importante della professione riguarda la comunicazione della ricerca:
nella sua esperienza, come si può riuscire a trovare il tempo per organizzarla, per condurla e per rendicontarla?

Non riesco a immaginare di tenere separata la clinica dalla ricerca, e questo credo debba essere una strada comune. Se si lavora pensando sempre all’innovazione, al miglioramento di ciò che si sta facendo, verrà automatico, cercare di trovare il tempo per fare ricerca, per comunicarla.




Cosa suggerisce a un* giovane collega per riuscire a trovare il tempo per scrivere? Come autrice, quali consigli darebbe a una collega più giovane?

Ogni pensiero è prezioso, ogni osservazione è importante. Mettere da parte, scrivendoli, dei materiali che magari sono ancora grezzi, ma contengono temi che possono essere sviluppati. La scrittura consente di sedimentare ed elaborare contenuti emotivi e scientifici.

Se una collega le chiedesse quale rivista seguire per mantenersi informata sui disturbi del comportamento alimentare, quale le suggerirebbe?

Direi Eating and Weight Disorders. Studi su Anoressia Bulimia e Obesità. Una rivista italiana molto aggiornata.

A suo giudizio, il sistema della peer review è ancora una garanzia di tutela della qualità dei contenuti scientifici?
Potrebbe essere più efficiente un sistema aperto, che rendesse superflua la revisione critica a monte della pubblicazione garantendo la trasparenza dei commenti ai lavori pubblicati?

La seconda opzione, quella di un sistema aperto, sarebbe sicuramente meglio, ma non so se la comunità scientifica, soprattutto quella italiana, sia pronta per questa modalità, cioè non so se riuscirebbe a utilizzarla con trasparenza.

Tra il sistema tradizionale – il lettore sostiene il costo di un abbonamento per leggere i contenuti – e l’open access – l’autore paga il costo della pubblicazione – quale ritiene più funzionale? In altre parole, un’istituzione sanitaria (Regione, Asl, Ospedale) è preferibile paghi per leggere o paghi per far scrivere i propri dipendenti?

Decisamente mi pare che l’open access sia la soluzione migliore, anche più stimolante per i professionisti, soprattutto quelli del Servizio pubblico.

Usa lo smartphone per leggere contenuti scientifici? È abbonata a servizi di e-alert di riviste scientifiche? Usa Twitter, Instagram o Facebook per ricevere segnalazioni di nuovi contenuti scientifici?

Assolutamente sì, sono abbonata a servizi di alert per il mio settore. Uso anche le piattaforme Instagram e Twitter per ricevere contenuti aggiornati.

I social media possono essere uno strumento di comunicazione con chi ha bisogno di supporto psicoterapico o psicologico?

I social media sono sicuramente un canale di comunicazione molto potente, nel bene e nel male. Nel mio campo (disturbi della nutrizione e dell’alimentazione) costituiscono un fattore di rischio, per la diffusione di modelli pericolosi sull’immagine corporea e sulla alimentazione. Ma si stanno diffondendo sempre di più le cosiddette pagine di Recovery. Cioè pagine attraverso le quali chi è ammalato di disturbi alimentari ed è guarito cerca di motivare altre persone, che sono ancora dentro il disturbo a intraprendere un percorso di terapia.

A proposito di letture: ha un libro – o più libri – sul comodino? (o sul tavolo o in giro per casa…)
Nel caso… quale?

In questo momento sto leggendo Marina Cvetaeva, Aforismi, nell’edizione di Nino Aragno, e Javier Marías, Un cuore così bianco.

Qual è l’ultimo libro che ha regalato?

Ho regalato “Come d’aria” di Ada Adamo, perché è un racconto di straordinaria verità.

C’è un libro che secondo lei una persona che volesse farsi un’idea vicina alla realtà dei disturbi del comportamento alimentare dovrebbe leggere?

Tutti i libri che ho pubblicato con al Pensiero Scientifico, dal 2005 a oggi, raccontano l’evoluzione dei disturbi alimentari La casa delle bambine che non mangiano, Giganti di argilla, che racconta i disturbi alimentari infantili e l’ultimo Social Fame che racconta l’influenza che i social media hanno nella diffusione di questi disturbi.

Molti pensano che i film – o alcuni film – possano essere utili alla formazione e alla crescita professionale di un* professionista della cura: qual è il suo parere?
Nel caso, c’è quale autore o autrice – o qualche opera – che secondo lei dovrebbe far parte del bagaglio culturale di una persona che lavora nel suo campo?

I disturbi alimentari sono profondamente ancorati allo spirito del tempo, e quindi a modelli culturali occidentali, sul corpo soprattutto. Un film che consiglierei è Prendimi l’anima, il film di Roberto Faenza su Sabina Spielrein, la ragazza affetta da isteria che viene curata con successo da Carl Gustav Jung, un film che anticipa tempi cruciali come quello sull’ossessione dell’immagine corporea.

Un altro film è Un angelo alla mia tavola, di Jane Campion, un racconto sulla sofferenza e sulla forza taumaturgica dell’immaginazione. Lo consiglio a tutti i ragazzi.

Nell’aggiornamento, che ruolo possono avere i congressi? Quali congressi o eventi – a suo parere – sarebbero da privilegiare?

Il Congresso annuale della Società Italiana Riabilitazione dei Disturbi Alimentari e del Peso (Siridap) è una importante occasione per essere aggiornati su tutto ciò che sta succedendo nel campo dei Dca, particolarmente nel Servizio pubblico. Anche tutte le iniziative organizzate da Consulta Noi, che raccoglie 20 associazioni di familiari e organizza eventi in tutta Italia, per sensibilizzare dal punto di vista delle famiglie.

Passioni e tempo libero

Quale città italiana ama di più? E – nel mondo – una città che più la affascina? C’è una città – anche non italiana, ovviamente – in cui le sarebbe piaciuto vivere?

In assoluto la mia città preferita è Parigi, ogni volta che ci torno ci sono cose nuove da vedere. Ma sempre la mia piazza preferita è Place de Vosges nel quartiere Le Marais, se vado a Parigi non posso non andare.

In cucina, preferisce stare ai fornelli o al tavolo? Ha un piatto preferito?

In cucina, anche perché il tavolo da pranzo è in una grande cucina, e mentre tutti cucinano si parla dei massimi sistemi. Cucinare insieme è alla fine un atto d’amore.