Dalla letteratura

Verso una definizione standard di PIRA nella sclerosi multipla

La progressione nella sclerosi multipla, in particolare nelle sue forme recidivanti-remittenti, è riconosciuta come un processo non unicamente attribuibile alle ricadute cliniche. Numerose evidenze convergono sull’importanza della progressione indipendente dall’attività di ricaduta (progression independent of relapse activity - PIRA) quale determinante principale dell’accumulo di disabilità a lungo termine, ma la variabilità nella definizione operativa di PIRA in diversi studi clinici e osservazionali ha finora limitato la comparabilità dei risultati1.

In questo contesto si inserisce lo studio coordinato da Jannis Müller della University of Basel, recentemente pubblicato su JAMA Neurology, con l’obiettivo di identificare una definizione standardizzata di PIRA nella sclerosi multipla2. Utilizzando il database MSBase – che comprendeva 87.239 pazienti, di cui più di 33.000 hanno soddisfatto i criteri di inclusione (72,5% di sesso femminile; età media alla prima visita 36,4 anni; Expanded Disability Status Scale - EDSS medio 2) – gli autori hanno confrontato 360 possibili definizioni, generate combinando diverse modalità di valutazione del peggioramento.

I ricercatori hanno utilizzato dati raccolti tra il 2004 e il 2023 in pazienti con sclerosi multipla, e ogni definizione di PIRA è stata valutata in termini di incidenza (eventi per decade per paziente) e persistenza (assenza di miglioramento dell’EDSS nei 5 anni successivi). I risultati hanno messo in luce una profonda eterogeneità tra le definizioni, oltre a mostrare che sia l’identificazione sia la persistenza di PIRA dipendono fortemente dalla definizione specifica utilizzata: l’incidenza infatti oscillava tra 0,141 e 0,658 eventi per decade, mentre la persistenza variava da 0,753 a 0,919.

I criteri più determinanti nel definire gli eventi PIRA sono risultati essere due – il metodo di aggiornamento del punteggio EDSS di riferimento (re-baselining) e la durata del periodo di conferma del peggioramento – e nel complesso, l’analisi di Müller et al.2 ha indicato come definizione più efficace per identificare la PIRA: un peggioramento significativo della disabilità rispetto al valore di riferimento – ricalibrato dopo ogni evento, ricaduta o miglioramento dell’EDSS – in assenza di ricadute dall’ultima valutazione EDSS. Tale peggioramento deve essere confermato da punteggi EDSS non preceduti da ricadute nei 30 giorni precedenti e mantenersi al di sopra della soglia di significatività clinica per almeno 12 mesi.

Tra i principali limiti dello studio, però, gli autori hanno indicato l’utilizzo esclusivo di EDSS come metrica di disabilità, che pur essendo lo strumento standard nella sclerosi multipla, presenta una sensibilità ridotta per sintomi non motori come la fatica e i disturbi cognitivi. Inoltre, la definizione di PIRA proposta rappresenta un compromesso per massimizzare sia l’incidenza sia la persistenza del fenomeno, e varianti alternative potrebbero risultare più appropriate in contesti in cui si voglia privilegiare uno di questi due aspetti. Inoltre, è importante sottolineare che l’analisi non ha considerato l’attività subclinica della malattia, misurata tramite risonanza magnetica (Mri) o biomarcatori. L’inclusione dell’assenza di attività rilevabile alla risonanza magnetica – come previsto nella definizione estesa di Pirma (progression independent of relapse and Mri activity) – potrebbe affinare ulteriormente la definizione3.




Bibliografia

1. Kappos L, Wolinsky JS, Giovannoni G, et al. Contribution of relapse-independent progression vs relapse-associated worsening to overall confirmed disability accumulation in typical relapsing multiple sclerosis in a pooled analysis of 2 randomized clinical trials. JAMA Neurol 2020; 77: 1132-40.

2. Müller J, Sharmin S, Lorscheider J, et al. Standardized definition of Progression Independent of Relapse Activity (PIRA) in relapsing-remitting multiple sclerosis. JAMA Neurol 2025; e250495.

3. Kapica-Topczewska K, Collin F, Tarasiuk J, et al. Assessment of disability progression independent of relapse and brain MRI activity in patients with multiple sclerosis in Poland. J Clin Med 2021; 10: 868.

Andrea Calignano

In collaborazione con NeuroInfo

Apatia dei pazienti oncologici, un sintomo neurologico indotto dalla cachessia

Oncologi e caregiver conoscono molto bene i cambiamenti fisici ed emotivi che i pazienti oncologici spesso subiscono durante gli ultimi mesi di vita. Sembrano svuotati di forza e di spirito. Anche chi ha mantenuto una visione positiva per tutta la vita può entrare in uno stato di disperazione. Una ricerca pubblicata su Science1 suggerisce che l’apatia e la mancanza di motivazione non siano conseguenze a livello psicologico della condizione di malati oncologici, ma sintomi neurologici di una condizione precisa, la cachessia. La cachessia colpisce circa l’80% dei pazienti affetti da tumori in fase avanzata, portando a un grave deperimento muscolare e a una perdita di peso nonostante un’alimentazione adeguata.

La perdita di energia psicologica e motivazione non solo aggrava la sofferenza dei pazienti, ma li isola dalla famiglia e dagli amici. Poiché i pazienti faticano a impegnarsi in terapie pesanti che richiedono sforzo e perseveranza, ciò mette a dura prova anche le famiglie e complica il trattamento. I medici di solito partono dal presupposto che quando i pazienti affetti da cancro in fase avanzata “si ritirano dalla vita” si tratti di un’inevitabile risposta psicologica al deterioramento fisico. Ma se l’apatia non fosse solo un sottoprodotto del declino fisico, ma una parte integrante della malattia stessa?

Spiega Adam Kepecs del Department of Neuroscience della Washington University School of Medicine di St. Louis: «Abbiamo scoperto un circuito cerebrale completo che percepisce l’infiammazione nel flusso sanguigno e invia segnali che riducono la motivazione. Questo rivela che l’apatia non è solo una reazione emotiva o psicologica alla cachessia, ma è insita nella biologia della malattia». E Tobias Janowitz, professore associato del Cold Spring Harbor Laboratory (CSHL) aggiunge: «Moltissimi pazienti oncologici lamentano sintomi di questa categoria. Dicono: “Non so cosa mi stia succedendo. I miei parenti hanno cucinato il mio piatto preferito, ma non ho voglia di mangiarlo”. I nipoti vengono a giocare con loro. Di solito sono entusiasti e si divertono, ora sembra che non si impegnino più di tanto». La cachessia, inoltre, limita fortemente la capacità dei pazienti di tollerare i comuni trattamenti antitumorali.




Il circuito neuro-immunitario identificato dal team internazionale di ricercatori coordinato da Janowitz e Kepecs coinvolge tre regioni cerebrali chiave: l’area postrema (ArP), che scatena nausea e vomito; il nucleo parabrachiale (PBN), che svolge un ruolo nella regolazione dell’appetito; e la substantia nigra pars reticulata (SNpr), che può abbassare i livelli naturali di dopamina. Qui, i neuroni del PBN ricevono input dall’ArP e inviano proiezioni alla SNpr. Con il progredire della cachessia, alcuni neuroni rilasciano sempre meno dopamina. La ricerca di proteine del sistema immunitario con livelli anormali nel sistema nervoso e nel sangue di animali da laboratorio con cachessia ha portato il team a individuare l’IL-6, che viene rilasciata durante l’infiammazione ed è stata a lungo associata alla cachessia. Diminuendo i segnali dell’IL-6 nelle aree cerebrali collegate, i topi sono diventati più motivati. In particolare, i topi sono diventati meno sensibili alla quantità di sforzi richiesti per trovare il cibo. Gli scienziati hanno riscontrato lo stesso risultato quando hanno aumentato i livelli di dopamina nelle aree cerebrali destre.

La scoperta suggerisce inoltre che i trattamenti anticorpali esistenti potrebbero essere riproposti per migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici. «Il nostro obiettivo è far sentire meglio i pazienti e trattare meglio il cancro», spiega Janowitz. «Un paziente in uno stato più fit sarà in grado di tollerare meglio i trattamenti antitumorali e di trarne beneficio». La speranza è che un giorno, grazie alla continua collaborazione interdisciplinare, possano contribuire a trasformare la cachessia in una condizione che i pazienti possano superare. Sarebbe uno sviluppo di grande importanza non solo per i pazienti oncologici, ma anche per i caregiver.




Bibliografia

1. Zhu XA, Starosta S, Ferrer M, et al. A neuroimmune circuit mediates cancer cachexia-associated apathy. Science 2025; 388: eadm8857.

David Frati

In collaborazione con OncoInfo

Come incidono le abitudini del sonno delle donne anziane sul rischio di demenza?

L’aumento della sonnolenza nelle donne ottantenni sarebbe associato a un raddoppio del rischio di demenza, rispetto alle loro coetanee che hanno ritmi di sonno stabili. In uno studio pubblicato di recente su Neurology, Sasha Milton della University of California et al. hanno analizzato il legame tra alterazioni del sonno e rischio di demenza in una coorte composta da 733 donne (età media 82,5 anni), cognitivamente inalterate al baseline1.

L’editoriale di accompagnamento di Marino Muxfeldt Bianchin e Eduardo Rigon Zimmer, Hospital de Clínicas de Porto Alegre (Porto Alegre, Brasile), inizia citando il romanzo Cent’anni di solitudine, nel quale l’autore Gabriel Garcia Márquez racconta la “peste dell’insonnia” che priva della memoria gli abitanti di Macondo. Ma l’insonnia può davvero causare la demenza2?

Utilizzando i dati dello Study of Osteoporotic Fractures, i ricercatori hanno monitorato l’associazione tra schemi di sonno e il rischio di demenza. Con l’ausilio dell’actigrafia, Milton et al. hanno monitorato i ritmi sonno-veglia per cinque anni, identificando tre distinti pattern: sonno stabile (321 partecipanti, il 43,8%), sonno notturno in calo (256, il 34,9%) e aumento della sonnolenza (156, il 21,3%).

L’outcome primario era lo stato cognitivo, valutato al follow-up mediante test neuropsicologici tra cui il Modified Mini-Mental State Examination, il California Verbal Learning Test (seconda edizione) e il Trail Making Test Part B. Dopo aver aggiustato per covariate come età, comorbilità e stato dell’allele APOE-ε4, alle donne con un aumento della sonnolenza nelle 24 ore è stato associato un rischio di demenza più che doppio rispetto alle donne con sonno stabile (odds ratio [OR], 2,21; 95% CI, 1,14-4,26).

L’associazione con la demenza era attenuata nelle donne con sonno notturno in calo e non sono state trovate associazioni significative tra il rischio di demenza e il tempo totale di sonno e i parametri del ritmo circadiano di riposo-attività. Allo stesso modo, non sono state trovate associazioni tra il rischio di deterioramento cognitivo lieve (MCI) e i profili di variazione sonno-veglia o qualsiasi parametro individuale.




Secondo gli autori dell’editoriale, lo studio si distingue per l’uso di metodi oggettivi, un disegno longitudinale solido e il controllo delle comorbilità. Tuttavia, l’assenza di biomarcatori ed esami di imaging potrebbe aver limitato l’attribuzione eziopatogenetica della demenza. Inoltre, è stato sottolineato come le valutazioni siano state condotte solo all’inizio e alla fine dello studio, oltre alla bassa rappresentatività del campione (solo donne, in maggioranza di un’unica etnia).

Come riportato nel comunicato stampa che ha presentato lo studio3, non è noto se il peggioramento del sonno aumenti il rischio di demenza o se la demenza porti a un peggioramento del sonno: alcuni scienziati ritengono che entrambe le teorie possano essere corrette. Tuttavia, Bianchin e Zimmer concludono l’editoriale sottolineando come sia ormai tempo di riconoscere l’impatto dei disturbi del sonno sulla demenza, poiché il sonno non è solo un periodo di riposo ma la base del benessere cognitivo.




Bibliografia

1. Milton S, Cavaillès C, Ancoli-Israel S et al. Five-year changes in 24-hour sleep-wake activity and dementia risk in oldest old women. Neurology 2025; 104: e213403.

2. Bianchin MM, Zimmer ER. Wake-Up Call. The association between sleep disturbances and dementia. Neurology 2025; 104: e213516.

3. Press release. Is increased sleepiness in our 80s tied to higher dementia risk? Disponibile su: https://lc.cx/QrwMHw [ultimo accesso 28 aprile 2025].

Andrea Calignano

In collaborazione con NeuroInfo

Lecanemab, esperti preoccupati dalla decisione dell’Ema

«Siamo preoccupati per l’approvazione di questo farmaco con un beneficio netto incerto che potrebbe alimentare false speranze e aspettative tra le persone con malattia di Alzheimer e i loro carers e che potrebbe ulteriormente sovraccaricare i sistemi sanitari europei già sotto pressione. Da una prospettiva più ampia, approvare farmaci con incerti benefici può contribuire ad una perdita netta di salute della popolazione».

Si chiude con queste parole una lettera, pubblicata qualche giorno fa sul BMJ, con cui un gruppo di esperti del Scientific Advisory Group (Sag) Neurology dell’European Medicines Agency (Ema) ha criticato la recente decisione dell’ente regolatorio europeo di raccomandare l’autorizzazione all’immissione in commercio di lecanemab per il trattamento dei pazienti con decadimento cognitivo lieve e demenza precoce dovuta a malattia di Alzheimer1.




Questa decisione rappresenta infatti un dietrofront. Nel luglio 2024 l’Ema aveva respinto una richiesta di autorizzazione all’immissione in commercio per il farmaco perché il suo modesto effetto nel ritardare il declino cognitivo non era tale da controbilanciare il rischio di eventi avversi. L’agenzia ha poi ribaltato questa decisione dopo un ricorso del produttore, decidendo infine di raccomandare tale autorizzazione con un’indicazione ristretta per gli adulti con malattia di Alzheimer con nessuna o solo una copia del gene APOE4, sulla base dei risultati di un’analisi di sottogruppo del trial registrativo Clarity-AD che aveva evidenziato un tasso di eventi avversi minore escludendo i soggetti con due copie di questo gene (circa il 2-5% dei pazienti).

Circa dieci giorni fa, infine, la Commissione Europea ha formalmente concesso l’autorizzazione per l’immissione in commercio, accogliendo il parere dell’Ema. Un parere, questo, che secondo gli autori della lettera inviata al BMJ – tra cui compaiono gli italiani Francesco Nonino (neurologo ed epidemiologo dell’Irccs Istituto di Scienze Neurologiche di Bologna e direttore di Cochrane Italia), Carlo Colosimo (neurologo dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria, Terni) e Luca Massacesi (neurologo dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi, Firenze) – solleva «serie preoccupazioni».




In primo luogo, alla luce della scarsa efficacia dimostrata dal trattamento. La differenza riportata tra intervento e placebo in merito all’endpoint primario – la scala CDR-SB (Clinical Dementia Rating Scale-Sum of Boxes) – è infatti risultata molto ridotta (0,45 punti), ben al di sotto della soglia minima che rappresenta un effetto clinicamente importante, pari circa a 1 punto. In altre parole, scrivono gli autori, «lo studio Clarity-AD dimostra una significatività statistica piuttosto che una rilevanza clinica».

Un terzo motivo di preoccupazione è poi legato all’occorrenza di eventi avversi come edemi cerebrali (ARIA-E) e microsanguinamenti (ARIA-H), la cui gestione potrebbe essere complessa in alcuni contesti clinici. «Pensiamo ad esempio al caso di un paziente in trattamento con questo farmaco – aggiunge Nonino – che ha sviluppato un ARIA-H. Se questo paziente viene colpito da un ictus, eventualità non così rara data la fascia di età, anche considerando che l’allele APOE4 è associato a un maggior rischio di ictus, potrebbe arrivare in ospedale privo di coscienza o in condizioni tali da non riuscire a comunicare di essere in trattamento con lecanemab. A quel punto i medici potrebbero sottoporlo a trombolisi, aumentando i rischi per il paziente».

Infine, gli esperti del SAG-Neurology hanno criticato la scelta di ribaltare la decisione iniziale basandosi solo sui risultati di un’analisi di sottogruppo di un singolo studio. «In uno studio randomizzato controllato, è necessario determinare a priori il numero di pazienti che occorre reclutare per dimostrare la differenza che ci si attende tra un farmaco e un confronto (in questo caso il placebo). Gli effetti del farmaco vanno valutati in relazione a questo campione predefinito di partecipanti, e non ad una sottopopolazione identificata a posteriori. Non è corretto basare le conclusioni dello studio su un’analisi che considera solamente un sottogruppo di partecipanti, questo caso ottenuto escludendo i soggetti a maggior rischio di eventi avversi (gli omozigoti per l’allele APOE4) che presentano un profilo beneficio-rischio particolarmente sfavorevole».




Bibliografia

1. Bakchine K, Colosimo C, Emilsson E, et al. Concerns about the approval of lecanemab for Alzheimer’s disease. BMJ 2025; 389: r778.

Fabio Ambrosino

In collaborazione con NeuroInfo

Linfoma non Hodgkin, un nuovo modello per predire l’efficacia delle CAR-T

Le terapie cellulari costituiscono un’importante opzione terapeutica anche nel trattamento dei linfomi non Hodgkin. Tuttavia, in questo setting, più della metà dei pazienti va incontro a recidiva o a progressione di malattia entro sei mesi dall’infusione con CAR-T.

Un nuovo strumento, presentato su Nature e denominato InflaMix (Inflammation Mixture Model), promette di essere d’aiuto nell’ottimizzare il ricorso a queste terapie. Il modello quantitativo è stato sviluppato per valutare l’entità dello stato infiammatorio sistemico, potenziale concausa nel fallimento della terapia con CAR-T, testando una varietà di biomarcatori ematici in 149 pazienti con NHL.
Grazie a una “learning machine”, un tipo di intelligenza artificiale che utilizza algoritmi per apprendere da serie di informazioni e trarre conclusioni dai modelli rinvenuti in quei dati, è stato individuato, attraverso l’analisi di 14 differenti esami di laboratorio, un biomarcatore di stato infiammatorio.

Analizzando la signature identificata da InflaMix, i ricercatori hanno osservato come questa risultasse associata a un alto rischio di fallimento del trattamento con terapia cellulare e a un incremento del rischio di morte e di recidiva di malattia.

«Questi studi dimostrano che, utilizzando una learning machine e specifici esami del sangue, si è in grado di sviluppare uno strumento altamente affidabile che può aiutare a prevedere chi risponderà bene alla terapia con cellule CAR», ha dichiarato Marcel van den Brink, del Beckman Research Institute of City of Hope di Duarte. «Con un rigoroso approccio statistico, abbiamo dimostrato che si tratta di un test accurato, in grado di predire gli outcome dei trattamenti con CAR-T nei pazienti affetti da NHL, e che potrebbe essere utilizzato dagli specialisti di tutto il mondo per adottare un approccio ad hoc per il singolo paziente».




Secondo gli autori, si tratta di un modello molto flessibile che è risultato valido anche quando sono stati utilizzati solo sei esami ematochimici, tra quelli effettuati di routine nei pazienti con linfoma. Si tratta di un dato importante perché significa che questo test potrebbe essere effettuato nella maggior parte, se non in tutti, i pazienti affetti da linfoma.

«Studi precedenti avevano suggerito che l’infiammazione potrebbe essere un fattore di rischio correlato alla scarsa efficacia delle terapie con CAR», spiega Sandeep Raj, specializzato in trapianti di midollo osseo presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e primo autore dello studio. «Il nostro obiettivo era quello di approfondire questa tematica e costruire uno strumento valido e affidabile per misurare lo stato infiammatorio nel circolo ematico e predire, così, l’efficacia o meno delle CAR-T».

Per convalidare i risultati iniziali del team sono stati utilizzati anche studi su tre coorti indipendenti comprendenti 688 pazienti con NHL che presentavano un’ampia gamma di caratteristiche cliniche e sottotipi di malattia e che utilizzavano diversi prodotti cellulari.

Nel prossimo futuro, i ricercatori intendono studiare se l’infiammazione del sangue definita da InflaMix influenzi direttamente la funzione delle cellule CAR-T e approfondire la fonte di questa infiammazione.




Bibliografia

1. Raj SS, Fei T, Fried S, et al. An inflammatory biomarker signature of response to CAR-T cell therapy in non-Hodgkin lymphoma. Nat Med 2025; 31: 1183-94.

Stefania Mengoni

In collaborazione con EmatoInfo

Asco 2025: stadiazione ascellare, un panorama in rapida evoluzione

Durante il meeting 2025 dell’American Society of Clinical Oncology (Asco) di Chicago si svolgerà una session di formazione sul tumore della mammella che affronterà il panorama in evoluzione del trattamento per la malattia in fase iniziale, discutendo in particolare se e quando la terapia può essere tranquillamente omessa in questa popolazione di pazienti. I relatori discuteranno del ruolo della radioterapia nel carcinoma mammario in fase iniziale, della stadiazione ascellare e dei biomarcatori per la de-escalation della terapia.

Il trattamento del tumore della mammella si sta evolvendo verso la de-escalation multimodale, con sforzi crescenti per personalizzare la terapia sistemica, la radioterapia e la chirurgia in base al rischio individuale della paziente. «Quello che stiamo riconoscendo è che il carcinoma mammario in fase iniziale è spesso così indolente che a volte in alcune pazienti anziane possiamo evitare tutte le terapie – chirurgia, radioterapia e, potenzialmente, chemioterapia e terapia anti-estrogenica – per alcuni sottotipi ed evitare molte delle tossicità associate a questi trattamenti», spiega la relatrice della session, Elizabeth Berger dello Smilow Cancer Hospital e di Yale Medicine. «Le evidenze su questi temi sono sempre di più. Negli ultimi 5-10 anni abbiamo acquisito una migliore comprensione della biologia di questi tumori, il che aiuta la nostra capacità di personalizzare i piani di trattamento per le donne».

Berger durante la session educazionale approfondirà il tema dell’evoluzione della stadiazione ascellare. «Il vecchio principio della chirurgia ascellare era quello di eliminare la malattia dall’ascella, perché pensavamo che questo migliorasse i risultati per i pazienti. Oggi sappiamo che la chirurgia ascellare non migliora significativamente gli esiti oncologici dei pazienti; può ridurre leggermente i tassi di recidiva ascellare, ma la maggior parte della chirurgia ascellare è finalizzata alla stadiazione per aiutare a guidare le decisioni sulla terapia adiuvante. Inoltre, siamo oggi molto più consapevoli della significativa morbilità associata alla chirurgia ascellare».

Durante la sua presentazione, Elizabeth Berger discuterà i dati che hanno contribuito a stabilire gran parte delle attuali idee relative alla chirurgia ascellare. Per esempio, lo studio di fase 3 SOUND1 ha esaminato l’omissione della chirurgia ascellare e la sua non inferiorità rispetto alla biopsia del linfonodo sentinella nelle pazienti con carcinoma mammario di piccole dimensioni che avevano un’ecografia ascellare preoperatoria negativa. Invece lo studio Alliance A011202, attualmente in corso, sta confrontando la dissezione dei linfonodi ascellari vs la radioterapia ascellare per le donne che hanno una malattia ascellare residua dopo la chemioterapia neoadiuvante. «Questo studio si propone di verificare se le donne con un basso carico di malattia dopo la chemioterapia possano potenzialmente evitare la dissezione linfonodale ascellare», spiega Berger. «Speriamo in risultati positivi che permettano a un maggior numero di pazienti di evitare questa procedura».

Bibliografia

1. Gentilini OD, Botteri E, Sangalli C, et al.; SOUND Trial Group. Sentinel lymph node biopsy vs no axillary surgery in patients with small breast cancer and negative results on ultrasonography of axillary lymph nodes: the SOUND Randomized Clinical Trial. JAMA Oncol 2023; 9: 1557-64.

2. Comparison of axillary lymph node dissection with axillary radiation for patients with node-positive breast cancer treated with chemotherapy. ClinicalTrials.gov. Disponibile su: https://lc.cx/94KROF [ultimo accesso 29 aprile 2025].

David Frati

In collaborazione con OncoInfo