L’ipertensione portale nella cirrosi biliare primitiva

La cirrosi biliare primitiva (CBP) è un’epatopatia colestatica cronica che lentamente evolve verso la cirrosi; nel corso di questa evoluzione la deposizione di collageno nello spazio di Disse e la formazione di una nuova membrana basale sotto le cellule endoteliali dei sinusoidi determinano un aumento della resistenza al flusso epatico e conseguentemente della pressione venosa portale. L’ipertensione portale, definita come gradiente di pressione (PHG: “portal-hepatic gradient”) superiore a 6 mmHg tra vena porta e una vena epatica, induce la formazione di varici esofagee e gastriche che, se di grande volume, possono sanguinare. In clinica la presenza di ipertensione portale può essere determinata soltanto misurando il PHG.
La frequenza dell’ipertensione portale e il suo impatto nell’evoluzione della CBP hanno fatto oggetto di pochi studi, per lo più condotti senza la misura del PHG.



Recentemente è stato condotto uno studio clinico per valutare la prevalenza dell’ipertensione portale nella CBP e la sua influenza sulla prognosi della malattia, esaminando 132 pazienti con CBP, alcuni dei quali trattati con acido ursodesossicolico (UDCA), che, come noto, è l’unico farmaco approvato per questa malattia; in questi soggetti il PHG è stato misurato ogni due anni e gli effetti a lungo termine dell’UDCA sulla progressione dell’ipertensione portale sono stati confrontati con gli effetti sui marcatori biologici al fine di distinguere i soggetti rispondenti da quelli non rispondenti al trattamento. ( Huet PM, Vincent C, Deslaurier J, et al. Portal hypertension and primary biliary cirrhosis: effect of long-term ursodeoxycholic acid-treatment. Gastroenterology 2008; 153: 1552).
È stata osservata presenza di ipertensione portale (PHG >6 mmHg) in circa il 35% dei 132 pazienti esaminati; un’ipertensione portale grave (PHG >12 mmHg) è stata rilevata nel 20% circa dei casi.
Gli autori rimarcano che nella loro casistica la gravità dell’ipertensione portale non è stata valutata ricorrendo a parametri non invasivi. Infatti, anche se sono state osservate correlazioni tra valori di PHG e parecchi parametri biologici e patologici, l’elaborazione statistica dei dati ottenuti ha dimostrato una debole correlazione clinicamente non utile. È stato inoltre rilevato che i valori di PHG, all’inizio dello studio, sono risultati significativamente correlati con la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti, sebbene, da questo punto di vista, sia stato notato che il punteggio secondo la Mayo Clinic sia apparso più utile del PHG.
Gli autori riferiscono che l’analisi dei dati da loro ottenuti ha dimostrato che le modificazioni del PHG osservate nei primi due anni di trattamento con UDCA possono essere utili per identificare pazienti rispondenti oppure non rispondenti alla terapia, con differente sopravvivenza; infatti i pazienti nei quali il PHG è rimasto stabile o è diminuito hanno presentato una più lunga sopravvivenza. Per quanto riguarda i parametri biochimici, è stato osservato che le modificazioni più caratteristiche durante terapia con UDCA hanno interessato l’aspartato-aminotransferasi (AST) la cui normalizzazione dopo 2 anni è stato l’unico parametro significativamente correlato alla più lunga sopravvivenza. Gli autori sottolineano, in proposito, che non hanno osservato variazioni di altri parametri, in particolare della fosfatasi alcalina (AP) come riferito da altri autori ( Parés A, Caballeria L, Rodes J. Excellent long term survival in patients with primary biliary cirrhosis and biochemical response to ursodeoxycholic acid. Gastroenterlogy 2006; 130: 715). In questo studio le modificazioni sia del PHG che dell’AST a 2 anni sono state considerate come indice di previsione di sopravvivenza e utilizzate per classificare i pazienti in rispondenti e non rispondenti al trattamento con UDCA. Pur tuttavia gli autori ritengono di dover esprimersi con estrema cautela sull’uso di PHG e ASL nel giudizio prognostico nei pazienti con cirrosi biliare primitiva, a motivo del modesto numero di soggetti studiati.
Gli autori sottolineano che nella loro casistica i soggetti che hanno risposto alla terapia avevano, all’inizio di questa, una funzionalità epatica meno compromessa di quella dei soggetti che non hanno risposto. Ciò confermerebbe l’osservazione di altri autori, secondo la quale l’UDCA è più efficace nei primi stadi della malattia e pertanto deve essere iniziato precocemente (Ter Borg PCJ, Schalm S, Hansen BE, et al. The Dutch PBC Study Group. Prognosis of the ursodeoxycholic acid-treated patients with primary biliary cirrhosis. Results of a 10-yr cohort study involving 297 patients. Am J Gastroenterol 2006; 101: 2044).
Gli autori concludono rilevando che l’ipertensione portale è una non rara complicanza della cirrosi biliare primitiva e che, al momento attuale, non si può affermare di possedere un utile marcatore clinico della gravità della malattia. La terapia con UDCA, oltre ai noti effetti sui parametri biologici, si associa a stabilizzazione o miglioramento dell’ipertensione portale, ma questo effetto lo si può riscontrare sia nei soggetti che rispondono all’UDCA, sia in quelli che non vi rispondono; secondo gli autori questa osservazione può spiegare i contrastanti dati riferiti in precedenti ricerche di altri autori. Un ultimo rilievo concerne il risultato della misura del PHG eseguita al 2° anno di trattamento, che è la più importante ai fini del giudizio prognostico e che pertanto non rende necessarie ripetizioni dell’esame nel corso della malattia, in quanto le più gravi alterazioni del PHG si osservano al suo inizio, rimanendo stabili per anni.
Nel commentare questi risultati, Mayo (Mayo MJ. Portal hypertension in primary biliary cirrhosis: a potential reversible harbinger of demise. Gastroenterology 2008; 135: 1450) rileva che la riduzione del PHG osservata solamente nei pazienti con CBP trattati con UDCA fornisce per la prima volta l’indicazione che l’ipertensione portale può essere almeno parzialmente reversibile in questi pazienti.
Campionato di rugby e morte di un pontefice
Un’indagine statistica, che non può non definirsi per lo meno curiosa o strana, è stata recentemente condotta da Payne et al per accertare se è possibile sostenere una associazione tra morte di un papa e vittoria della squadra del Galles in un campionato di rugby svoltosi negli ultimi anni in Gran Bretagna (Payne GC, Payne RE, Farewell DM, et al. Rugby (the religion of Wales) and its influence on the Catholic Church. Should pope Benedict XVI be worried? BMJ 2008; 337: 2768).



Da questa ricerca risulta che negli anni recenti (dal 1939 al 1978) la scomparsa di un pontefice si è verificata nell’anno di vittoria del campionato di rugby da parte della squadra del Galles; l’elaborazione statistica dei dati raccolti avrebbe dimostrato un associazione definita dagli autori “borderline”, ma significativa, mentre non avrebbe dimostrato associazione significativa tra morte di un papa e vittoria di un’altra squadra.

Gli autori confessano di non poter stabilire una correlazione tra i due eventi e ritengono che ciò sia anche in rapporto al “continuo riavvicinamento tra Chiesa Cattolica e Chiesa Protestante” (sic!). Ma comunque, nel concludere il loro lavoro, ritengono di non credere che i medici del Vaticano debbano stare tranquilli fin tanto che non arrivi la conclusione del campionato di rugby 2008-2009.
Malattia celiaca refrattaria
È noto che alcuni pazienti con malattia celiaca (MD) possono presentare una resistenza primaria o secondaria al trattamento con dieta priva di glutine (DPG) con persistente sintomatologia da malassorbimento e con atrofia dei villi intestinali. La diagnosi di MC refrattaria (MCR) comporta l’esclusione di altre condizioni patologiche dell’intestino tenue, come enteropatia autoimmune, sprue tropicale e immunodeficienza variabile comune (Green PH, Cellier C. Celiac disease. N Engl J Med 2007; 357: 1731). Studi epidemiologici e clinici hanno indicato che in un gruppo di questi pazienti è presente nell’intestino un normale fenotipo di linfociti intraepiteliali (LIE), mentre in un secondo gruppo di pazienti è presente un fenotipo anomalo di questi linfociti. Sono state pertanto individuate due forme di MCR, una MCR di tipo I (MCR-I) con normale fenotipo di LIE e una MCR di tipo II (MCR-II con abnorme fenotipo di LIE (Damus S, Cellier C, Mulder CJ. Refractory coeliac disease. Best Pract Res Clin Gastroenterol 2005; 19: 413).
Un confronto tra le caratteristiche biologiche e cliniche di queste due forme di MCR, in particolare per quanto riguarda la gravità del quadro clinico, del decorso a lungo termine e dell’aspetto endoscopico e istologico e inoltre del rischio di linfoma, è stato condotto su 14 pazienti con MCR-I e 43 pazienti con MCR-II (Malamut G, Afchain P, Verkarre V, et al. Presentation and log-term follow-up of refractory celiac disease: comparison of type I with type II. Gastroenterology 2009; 136: 81).
Gli autori hanno dato delle due forme di MCR le seguenti definizioni distintive:
a) MCR-I: normale fenotipo di LIE, cioè <25% di linfociti CD103+ o CD45+ con assenza di CD3 di superficie alla flusso-citometria oppure <50% di linfociti CD3+ CD4 alle sezioni fissate in formolo e, inoltre, assenza di clonalità rivelabile nei campioni bioptici duodenali; b) MCR-II: più del 25% di LIE CD103+ o CD45+ con assenza di CD3 e di recettori per cellule T (TCR) alla flusso-citometria oppure <50% di LIE esprimenti CD3ε, ma non CD8 alle sezioni fissate in formolo e/o presenza di riarrangiamento clonale di TCR nei campioni di biopsia duodenale.
È stato osservato che, alla diagnosi, nei pazienti con MCR-II la malnutrizione è più grave e il riscontro di gastrite linfocitaria e digiunite ulcerativa è più frequente che nei pazienti con MCR-I. Inoltre nei pazienti con MCR-II il decorso clinico è più grave con elevata mortalità dovuta prevalentemente alla comparsa di linfoma clinicamente conclamato.
Nel corso del loro studio gli autori hanno rilevato che la conferma di refrattarietà alla DPG nei pazienti con MCR-I risiede soltanto in una precisa valutazione della dieta, poiché gli aspetti clinici e biologici di questa forma non sono specifici. Inoltre la persistente sierologia positiva, osservata fin nel 30% dei casi, induce gli autori a dubitare di una rigorosa aderenza alla DPG in questi pazienti. Viene a questo proposito sottolineato che la persistenza di anticorpi IgG anti-gliadina in alcuni di questi soggetti non ha valore specifico, mentre la loro scomparsa può indicare l’attuazione rigorosa di una DPG. Gli autori rimarcano inoltre che nei pazienti con MCR-I è possibile che persista un danno tessutale indipendentemente dall’esposizione al glutine; in questi casi è presente una sovraregolazione della transglutaminasi con conseguente produzione di autoanticorpi.
Per quanto concerne la diagnosi di MCR-II gli autori ricordano che questa forma è caratterizzata da ampie e numerose ulcerazioni e stenosi intestinali. La grave digiunite ulcerativa comporta una perdita di proteine che è nettamente più intensa che nei pazienti con MCR-I. Per la diagnosi di MCR-II ha importanza la dimostrazione di LIE esprimenti CD3ε, con scarsi o assenti CD8. Tuttavia gli autori rimarcano che in questa forma di MC i recettori TCR per i LIE, che rappresentano un’importante quota dei LIE normali nei pazienti con MC non complicata, possono esprimere CD3, ma non CD8, creando confusione con LIE anomali. D’altra parte è noto che le indagini istopatologiche hanno dimostrato che in alcune MCR-II possono essere presenti linfociti CD8+.
La diagnosi di MCR-II può essere confermata, secondo gli autori, dalla presenza di un riarrangiamento clonale di TCR con catena gamma evidenziabile alla biopsia intestinale oppure, se assente, dalla presenza di riarrangiamento clonale di TCR con catena delta. In queste evenienze si è rivelata molto utile la flusso-citometria al fine di precisare la percentuale di LIE anomali e di dimostrare la diffusione di anomali LIE CD103+ che mancano di CD3 di superficie.
Gli autori confermano che la MCR-II comporta una prognosi grave con una sopravvivenza di 5 anni in meno del 45% dei casi, a confronto con una sopravvivenza a 5 anni di circa il 95% nei pazienti con MCR-I. Secondo gli autori questa differente sopravvivenza può essere spiegata dalla maggiore frequenza di linfomi clinicamente conclamati nella MCR-II, rimarcando che il primo  fattore predittivo di linfoma è costituito dalla presenza di LIE anomali. In queste evenienze gli autori ritengono molto utili una tomografia computerizzata (TC) dell’intestino tenue oppure una risonanza magnetica nucleare (RMN) o anche un’endoscopia mediante capsula endoscopica, sia al momento della diagnosi di MCR-I, che durante il decorso. Un altro elemento predittivo di sviluppo di linfoma nei pazienti con MCR-I è l’aumentata età al momento della diagnosi di MCR. Nella MCR-II l’influenza del fattore età sull’incidenza di linfoma può essere in rapporto, secondo gli autori, con il prolungato apporto di glutine e con l’effetto della malnutrizione sulla comparsa di linfoma e su eventi trombotici, favoriti da infiammazione e ipoalbuminemia, che promuovono la progressione della neoplasia.
Per quanto riguarda il trattamento della MCR, gli autori osservano che i corticosteroidi migliorano la sintomatologia in molti pazienti di entrambi i tipi di MCR, anche se una positiva risposta istologica è stata vista soltanto nel 30-40% dei casi. Ricordano che i farmaci immunodepressivi comunemente adoperati esplicano uno scarso effetto sul quadro istologico e, come ci si attendeva, nessun effetto sulla popolazione di LIE anomali. Nella loro esperienza gli autori hanno rilevato che cladribina e anti-CD52 possono indurre una risposta istologica, sebbene in alcuni casi così trattati sia stata osservata la comparsa, definita “esplosiva”, di linfoma. È citata una possibile alternativa terapeutica consistente nell’uso di trapianto di cellule staminali emopoietiche, che indurrebbe sia un miglioramento clinico e istologico sia una significativa riduzione di LIE anomali, pur non riducendo il rischio di ricorrenze del linfoma ( Al-toma A, Visser OJ, van Roessel HM, et al. Autologous hematopoietic stem cell transplantation in refractory celiac disease with aberrant T cells. Blood 2007; 109: 2243).




Gli autori ritengono che l’identificazione dei meccanismi patogenetici che sottendono alla comparsa di una MCR-II possa consentire di dimostrare potenziali bersagli di una terapia efficace. A questo riguardo osservano che l’interleuchina-15 (IL-15) può avere un ruolo nella patogenesi della MCR esplicando un effetto di stimolo sull’espansione dei LIE clonali e che pertanto il blocco di IL-15 può ridurre il numero di LIE clonali e prevenire il danno epiteliale (Mention JJ, Ben Ahmed M, Begue B, et al. Interleukin 15: a key to disrupted intraepithelial lymphocyte homeostasis and lymphoma genesis in celiac disease. Gastroenterology 2003; 125: 730).
Tale procedura potrebbe essere perfezionata riducendone gli effetti collaterali mediante l’uso di anticorpo anti-IL-15 umanizzato che già è nelle fasi I e II nel trattamento dell’artrite reumatoide (Baslund B, Twede N, Danneskiold-Samsoe B, et al. Targeting interleuchin-15 in patients with rheumatoid arthritis: a proof-of-concept study. Arthritis Rheum 2005; 52: 2686).
Gli autori terminano il loro excursus sulla MCR ricordando di avere osservato la frequente presenza di trisomia 1q22-24 nella maggioranza di questi pazienti (Verkarre V, Romana SP, Cellier C, et al. Recurrent partial trisomy 1q22-24 in clonal intraepithelial lymphocytes in refractory celical disease. Gastroenterology 2003; 125: 40). Questi studi collimano con l’osservazione dell’associazione della MC con il locus 1q31 che codifica il fattore RGS-1 che regola la proteina G espressa elettivamente dai LIE (Welsby PJ, Kellett E, Wilkinson G, et al. Enhanced detection of receptor constitutive activity in the presence of regulators of G protein signaling: application in the detection and analysis of inverse agonists and low-efficacy partial agonists. Mol Pharmacol 2002; 61: 1211).
Nel concludere, gli autori, pur confermando che i pazienti con MCR-II mostrano un più grave decorso clinico e una più grave prognosi di quelli con MCR-I rimarcano che anche questi ultimi sono a rischio di linfoma clinicamente conclamato.
Sull’incidenza di linfoma nei pazienti con MC è stato recentemente condotto uno studio su 37.869 pazienti con linfoma non Hodgkin (NHL), 8323 con linfoma Hodgkin (HL) e 13842 con leucemia linfatica cronica (LLC) e, inoltre su 236.408 controlli e 613.961 parenti di primo grado di questi pazienti; lo studio è stato svolto in Svezia nel periodo dal 1965 al 2004 soprattutto allo scopo di dimostrare il ruolo della storia famigliare di MC in relazione al rischio di linfoma (Gao Y, Kristinsson SY, Goldin LR, et al. Increased risk of non-Hodgkin lymphoma in individuals with celiac disease and a potential familial association. Gastroenterology 2009; 136: 91).
È stato osservato che i pazienti dimessi dall’ospedale con la diagnosi di MC nel periodo di studio hanno presentato complessivamente un rischio di sviluppo di comparsa di linfoma NHL aumentato di 5,4 volte. Peraltro non è stato osservato aumento di rischio per HL e LLC. È interessante rilevare che questo rischio è diminuito nel periodo di osservazione da 13,2 volte all’inizio dello studio a 3,8 volte al suo termine. Secondo gli autori, ciò può essere dovuto all’influenza esplicata dalla diffusione dei marcatori sierologici di MC che ha consentito una precoce diagnosi, anche dei casi più lievi.
In questo studio è stato osservato un aumento di rischio di linfoma nelle persone che hanno un parente germano affetto da MC. Gli autori ritengono che, sebbene sia stato dimostrato che la MC presenta una significativa componente ereditaria, in parte dovuta ai genotipi DQ2 e DQ8 del sistema HLA, tuttavia è stata dimostrata la compartecipazione di altri geni non HLA e che l’aggregazione della MC in germani depone per una eredità recessiva. Inoltre gli autori ritengono che meccanismi ereditari analoghi possano interessare il sistema HLA o anche altri geni implicati nei processi immunitari e/o infiammatori e, a questo proposito, ritengono che le future ricerche dovranno essere dirette allo studio di marcatori biologici utili per prevedere lo sviluppo di linfomi.

Uno studio sulla stadiazione clinica e sulla prognosi della MCR è stato condotto da un gruppo di lavoro della Mayo Clinic (Rochester, Minnesota, Stati Uniti) (Rubio-Tapia A, Kelly DG, Lahr BD, et al. Clinical staging and survival in refractory celiac disease: a single center experience. Gastroenterology 2009; 136: 99).
Gli autori hanno esaminato 57 pazienti con MCR (42 con MCR-I e 15 con MCR-II) confrontandone le caratteristiche cliniche e il decorso. Per la classificazione della MCR sono stati seguiti i seguenti critetri:

a) criteri maggiori:

1) ricorrenza o persistenza della sintomatologia (diarrea, involontaria perdita di peso e/o dolore addominale) e danno intestinale (almeno parziale atrofia dei villi) dopo esclusione del glutine dalla dieta per almeno 6-12 mesi;
2) esclusione di altre cause di MC refrattaria, ivi compresa involontaria o intenzionale assunzione di glutine;
3) necessità di terapia alternativa a causa di mancata risposta alla DPG;

4) assenza di linfoma conclamato intestinale o sistemico;

5) precedente diagnosi di MC confermata dalla biopsia, con storia clinica di risposta alla DPG; positività delle prove sierologiche per MC, presenza degli antigeni del sistema HLA che sono a rischio di MC (DQ2 o DQ8); inoltre una storia famigliare di MC che può comprovare la diagnosi di MC, specialmente nei pazienti con refrattarietà primaria alla DPG;

6) evidenza delle due forme di MCR, determinata dalla assenza (MCR-I) o dalla presenza (MCR-II) di fenotipo aberrante (monoclonale) di LIE dimostrabile dall’immunoistochimica e/o dalla clonalità delle cellule T;


b) criteri minori:

1) autoanticorpi anti-transglutaminasi tessutale (tTGA) o dell’endomisio (EMA): positività per confermare la diagnosi di MC e negatività per confermare la refrattarietà o la compliance alla DPG;

2) assenza di anticorpi anti-enterociti.

Secondo gli autori, una MCR “definita” richiede la presenza di tutti i 6 criteri maggiori.

In questo studio è stato proposto un sistema di stadiazione della MCR basato sulla sopravvivenza di cinque fattori prognostici evidenziabili al momento della diagnosi:
1) albuminemia  3,2 g/dL,
2) emoglobina  11 g/dL,
3) età  65 anni,
4) presenza di LIE aberranti,
5) grave danno istologico.
Problemi di trattamento della malattia di Crohn
Nel trattamento della malattia di Crohn (CD), specialmente nelle forme luminali e fistolizzate, si è dimostrato efficace l’anticorpo monoclonale chimerico anti-fattore di necrosi tumorale-alfa (TNF-α) infliximab (IFX) (Targan SR, Hanauer SB, van Deventer SJ, et al. A short-term study of chimeric monoclonal antibody cA2 to tumor necrosis factor α for Crohn’s disease. Crohn’s Disease cA2 Study Group. N Engl J Med 1997; 337: 1029). Questo anticorpo è stato associato a trattamento con immunomodulatori (6-mercaptopurina (6-MP), azatioprina e metotrexato), per proteggere il pazienti dall’immunogenicità dell’IFX; infatti, quando adoperato per trattamenti episodici, IFX può indurre reazioni infusionali e ridurre la durata della risposta terapeutica. È stato in seguito osservato che una terapia di mantenimento con IFX, prolungata per 8 settimane alla dose di 5 mg/kg per via venosa, si associa a ridotta formazione di anticorpi anti-IFX e pertanto consente di ridurre il potere immunogeno di IFX, determinando un condizione di tolleranza verso un anticorpo chimerico come IFX.



Tuttavia, l’esperienza acquisita con l’associazione di immunomodulatori all’IFX in pazienti con CD e anche con altre malattie infiammatorie intestinali (IBD) ha indicato che questa associazione può comportare alcuni eventi avversi come gravi infezioni e neoplasie maligne, come linfomi T epato-splenici (Mackey AC, Green L, Liang LC, et al. Hepatosplenic T-cell lymphoma associated with infliximab in young patients treated for inflammatory bowel disease. J Pediatr Gastroenterol Nutr 2007; 44: 265).
Il problema della necessità e dell’innocuità dell’associazione di immunomodulatori all’IFX in pazienti con CD che si trovano in condizioni stabili da 6 mesi o più, è stato oggetto di uno studio prospettico, multicentrico e randomizzato (Van Assche G, Magdelaine-Beuzelin C, D’Haens G, et al. Withdrawal of immunosuppression in Crohn’s disease treated with scheduled infliximab maintenance. A randomized trial. Gastroenterology 2008; 134: 1861).
Gli autori hanno studiato 80 pazienti con CD, di età superiore a 16 anni, che si trovavano in remissione stabile da 6 o più mesi, in trattamento con l’associazione di IFX e immunomodulatori e che sono stati assegnati con criterio random a proseguire con questa associazione (40 pazienti) oppure a interrompere gli immunomodulatori (40 pazienti).
È stato osservato che la continuazione della terapia immunodepressiva non ha apportato alcun vantaggio nel decorso clinico e nemmeno nel processo di guarigione delle lesioni della mucosa intestina. Tuttavia la terapia associativa ha determinato un prolungato aumento del livello di IFX e una riduzione del livello di proteina C-reattiva (CPR). Inoltre gli autori sottolineano che la prolungata risposta clinica a IFX è stata accompagnata a cicatrizzazione delle lesioni della mucosa intestinale dopo un periodo di 2 anni.

Gli autori segnalano che nei pazienti studiati l’interruzione dei farmaci immunomodulatori, eseguita almeno dopo 6 mesi di trattamento associato con IFX ha dato luogo, nel tempo, a graduale diminuzione del livello di IFX durante la somministrazione di questo farmaco: inoltre l’effetto degli immunomodulatori sulla farmacocinetica di IFX non ha influito, nel corso di 2 anni, sulla risposta clinica; tuttavia è stato rilevato un più elevato livello di CRP nei pazienti che hanno sospeso gli immunomodulatori, livello associato a bassi e non dosabili livelli di IFX e con aumentata necessità di modificare gli intervalli tra le dosi. Gli autori confermano pertanto precedenti osservazioni di un’associazione tra livelli di IFX e livelli di CPR e, inoltre, di associazione di continua riduzione del livello di IFX al di sotto di 2 µ/mL con perdita di remissione sia endoscopica che clinica ( Maser EA, Villela R, Silverberg MS, et al. Association of through serum infliximab to clinical outcome after scheduled maintenance treatment for Crohn’s disease. Clin Gastroenterol Hepatol 2006; 4: 1248).



Gli autori ritengono che l’aumento del livello di CRP rifletta una condizione di “infiammazione subclinica”, poiché è in rapporto con la gravità del quadro endoscopico; per contro, probabilmente, la normalizzazione del livello di CRP, la cicatrizzazione delle lesioni endoscopiche e l’aumento del livello di IFX indicano una remissione almeno della reazione infiammatoria. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per accertare se queste “remissioni cliniche e biologiche” esplichino un’influenza positiva sul decorso della malattia otre i 2 anni. Infatti non è ancora accertato se queste differenze nel livello di CRP e di IFX preludano, nel tempo, a un’accentuata perdita di risposta clinica. A questo proposito viene ricordato che gli studi su un altro anticorpo anti-TNF, adalimumab, hanno indicato che i pazienti che non hanno risposto a IFX, o non l’hanno tollerato, possono non rispondere a un altro anticorpo anti-TNF.
Gli autori non hanno potuto identificare una chiara influenza della formazione di anticorpi anti-IFX sulla farmacocinetica di IFX nel ritrattamento programmato con questo farmaco e, a questo proposito, ritengono che gli immunomodulatori possano influire sulla farmacocinetica di IFX secondo meccanismi diversi dalla prevenzione della formazione di anticorpi.

Concludendo: la continuazione oltre 6 mesi del trattamento associato con IFX e immunomodulatori non esplica un effetto migliore della sua interruzione, nonostante i più elevati livelli di IFX e i ridotti livelli di CRP che si osservano con la terapia associativa; la comparsa di modificazioni della farmacocinetica di IFX e dei marcatori biologici dell’infiammazione dopo interruzione degli immunomodulatori può preludere alla perdita di efficacia della terapia della CD in una consistente percentuale di pazienti. Tale problema dovrà essere approfondito e ­­studiato in più ampie indagini prospettive.